Il fascismo nella riflessione storica di Antonio Gramsci, a 131 anni dalla nascita

Il fascismo nella riflessione storica di Antonio Gramsci, a 131 anni dalla nascita

ACCADDE OGGI – Antonio Gramsci, nato il 22 Gennaio 1891 ad Ales – un piccolo paesino nella provincia sarda di Oristano – è, senza timore di essere smentiti, il pensatore italiano marxista più conosciuto e citato al mondo. Nell’anniversario della nascita vogliamo aprire una riflessione sulla sua vita e sui suoi scritti. 

La sua influenza, cosa che Palmiro Togliatti aveva capito tanto da dedicargli l’antologia Scritti per Gramsci, smentendo così le voci che lo accusavano di osteggiare e ridimensionare la figura di Antonio Gramsci, andò ben oltre i confini, pur larghi, del Partito Comunista Italiano e della sua storia. Dopo che la sua opera fu tradotta in francese, inglese e tedesco negli anni ’70 del secolo breve egli divenne massimo punto di riferimento per tutti gli eurocomunisti antistalinisti, e simbolo di un eroismo titanico destinato a vincere il tempo della storia.

IL PROCESSO AD ANTONIO GRAMSCI

Foto da profilo Instagram @_antoniogramsci

Il filosofo marxista venne incarcerato e condannato a venti anni di prigionia dal governo fascista di Mussolini e l’accusa, durante il processo del 1928, dichiarò:

Dobbiamo impedire a questo cervello di lavorare per vent’anni.

Il suo confinamento in carcere, tuttavia, non segnò il declino del suo pensiero bensì rappresentò il massimo fulgore della sua produzione intellettuale. Il martirio gramsciano, conclusosi con la morte avvenuta a Roma il 27 aprile del 1937 a soli 46 anni, fu un lento ed inesorabile assottigliamento delle sue facoltà fisiche e biologiche, a tal punto che gli caddero i denti non riuscendo più a mangiare cibi solidi, al quale fece da contrappunto ideologico il suo titanismo politico.

La forza del pensiero, della riflessione, l’impianto teoretico del marxismo rivoluzionario e del materialismo storico, la mastodontica produzione di 33 quaderni e tremila pagine di storia, filosofia, economia, politica, pedagogia e strategia rivoluzionaria che andarono sotto il nome di Quaderni dal carcere, rappresentarono la chiave di volta per consegnare definitivamente il suo nome al processo della storia.

Antonio Gramsci in carcere fa politica, quindi non cultura nell’accezione borghese del termine, non è presente in lui un ripiegamento cultural-nozionistico perché sconfitto sul piano politico, dunque, si dedica alla cultura. Non è così. Il fare politico di Gramsci lo si vede chiaramente in rapporto al fascismo e lo si comprende nella sua totalità attraverso l’analisi che Gramsci fa del regime mussoliniano. L’impostazione teorica della riflessione gramsciana sul fascismo non può che riflettere quella di un marxista e, non meno importante, di un leninista.

Egli afferma che il fascismo non era affatto il medioevo, come si soleva dire nel gorgo affollato di quella contemporaneità, non era un passato vomitato e ripresentato in altre forme, e non era nemmeno una transizione politico-governativa inspiegabile e di difficile comprensione. Il fascismo per il nostro Paese non è mai stato qualcosa di estraneo alla nostra storia, non ha mai rappresentato un elemento di eccezionalità e stravaganza, anzi Piero Gobetti lo definì l’autobiografia della nazione, per evidenziare il radicamento di questo modello culturale nella storia patria.

LA VISIONE DEL FASCISMO

Foto da profilo Instagram @_antoniogramsci

Per Gramsci il fascismo deriva da una crisi catastrofica nel rapporto di forza tra le classi, cioè è la risultante del fatto che la borghesia non è più in grado di governare la complessità dell’ente, di ciò che è, e il proletariato non è ancora in grado di farlo. In questo intermezzo, in questa terra di nessuno – tra vecchio che non muore e nuovo che non nasce – si inserisce il fascismo. La borghesia ha terminato le sue capacità espansive e per questo non può più esercitare la pratica di governo in forma egemonica ma, dato che l’implosione del mondo borghese non è determinata da un impulso rivoluzionario socialista, è questa stessa crisi borghese che, in assenza di un intervento animistico del proletariato, si traduce in un feroce controcanto reazionario.

Per Gramsci, la mancata diffusione della rivoluzione marxista in Europa, con la conseguente incapacità del proletariato di trasformare la crisi profonda in processo rivoluzionario, ha condotto a controazioni preventive ed autoritarie per far fronte al collasso del dominio borghese. Dalle forme egemoniche liberali, ottenute attraverso il consenso e rispondendo a un modello democratico di società, ecco che si passa a forme di controllo e dominio aperto.

Il fascismo, quindi, per Gramsci, lo si può scavallare solo e soltanto se il proletariato si arma nella messa in pratica dei suoi compiti storici che sono storicamente maturi, oggettivamente maturi ma soggettivamente immaturi. Gramsci, al contrario di chi affermava l’impossibilità in Italia di porre in essere un processo rivoluzionario per condizioni sociali oggettive, asseriva che la rivoluzione era oggettivamente all’ordine del giorno e che la sua attesa pianificazione ed attuazione era data da un ritardo soggettivo da parte del proletariato e dei comunisti.

Così scrive Gramsci:

«Nel mondo moderno l’equilibrio a prospettive catastrofiche non si verifica tra forze che in ultima analisi potrebbero fondersi e unificarsi, sia pure dopo un processo faticoso e sanguinoso, ma tra forze il cui contrasto è insanabile storicamente e anzi si approfondisce specialmente con l’avvento di forme cesaree (intende dittatoriali). Tuttavia, il cesarismo ha anche nel mondo moderno un certo margine, (…) perché una forma sociale ha “sempre” possibilità marginali di ulteriore sviluppo e sistemazione organizzativa e specialmente se può contare sulla debolezza relativa della forza progressiva antagonistica (…) debolezza che occorre mantenere: perciò è detto che il cesarismo moderno più che militare è poliziesco.»

LA RIFLESSIONE DI ANTONIO GRAMSCI

Foto da profilo instagram @raffaespo

In questo passo c’è tutta la densità di riflessione da parte di Gramsci sul cancro del fascismo. Egli afferma che nel mondo moderno, a lui contemporaneo, lo scontro reale e autentico è quello tra borghesia e proletariato, uno scontro titanico e martirizzante in quanto insanabile storicamente, e tale scontro si acuisce tanto di più quanto la crisi diventa catastrofica, ossia letteralmente generando un mutamento di stato, traslando la borghesia verso la dittatura e l’autoritarismo in forme reazionarie che però, non necessariamente, rappresentano il tramonto della stessa.

Questa, contando e alimentando la debolezza oggettiva del proletariato, può resistere e incessantemente svilupparsi, rendendo così quella fascista una dittatura poliziesca che punta sulla totale debolezza e marginalità della forza antagonista, che deve essere sistematicamente mantenuta.

Ecco che la riflessione di Gramsci sul fascismo, quindi sulla sua contemporaneità, si incastra in un orizzonte rivoluzionario, soggettivistico della classe operaia per poter assolvere al suo compito storico. La concezione di uomo onnilaterale, ossia quell’uomo svincolato da qualsiasi condizione di alienazione e subordinazione, che nel rapporto tra educazione e società trova nella lotta di classe l’appiglio per fare politica.

Una lezione non capita e tradita quella di Antonio Gramsci, ma che resta di un attualismo sconvolgente. Leggerlo, quindi, per continuare a diffonderlo.

 

Claudio Troilo

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