ROMA – Il nuovo spettacolo scritto e diretto da Nicholas Gallo ha debuttato il 25 novembre al Teatro Porta Portese. Lasciare un proprio “testamento artistico” sui difficili giorni della pandemia è stata l’esigenza testimoniata dal giovane regista, che pensa a una nuova tournée.
È sempre vero che, come cantava De André in Via del campo, «dal letame nascono i fiori»? La maggior parte di noi preferisce godersi il risultato finale. Certo è, che il noto grido scaramantico, emesso dietro le quinte anche dall’ultimo attore amatoriale prima di esibirsi, la dice lunga su quanto sia stretto il legame tra il teatro e la materia che dà il titolo al nuovo spettacolo del giovane regista Nicholas Gallo: LE TA ME. La ragione storica è data dal fatto che la presenza di molte carrozze che sostavano davanti ai teatri, significava automaticamente avere molti spettatori in sala. Ovviamente le carrozze, essendo trainate da cavalli, lasciavano anche inevitabili “tracce” dietro di sé. Ecco il perché del carattere benaugurante, per gli artisti di teatro, l’avere tanta ***** la sera dello spettacolo. Ai giorni nostri, invece, Gallo rovista con la sua scrittura nelle pieghe del brutto con il quale un anno e mezzo di pandemia ci ha costretto a fare i conti. Ognuno nel chiuso dei suoi interminabili mesi di isolamento forzato. Placata l’ebete litania di gruppo dell’«andrà tutto bene» e al netto dell’amara realtà che la genuina cattiveria di molti prosperi tanto e più di prima, i protagonisti di LE TA ME si interrogano insieme allo spettatore su quanto di autentico sia rimasto nella nostra vita, cosa sia la bellezza e se vi siano al mondo rapporti in cui credere. Gli attori Fabio Camassa e Demian Aprea, dialogano oziosamente in una deprimente e rarefatta atmosfera domestica, che potrebbe essere il salotto dell’appartamento di qualunque trentenne incerto sul proprio futuro. L’isolamento dei personaggi e il loro progressivo crollo è ritmato da freddi bollettini dei media che notificano i numeri dei morti senza nome e comunicati istituzionali emanati da un’unica voce dell’informazione. Collante fra gli elementi, la chitarra di Federico Lisi, che conduce al finale isterico con cui si impone una nuova disumana normalità, ormai attaccata alla nostra pelle da accarezzare o grattare a sangue.
Al termine dello spettacolo LE TA ME, il regista Nicholas Gallo ha raccontato dettagli sul dietro le quinte, dando un messaggio ottimistico sulla graduale ripartenza del teatro
Quale esigenza ti ha portato a scrivere questo spettacolo?
Quest’estate, appena ho sentito di probabili nuove chiusure ho avuto paura che l’incubo non finisse più e stessimo per tornare all’inizio del 2020. La prospettiva di un nuovo periodo in cui non poter andare in scena mi ha fatto sentire ancor più l’urgenza di scrivere cose che avevo dentro e di lasciare una testimonianza artistica di un anno di lockdown vissuto dal mio punto di vista e da quello di tante persone che mi hanno raccontato la loro esperienza.
Siamo potenzialmente vittime della follia dei personaggi anche nella nuova normalità di oggi?
Sì, anche oggi vedo tanta irrazionalità nella gente, sia nei comportamenti che nelle idee. Non voglio schierarmi nell’attuale dibattito politico. Quello che mi interessa è mettere in luce certe dinamiche a livello umano.
Il titolo dello spettacolo è piuttosto coraggioso. L’immagine del fiore che nasce dal letame, come dice anche uno dei protagonisti è metafora del fatto che la bellezza il più delle volte si nasconde tra le brutture della vita. LE TA ME rappresenta di più un tuo bisogno di liberarti da un peso o la volontà di dare un messaggio di speranza agli altri?
La mia prospettiva è quella di dovermi abituare insieme allo spettatore allo schifo, alla disumanizzazione generale a cui assistiamo. Da questo deriva l’abbracciare questa condizione, che ci accarezza la pelle.
Dobbiamo semplicemente abituarci alle cose brutte?
Purtroppo questa nuova realtà sempre meno a misura d’uomo sta diventando “normale” per noi e al momento non vedo prospettive ottimistiche. Ogni giorno una voce ci riempie di dati e disposizioni da eseguire, mentre incombe una costante paura. A mia volta ho perduto parenti a causa del Covid e ho vissuto in prima persona il dramma di tante famiglie.
Nei dialoghi si parla molto della solitudine e del fatto che siamo solo numeri. C’è anche un’alternanza tra la ricerca del benessere individuale e la felicità intesa come voler bene agli altri. Cosa intendi esattamente?
In realtà questo passaggio uno dei protagonisti si riferisce direttamente all’amico, di cui è innamorato. C’è un doppio binario nel dialogo, che riguarda anche gli affetti privati, ma in chiave molto discreta. Questa altalena tra affetti e solitudini si consuma sullo sfondo dell’immagine delle case, le cui finestre sembravano grandi occhi sul mondo.
Continuerai a scrivere di questi temi?
Per ora no. Sto lavorando a un nuovo spettacolo, completamente diverso. Sarà molto basato sui dialoghi e quasi per nulla sugli effetti scenici stranianti. Tratterà delle dipendenze digitali, nate ad esempio dall’uso smodato dei social network. Non a caso i personaggi saranno una giovane e un anziano, che mostreranno un incontro tra due generazioni, due visioni del mondo e due bagagli esperienziali diversi.
Quando uscirà?
Molto probabilmente l’anno prossimo, dopo la tournée di LE TA ME, che si arricchisce man mano di nuove date per via delle richieste di interesse che mi giungono.
Quali saranno le prossime tappe?
Molto probabilmente saremo a Ostia, Padova, Milano, Faenza e Castellammare di Stabia… Un tour da Nord a Sud.
Quanto è importante la lezione dei grandi con cui hai lavorato in passato per il tuo modo di fare teatro?
Moltissimo. Sono tante le persone che devo ringraziare: da Gennaro Colangelo, docente universitario e direttore di numerosi eventi artistici in Italia e all’estero, a Sergio Pisapia Fiore, che lavorò a lungo con Giorgio Albertazzi. Poi le esperienze con Paola Gassman, Ugo Pagliai, Ferzan Ozpetek e altri grandi, sono stati per me una grande palestra, dove apprendere professionalità indispensabili per affrontare degnamente questo mestiere.
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