Grazie a MyWhere ho avuto la possibilità di seguire il Festival di Venezia, e dovendo dare la cronaca di una kermesse di tale importanza, con tanti film da recensire ogni giorno e in poche righe, sento ora il bisogno di un momento di approfondimento. E nella scelta di uno dei film di Venezia mi è subito venuto in mente il ritorno di un regista italiano, non prolifico ma d’eccellenza, alla sua ultima fatica: Claudio Caligari. Il film si chiama “Non Essere Cattivo” e purtroppo si tratta di un film postumo per il regista che è scomparso all’età di 67 anni, lo scorso maggio, dopo un lunga malattia.
Un film che sorprende, che lascia l’amaro in bocca e che, non a caso, è stato scelto per rappresentare l’Italia nella corsa agli Oscar 2016 (la serata si terrà 28 febbraio prossimo).
Ambientato a Ostia negli anni 90, (per la precisione a Ostia nuova, tra Ostia e Fiumicino), Caligari concentra il suo sguardo su due amici inseparabili, Cesare e Vittorio: sono due sbandati, che passano le loro giornate seduti al bar a progettare furti, truffe e rapine, a spacciare droga e a scontrarsi con gruppi rivali o semplici malcapitati, ma soprattutto a “calarsi” delle pasticche.
Due sono i riferimenti obbligati: una prima citazione va ai sottoproletari dei primi film di Pasolini (“Accattone”, “Mamma Roma”, peraltro il litorale in cui è ambientata la storia è lo stesso dove Pasolini ha trovato la morte nel 1975); il secondo riferimento va ai tossicomani del ruvido “Trainspotting” di più recente memoria (1996), scaturito dal nuovo cinema inglese.
Nonostante Valerio Mastandrea, anche questa volta produttore del film come lo era stato ne “L’odore della notte”, abbia dichiarato “Girato con l’amore e la cattiveria che la malattia gli imponeva“ il film contiene una “svolta” o l’indicazione di una seppur fragile via d’uscita dal tunnel di disperazione descritto. Ciò avviene quando Vittorio conosce una ragazza madre, va a vivere con lei, e prova a cambiare vita andando a lavorare in nero in un cantiere. Tenta anche di convincere Cesare a seguirlo ma sarà durissima. Quest’ultimo, come se tutto quello che c’è nel film non bastasse, vive anche un lancinante dramma familiare da lui non provocato: sua sorella è morta di Aids e ha trasmesso la malattia alla sua bambina, accudita da una nonna stanca e invecchiata precocemente. Il contrasto tra questo uomo patetico, perso e pericoloso per sé e per gli altri fuori di casa e lo stesso uomo – che si trasforma a contatto con la nipotina malata e ormai allo strenuo delle forze, in un complice fantastico per la bambina che sta crescendo, sempre pieno di sorprese, di attenzioni – è un contrasto sorprendente e al tempo stesso reso credibile.
Segni di vita in un cupo pianeta devastato da una violenza materiale e morale in cui i sopravvissuti brancolano, senza meta, alla ricerca di un’identità con l’unico strumento che posseggono, la loro cultura tossica.
Il film si avvale di una sceneggiatura imbottita di energia, di pugni nello stomaco, di rabbia; la colonna sonora è aggressiva quanto i personaggi del film; mentre la fotografia restituisce un ambiente mediterraneo cupo, svuotato della sua bellezza originaria e degradato. Anche gli attori, in particolare i due protagonisti, sono convincenti e i primissimi piani sui loro occhi dilatati e assediati dai flash della droga finiscono per turbare lo spettatore. Luca Marinelli (Cesare) irriconoscibile rispetto alle sue interpretazioni precedenti (protagonista ne “La solitudine dei numeri primi” e un piccolo ruolo ne “La Grande Bellezza”), caratterizza il suo personaggio con una comicità tutta sua e una voracità con cui azzanna la vita strappandone brandelli come carne viva e Alessandro Borghi (Vittorio), una vera e propria rivelazione, che passa dalle allucinazioni della cocaina alla tenerezza, senza mai perdere credibilità. Il montaggio e i ritocchi finali della lavorazione devono aver molto preoccupato la produzione che però, sapientemente guidata da Mastandrea, è riuscita a rispettare completamente l’ultimo sforzo di questo strano regista che ci restituisce uno sguardo filmico mai distante o distaccato e una mano mai fredda per mostrare questa marginalità estrema. Claudio Caligari (regista, 1948-2015).
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