ROMA – Ultime repliche al Teatro Brancaccino per “Torre Elettra”, il nuovo spettacolo scritto e diretto da Giancarlo Nicoletti e prodotto da Planet Arts Collettivo teatrale. Dopo alcune anticipazioni, ci eravamo ripromessi di vedere questo lavoro perché degno delle migliori aspettative. Siamo pronti a condividere con voi le nostre impressioni in merito e a regalarvi un inaspettato “dietro le quinte”, dopo un incontro con il regista al termine della serata. “Torre Elettra” sarà ancora in scena da Giovedì 26 a Domenica 29 Gennaio 2017.
Cosa accadrebbe se al dramma di una scia di sangue che sgorga da una storia di vendette familiari si aggiungesse quello di una comunità sociale dimentica di secoli di conquiste giuridiche? Quale accostamento è possibile tra il mondo di Oreste ed Elettra e quello della crisi post-moderna che sta attualmente mettendo in discussione le istituzioni in cui viviamo? Questi alcuni degli interrogativi che in fase di anteprima (clicca qui qui) ci ponevamo sull’ultima fatica di Giancarlo Nicoletti.
Occorre del tempo perché, rispetto a domande di questo tipo, nella mente dello spettatore alberghi un buio meno fitto di quello che inghiotte la sala negli istanti precedenti al levarsi del sipario.
Una scenografia minimale, come è tanto in voga nel teatro contemporaneo. L’anonimia geometrica di un mucchio di scatole di cartone da imballaggio è già eloquente sulla realtà che stiamo osservando: quella di un futuro imprecisato in cui l’anonimia esistenziale dei singoli è divenuta anche anomia di questi ultimi rispetto alla legge. L’abbigliamento e la verve regionale di uno dei due personaggi che squarciano la penombra iniziale farebbero pensare a una nipote del “Monnezza” Nico Giraldi. Basta la sua vena caustica, come quella di tanti giovani di borgata cresciuti troppo presto, a farci capire che siamo a Roma. La Città eterna conosciuta dai protagonisti è però molto diversa da quella, pur problematica, a cui siamo abituati.
Imperversa una guerra civile. Le vie sono divenute teatro di continui scontri e tafferugli tra i brandelli di quello che un tempo era lo Stato e il “Fronte Comune”, sorta di movimento rivoluzionario che si è nutrito della rabbia del popolo oppresso e ha stabilito il suo quartier generale in una zona, sita in un ipotetico municipio periferico, il cui nome ricorda quello dell’eroina tragica: Torre Elettra.
Nulla in scena dà rappresentazione visiva dei fatti politici che fanno da sfondo alla vicenda familiare che si sta consumando tra le mura domestiche. Nicoletti condensa efficacemente in circa due ore di narrazione, veicolata dalle sole voci dei sei protagonisti, i punti narrativi salienti dell’Orestea eschilea: Fulvio, il padre di famiglia già scomparso da qualche tempo, guidava il fronte sovversivo e come il re Agamennone ha sacrificato sua figlia in nome di una causa superiore. La vedova Velia è rimasta in casa con Alma, figlia trentenne problematica, mentre Sergio, novello Egisto, ha sostituito Fulvio tanto nella funzione politica quanto nel talamo nuziale. Alma ritiene responsabile sua madre per la fine prematura del padre e come Elettra medita vendetta. Per portare a termine i suoi piani cerca la complicità del fratello Flavio che, appena tornato dall’estero, porta con sé l’odore compassato di un Occidente civilizzato, nordico, perfettamente inscritto nelle regole sociali e giuridiche. Per questo Flavio è molto meno risoluto di Oreste e come l’Occidente di cui siamo figli si dibatte tra il dichiarato adempimento alle proprie responsabilità e l’incapacità di operare scelte definite senza operare una rimozione.
La riflessione sul dramma umano e civile si attualizza a Torre Elettra, intrecciandosi con le diagonali della scenografia mobile e della composizione a tratti iconica in cui sono simbolicamente immortalati i corpi. Il contrappunto di luci e di suoni accompagna adeguatamente la narrazione toccando vividi picchi di alienazione quando la follia prorompe tra gli ambienti domestici. Significativo anche l’accenno su alcune questioni teoriche come quella del ruolo svolto dalla comunicazione nel mondo pre-guerra civile. Nel primo micro-atto, la giovane contrabbandiera Olimpia, che abbiamo conosciuto in apertura insieme all’amico Valerio, si dice intenta a lavorare a un qualche tipo di sistema di trasmissione a circuito chiuso, in cui poter scegliere cosa vedere. Spunto, questo, che potrebbe aprire molte riflessioni critiche sul nostro presente.
Lo sviluppo degli eventi scivola sino al finale ad effetto con ritmo incalzante e senza il minimo calo di tensione. Il contrasto dialettico si impianta su piani paralleli: l’arcaico istinto di vendetta contro le ragioni del vivere comunitario aristotelico; la giustizia privata del diritto naturale contro le tutele dello Stato di diritto; la democrazia nominale, in cui i pochi sottomettono i molti togliendo loro la volontà di reagire, contro la lotta armata in cui torni a scorrere il sangue, cambiando tutto perché nulla cambi davvero…
La prova degli attori, fondamentale in un testo che punta un buon 80% della sua riuscita sulla parola e sui dialoghi, si attesta su ottimi livelli. Ciò a conferma di quanto gli ambienti del teatro italiano siano veri e propri vivai di giovani talenti, che troppo spesso restano in ombra rispetto a tanti volti televisivi non paragonabili, ancorché noti, ai primi quanto al valore artistico.
Queste le ragioni per cui consigliamo caldamente a quanti non abbiano ancora assistito all’ultima fatica di Giancarlo Nicoletti, di recarsi al Teatro Brancaccino nelle ultime repliche di Torre Elettra, che vi saranno da Giovedì 27 a Domenica 29 Gennaio 2017.
Eccezionalmente per il pubblico in sala, al termine dello spettacolo sarà possibile acquistare a un prezzo scontato la raccolta “Trilogia del contemporaneo”, occasione ulteriore per entrare in confidenza con la scrittura di questo giovane regista che, insieme al gruppo di Planet Arts Collettivo Teatrale, sta già dimostrando una consapevole maturità artistica.
Abbiamo infine avuto l’occasione di incontrare da vicino il regista e di porgli alcune domande…
Maestro Nicoletti, il Suo ultimo lavoro drammaturgico porta il nome dell’Elettra del mito greco, ma rispetto a come esso viene sviluppato nei grandi tragici appare molto più evidente la base di ispirazione all’Orestea di Eschilo, più che ad Elettra di Sofocle ed Euripide. La tripartizione della trilogia antica ritorna anche in “Torre Elettra” con i cambi di scena a vista, tecnica molto utilizzata nel teatro contemporaneo e che richiede anche una notevole capacità degli attori nel farsi “ingegneri” delle geometrie scenografiche che cambiano in tempi di record.
Nei primi momenti lo spettatore, è mediamente spiazzato e si chiede che cosa stia effettivamente vedendo e quanto ciò abbia a che vedere con la figlia di Agamennone. Man mano che si entra nel vivo ci si accorge però che non solo la storia è accattivante, ma la si conosceva già negli snodi principali: proviene da quella tragedia antica a cui da almeno mezz’ora di spettacolo nessuno pensava più. Quanto alla geometria degli elementi scenografici e dei corpi che assumono posizioni statiche, come in una composizione iconografica, in alcuni momenti topici del dramma, possiamo dire che essi siano funzionali a meta-comunicare qualcosa dal punto di vista narrativo?
Nelle prime due scene c’è una gestione naturalistica, quasi quadridimensionale dell’azione e degli spazi, come se la quarta parete fosse chiusa. Dal momento in cui la malattia schizofrenica entra in circolo la messa in scena ne risente automaticamente, per cui quello che vediamo sul palcoscenico è funzionale allo sviluppo narrativo.
Anche i colori delle luci seguono questo andamento, variando dalle tinte dell’azzurro dei primi momenti al giallo delle fasi conclusive…
Sì, si passa dalla luce più fredda alla luce più calda, con intervalli di luce naturale e gradazioni intermedie. È una sorta di Divina Commedia al contrario, in cui si sprofonda via via negli inferi della decostruzione degli equilibri e della razionalità.
Per quanto riguarda la struttura drammaturgica, sembra che il personaggio di Flavio-Oreste sia l’unico a discostarsi alquanto dalla traccia eschilea. Oreste aderisce alla causa di Elettra e aiuta materialmente la sorella nella sua opera di vendetta, cosa che Flavio non fa di certo.
In realtà Flavio non è molto diverso da Oreste. Quest’ultimo compie la vendetta fisicamente e in Eschilo c’è la volontà di operare una riconnessione con la dimensione di una giustizia civile, che sfocia nella costruzione di un tribunale che istruisce un regolare processo. Oreste risolve quindi i conflitti degli individui sempre all’interno della società.
Il tema del rapporto tra i diritti del singolo, la tutela di questi da parte di uno Stato e il ruolo persistente di una legge del più forte è attualizzato molto bene in questa messa in scena che coinvolge fino alla fine senza perdere una forte carica riflessiva…
Si tratta in primis di una riflessione che si impianta sull’Occidente e sulla capacità di questo di riflettere su se stesso. Alma si riconnette a un mondo pre-esistente, ancestrale, brutale e “di pancia”, potremmo dire: un mondo fondato più sul diritto naturale che sullo Stato di diritto. Flavio, come Oreste, rappresenta l’Occidente, tant’è che la sorella usa parole forti nei suoi confronti: “Sei un occidentale del cazzo!”. Flavio dal canto suo, di fronte alla richiesta di complicità da parte di Alma è molto ambiguo: “Se ti aspetti che ti dica di sì, potresti aspettare in eterno…”
Flavio rimarca in verità la stessa posizione anche rispetto all’eventualità opposta: “Se ti aspetti che ti dica di no, potresti aspettare in eterno…”. Come mai?
C’è in Flavio una “non-scelta” che è di per sé una scelta, dimostrata dalla chiosa successiva: “Non credere comunque che non mi prenderò le mie responsabilità”. In queste parole il personaggio vuole sottolineare di appartenere al mondo civile occidentale e non a quello arcaico del sangue che ne chiama inevitabilmente altro. La scelta totale e definita è perciò stesso sempre mediata dalla sovrastruttura.
È per lo stesso motivo che Flavio si mostra scettico nei confronti del “Fronte Comune” che ha abbattuto a picconate le istituzioni democratiche, avvertite a un certo punto dal popolo come oppressive?
Certo. Il risultato è che Flavio finisce con l’operare la rimozione, ed è la stessa cosa che fa l’Occidente rispondendo a un intimo bisogno per poter andare avanti quando si trova in crisi.
C’è molta attualità in questo aspetto, su cui si cerca di immaginare, come nel cinema di fantascienza, una possibile evoluzione dello scenario verso una delle peggiori evoluzioni possibili, ossia quella in cui il malcontento popolare ha rovesciato le istituzioni attuali per farsi giustizia da solo e tornare al mondo arcaico di Elettra e di Alma. D’altra parte oggi si sta parlando molto di deriva populista come pericolo di destabilizzazione politica, sebbene il “politically correct” osservato dai media sia molto accurato nell’aver creato un lessico apposito con cui identificare e denigrare a priori chi dissenta da quelle che sembrano linee politiche indiscutibili quanto ineluttabili. Si veda in proposito l’uso onnicomprensivo e manicheo che si fa quotidianamente di termini come “populismo”, “complottismo”, “omofobia”, “razzismo”… Il futuro che ci aspetta sembra dunque a un bivio tra quello orwelliano in cui nessuno dissente più e la dittatura ha conquistato le anime della collettività, e quello alla Mad Max in cui l’Occidente dimentica il suo percorso di conquiste giuridiche e filosofiche ritrovandosi allo stato ferino.
Questo lavoro è moto attuale da questo punti di vista e spero si legga distintamente…
Un plauso va sicuramente fatto agli attori, in gran parte molto giovani, che hanno dato un’ottima prova su un testo di per sé molto efficace. Provengono tutti da accademie di arte drammatica?
Sì, vengono tutti da accademie nazionali e hanno già all’attivo un’abbondante esperienza di palcoscenico, avendo preso parte ai precedenti lavori della “Trilogia contemporanea”. Condividiamo quindi un percorso comune di scelte e di fenomenologia della recitazione da cui partiamo come base per costruire i nostri lavori. In certi passaggi il taglio è molto cinematografico.
Rispetto alle precedenti opere, Torre Elettra vuole muoversi in una direzione diversa?
Apre un percorso diverso, più astratto da certi punti di vista ma restando sempre nella concretezza del racconto.
Si pesca nella tradizione anche nella Trilogia precedente?
Assolutamente. “Kensington Garden” è una riscrittura de “Il gabbiano” di Checov. Non si tratta in quest’ultimo caso di classico nel senso tradizionale del termine, ma siamo sempre nell’ambito dei grandi del teatro. Il lavoro dell’artista è anche quello di sapersi muovere all’interno della tradizione alle sue spalle andando possibilmente oltre.
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