Yves Saint Laurent. Come si crea e perpetua un mito

Yves Saint Laurent. Come si crea e perpetua un mito

PARIGI – Ultime settimane delle grandi mostre organizzate a Parigi dedicate a Yves Saint Laurent nei più prestigiosi musei della città

 

1. Se prendiamo come punto di irradiazione la data della prima sfilata di Yves Saint Laurent ovvero 29 gennaio del 1962, possiamo dire che in questi primi mesi del 2022 ricorrono i sessant’anni dalla nascita della sua griffe della moda, anche se dal punto di vista burocratico la formalizzazione della società proprietaria della marca avvenne il 14 novembre del 1961.

Quindi non è certo per caso che a Parigi dal 29 gennaio del corrente anno si sia aperta al pubblico una grande “mostra diffusa” intitolata Yves Saint Laurent aux Musée, e dal momento che si tratta senza dubbio di una tra le più influenti marche della seconda metà del novecento, l’evento sembra una scontata celebrazione. Ma perché magnificare i sessant’anni e non qualsiasi altro decennio? Diciamo che un percepibile “ordine” numerico, fa parte della ricerca di congruità della “narrazione” che anticipa, poi accompagna come un’ombra i grandi eventi e infine li prolunga nel tempo, fornendo ad essi la legittimità del senso ordinario delle cose: infatti suonerebbe strano celebrare i 59 anni perché l’evento correrebbe il rischio di essere percepito come qualcosa che semplicemente avviene nel tempo, senza in realtà appartenergli fino in fondo.

Comunque la vediamo,  la Fondazione Pierre Bergè, il cui Presidente Madison Cox è tra i curator della mostra,  in collaborazione con sei prestigiosi Musei parigini, in una congiuntura storica significativa, anche la Francia e Parigi infatti hanno bisogno di ripartire a tutta forza dopo le forzate inerzie provocate dal COVID al turismo, la Fondazione voluta dal socio e compagno di una vita dello stilista, dicevo, ha colto prontamente il momento per rilanciare il mito di Yves Saint Laurent con una “mostra diffusa” spettacolare e complessa, per certi versi mai vista prima. È noto che molti couturier e stilisti a partire dagli anni ottanta in poi sono stati celebrati con esposizioni nei più importanti musei al mondo. Ma nessuno personaggio della moda ha mai avuto a disposizione ben 6 grandi musei che simultaneamente ne hanno esaltato l’impatto storico, la bellezza degli abiti, la creatività. Le istituzioni museali che stanno ospitando la straordinaria mostra Yves Saint Laurent aux Musées sono il Louvre, il Musée d’Orsay, il Centre Pompidou, il Musée d’Art Moderne di Parigi, il Musée National Picasso-Paris e il Musée Yves Saint Laurent Paris.

L’idea dei curatori della mostra e del management dei musei è ambiziosa e semplice da capire: celebrare la centralità di Parigi come capitale del turismo culturale e della moda e al tempo stesso effettuare una manutenzione efficace alla narrazione mitica che ci presenta Yves Saint Laurent come un genio della couture, trasformando la visione delle sue preferenze artistiche in processi induttivi, tali da certificare per i suoi atti creativi il fascio di qualità normalmente attribuite all’arte. Infatti, avanzo la congettura che il capo spalla istallato in prossimità di un quadro di Picasso (fig.1), pittore tra i più amati dal couturier-stilista, non ci mostra solamente la citazione artistica fonte di tante sue ispirazione (fig.2), bensì avrebbe il compito di stabilire un parallelismo artistico tra lui e il più celebre pittore del novecento. Dal parallelismo discendono poi a cascata le estensioni induttive: se A (il quadro di Picasso) è arte, allora lo è anche B (la giacca di Yves); ancora, se entrambi sono marcatori di una creatività assoluta allora tutto ciò che si presenta col loro nome (anche gli scarabocchi) rientrano nell’aura privilegiata che circonda gli oggetti più mitizzati dalla nostra forma di vita.

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Fig.1- Istallazione creata esibendo un abito di Yves Sant Laurent al Musèe Picasso di Parigi

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Fig.2- Capospalla di Yves Saint Laurent e il quadro di Picasso

Malgrado i filosofi ci allertino da parecchio tempo sui rischi dell’induzione (essa produce infatti false certezze) c’è da dire che il “pensiero veloce” dominante tra il senso comune non cessa di credere alle generalizzazioni causate da percezioni che sembrano alimentare il nostro bisogno di “illusioni”. E malgrado gli errori ai quali ci condanna l’autonomia di certe percezioni rispetto a più mediate interpretazioni, è sufficiente una quota minima ma crescente di creduloni, dicono gli psicologi sperimentali, per far sì che gli effetti di queste illusioni si diffondano come un contagio, trasformandosi in “fatti significativi” che a loro volta possono facilmente produrre una strana efficacia simbolica nei dintorni di una marca.

So benissimo che si potrebbe obiettare ai miei argomenti dicendo che semplicemente i curatori volevano mostrare la passione di Yves Saint Laurent per l’arte e suggerirci che le sue performance nella moda dipendevano in gran parte da intuizioni da esteta visionario piuttosto che da speculazioni su possibili tendenze o maneggiamenti marketing.

Non nego la plausibilità di queste obiezioni. Tuttavia, a livello di fruizione percettiva del pubblico se penso alle conseguenze inintenzionali di un progetto espositivo di queste proporzioni, mi riesce difficile non pensare che il target dell’evento non coincida con la glorificazione di Yves Saint Laurent come artista visionario e geniale creativo.

Purtroppo è tristemente noto che basandoci solo su percezioni ci sbagliamo quasi su tutto. Spesso cogliamo gli stimoli fisici in modo distorto: ricerche psicofisiche ci allertano sul fatto che sovrastimiamo determinati effetti e ne sottostimiamo altri.

Quindi a mio avviso i curatori della mostra sapevano benissimo che esporre creazioni di Yves Saint Laurent nei Musei citati avrebbe distorto la traiettoria cognitiva razionale di buona parte del pubblico (l’arte come ispirazione per abiti eleganti) polarizzandola su una interpretazione romantica (abiti come opere d’arte) dalla quale discende l’inevitabile idea che il couturier in questione sia un artista che sfugge alle usuali coordinate storiche, collocandosi tra gli enigmatici voleur de feu dei quali ci parlava Rimbaud nella famosa lettera inviata all’amico Paul Demery (15 maggio 1871): ovvero presentandosi ai posteri come un Prometeo incatenato e torturato da un rapace che gli frantuma le viscere, capace di trasformare il dolore in una luce che illumina luoghi tenebrosi inaccessibili agli umani. Come scrive Quirino Conti nel suo coinvolgente libro “Mai il mondo saprà” (Feltrinelli 2005) rifacendosi ad una citazione amata da Yves Saint Laurent e tratta dalla Recherche di Marcel Proust, il couturier si considerava uno dei tanti personaggi di genio appartenenti alla famiglia degli énervés. “Tutto ciò che abbiamo di grande ci viene dai nervosi:sono loro e non altri che hanno fondato le religioni e creato capolavori. Mai il mondo saprà quanto deve loro; e soprattutto quanto hanno sofferto per produrlo” – scrive Proust, rifacendosi a teorie antiche che forse risalgono al testo attribuito ad Aristotele sulla malinconia dell’uomo di genio.

In realtà io penso che il “rapace” o “l’énervé” di Yves Saint Laurent fosse semplicemente l’abuso di droghe e di alcol che gli rovinarono la vita: probabilmente gli addictum prima fecero decollare in una bolla di eccitazione la sua creatività, per poi reclamare un prezzo salatissimo alla sua salute mentale (già strutturalmente incrinata da fragilità sulle quali le droghe e l’alcol potevano giocare ad essere sia una sorta di analgesico e sia fonte di rischiose e degeneranti patologie psichiche).

Anche se oggi il couturier/stilista è ben più di una leggenda nella moda fatta solo di chiacchiere e di narrazioni in stile giornalistese, tutti gli studiosi del settore infatti lo accreditano giustamente come uno dei massimi creativi del ‘900, conviene ricordare che i suoi abiti, il suo stile e la sua creatività, hanno realmente primeggiato per poco più di una decina di anni ovvero dalla metà degli anni sessanta fin verso la fine dei settanta. Dopo, come ho già scritto sopra, gli effetti di uno stile di vita estremo e delle droghe cominciarono ad essere devastanti, tanto da limitare di gran lunga il suo apporto creativo. Dagli anni ottanta in poi il brand ha potuto sopravvivere solo grazie all’abilità operativa, finanziaria di Pierre Bergè e alla devota partecipazione delle collaboratrici storiche del couturier/stilista.

Evidentemente Yves Saint Laurent anche dopo le crisi sanitarie, quando stava bene, disegnava e supervisionava le collezioni dando ad esse le armoniche della bellezza che contraddistinguono il suo stile. Ma credo che gran parte del lavoro strategico e operativo sfuggisse al suo controllo. Soprattutto non aveva più la lucidità di intercettare la domanda delle nuove protagoniste generazionali: i suoi abiti rimanevano eccezionalmente eleganti ma non rappresentavano più né l’avanguardia e né il cluster di clienti che facevano mercato. Quando la stampa faceva domande sul distacco che le sue collezioni manifestavano nei confronti di ciò che sembrava interessare alla gente, Yves rispondeva dicendo che non era più motivato a dialogare con nuove generazioni di clienti, dal momento che tutte le sue attenzioni andavano nella direzione di un perfezionamento dello stile YSL. In questo modo il couturier-stilista legittimava l’uso di concetti moda recuperati nei suoi archivi, rendeva plausibile il ricorso a modelli del passato revisionati con dovizia…Ma ritengo che la spiegazione più plausibile di questa auto-referenzialità vada cercata in ciò che in modo forse troppo brutale ho esposto sopra: droghe, alcol e depressione avevano irreversibilmente minato lo slancio creativo di Yves, consentendogli quando stava bene di immergersi nel fantasma femminile che ancora riusciva ad appagarlo (l’éternel féminin), interrompendo per un pò i vuoti interiori pieni di struggenti melanconie e depressioni.  L’aggrappamento all’ideale immagine di Donna che lo salvava dalla depressione produsse abiti couture di rara bellezza e perfezione. Ma dubito che il tipo ideale di Donna che dagli anni ottanta in poi dominerà l’immaginario occidentale rientrasse nei canoni configurati da Yves. Il mito dell’eterno femminino risale al Faust di Gorthe nel quale leggiamo che la redenzione del protagonista è causata dall’amore di Margherita… Nel verso finale del poema, Goethe scrive: Das Ewig-Weibliche zieht uns hinan (L’eterno femminino ci trae in alto). È chiaro che la spinta all’elevazione causata da una Donna animata da un amore totale e sacro, immerso nella (sua) natura, nel caso di Yves, assume i connotati di una sublimazione estetica che trascina la bellezza talmente in alto al punto di perdere i contatti con il soggetto del femminile nella post-modernità. Non credo che ai nuovi gruppi di pressione formati, a partire dalla metà degli ottanta, da donne alla ricerca di potere vero (non il soft power della bellezza), da neo femministe che odiavano la cultura della moda, da chiassosi soggetti emergenti come gli LGBTQ, non credo, dicevo, che ad essi interessasse più di tanto l’èternel fèminin.     Il suo brand rimaneva autorevole ma la sua efficacia dipendeva sempre più dall’aura mitica che lo circondava piuttosto che da concetti moda innovativi. Come tutti i miti anche quello di Yves Saint Laurent  aveva sua “verità storica”. Come ho già detto per una decina di anni fu il creativo più acclamato del pianeta. Ma dal punto di vista della “verità materiale” è difficile disconoscere che Coco Chanel ebbe una notorietà e un impatto più consistente, così come il suo maestro Dior esercitò nel suo tempo (1947=1957) un dominio molto più esclusivo. Senza contare che dal punto di vista della tecnica sartoriale, couturier come Madame Vionnet, Charles James e Balenciaga probabilmente gli furono superiori. Dagli anni ottanta in poi non si può dire che Yves Saint Laurent fosse un punto di riferimento particolarmente importante: molto più di lui lo erano i giapponesi (Kawakubo e Yamamoto), J.P. Gaultier, Mougler, Armani, Vivienne Westwood…negli anni novanta, divennero strategici Margiela, Prada, Gucci (Tom Ford), Galliano, McQueen, ovvero stilisti che lavoravano spesso con il rovescio della bellezza elegantemente glamour che disperatamente e polemicamente Yves Saint Laurent nei momenti di lucidità difendeva. Quando nel 2002 si ritirò definitivamente (Pierre Bergè aveva ceduto completamente il controllo del brand a Gucci qualche anno prima) il suo abbigliamento perdeva costantemente fatturato e interesse. Le ferite al bilancio della sua azienda erano cauterizzate dallo strabiliante successo dei suoi profumi. Ma la grandezza di un couturier/stilista non è mai stata decisa dal pur importante mondo degli odori, anche se un profumo di successo certamente rafforza il processo di mitizzazione (penso al N,5 di Chanel). Eppure il nome di Yves Saint Laurent continuava a circolare come un mito. Perché? Attraverso quali esperienze si perpetuava una narrazione glorificativa per certi aspetti molto distante dai fatti della moda?

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Fig.3- Yves Saint Laurent esposto al Musée d’Orsay

2. Roland Barthes, negli anni in cui Yves Saint Laurent creava le premesse per il sua successo, proiettando le conoscenze prodotte dalle scienze linguistiche su fenomeni di socializzazione, proponeva di concepire il processo di mitizzazione partendo dalla coppia di concetti denotazione/connotazione:  con la prima intendeva riferirsi alla correlazione di base di ogni linguaggio ovvero tra un’espressione e il suo concetto; la connotazione invece sarebbe la sovrapposizione di un senso secondo al primo nodo semantico. In altre parole, quando connotiamo innestiamo nuovi contenuti che narcotizzano il concetto di partenza, deviandone e il senso. Oggi, preferiamo parlare di narrazioni o storie che incatenandosi possono far emergere significazioni mitiche che svuotano il piano dell’espressione dai concetti originari, collocandovi fenomeni di testualità percepiti come reali o conformi alla natura della situazione in oggetto.

Da un certo punto in poi, la specificità di Yves Saint Laurent, ovvero i suoi abiti, le sue collezioni e le performance di mercato, sono divenute meno significative se paragonate alle valenze generate dal suo nome o marca.      Se prima era soprattutto la qualità dell’atto moda del couturier a generare la dimensione del concetto di stile che lo classificava come creativo, avanguardia, tendenza…dopo, divenuto mito sono state le narrazioni a classificarne il valore e per estensione sostenere i fatturati.

L’emersione della dimensione mitica del couturier non ha un’unica sorgente. È strettamente legata all’intreccio tra atti moda di grande importanza storica e l’interesse maniacale di un giornalismo di settore alla disperata ricerca di squilli creativi spacciati per “rivoluzionari”, “estremi”, “trasgressivi” ovvero notiziabili (la moda buona, ordinata, semplicemente bella secondo gli standard del senso comune, ha scarso interesse per le testate del settore: lo spazio ad essa dedicata sono le pagine della pubblicità e i redazionali a pagamento più o meno occulto). L’interesse delle redattrici delle riviste più influenti dava il via libera ai fotografi più bravi le cui immagini e reportage incapsularono i suoi look e la sua marca nel campo emotivo dal quale può emergere la mitizzazione. Credo che tutti i più grandi fotografi del periodo abbiano collaborato con YSL. Provo a citarvene alcuni dei quali ricordo le splendide foto: Avedon, Penn, Newton, Guy Burdin, William Klein, David Bailey, Hiro, Norman Parkinson, Horts P. Horts, Gian Paolo Barbieri, Sarah Moon, Duane Michals, Jeanloup Sieff, Arthur Elgort, Frank Horvat, Peter Lindbergh, Bruce Weber…e tanti altri. Le narrazioni visive di questi straordinari interpreti della foto di moda sono state determinanti per la semantica emozionale del processo di mitizzazione, almeno quanto gli abiti del couturier. Nella società contemporanea l’attenzione dei pubblici è polarizzata dai media, i quali usano consapevolmente tattiche e strategie basate sulle immagini. Succede frequentemente che siano proprio determinate fotografie a rendere immensamente famosi alcuni personaggi.

La foto di Jean Loup Sieff che riprendeva Yves completamente nudo è una di queste.

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Fig.4- Jean Loup Sieff nel 1971 riprese Yves Saint Laurent nudo per pubblicizzare il suo profumo.

Ma sappiamo anche che a partire dal tardo novecento il mondo si è saturato di immagini e quindi la loro efficacia o impatto tende a liquefarsi.

Possiamo senz’altro dire che molte fotografie di moda creano desiderio e contribuiscono a mitizzare qualcosa o qualcuno. Ma la loro diffusione ci rende insensibili. Il loro potere di amplificare ciò che è preso nel loro ingranaggio è reale. Ma è un potere che va costantemente patteggiato con il pubblico.

Quindi, sulla scorta delle considerazioni fatte sulle immagini, possiamo dire che il tipo particolare di energia semiotica messo in opera dai miti contemporanei ha una natura profondamente dissipativa. Per questo motivo la sua base espressiva o Significante deve essere costantemente alimentata da nuove narrazioni.

Quando Pierre Bergè prese atto delle difficoltà di Yves Saint Laurent nel reggere la parte che aveva mirabilmente interpretato negli anni nei quali aveva incarnato il mito del creativo romantico e trasgressivo, ebbe una intuizione geniale.  Grazie alla fondamentale collaborazione di Diana Vreeland responsabile del Costum Museum del MET, estimatrice e amica di Yves quando era direttrice di Vogue America, riuscì a far organizzare in una delle istituzioni museali più importanti al mondo la più grande retrospettiva dedicata interamente a celebrare la creatività del couturier francese. Per la prima volta veniva concesso ad uno stilista vivente l’accesso ad uno dei templi dell’arte contemporanea, in una città simbolo dell’estetica occidentale. L’impresa suscitò molte polemiche sul suolo americano per i probabilissimi ingenti incentivi in denaro (sponsorizzazioni, of course), messi in campo da Bergè per convincere chi nel museo era refrattario ad accettare questa scelta. Ma c’è da dire che sia lui che la Vreeland avevano ragione: la gente oramai da tempo percepiva l’eccellenza della moda come una forma d’arte; l’immenso pubblico coinvolto nelle scelte di stile dell’abbigliamento aveva soltanto bisogno che qualcuno glielo presentasse in assetto evento. Il successo della mostra fu straordinario. Yves Saint Laurent appariva al vasto pubblico come un genio creativo di primo livello. La sua valenza non era più parametrata alle tempistiche della moda. La sua dimensione Significante (la sua marca) non prendeva valore solo dal mercato o da criteri quantitativi, non aspirava ad essere o meno di tendenza…Ora un velo di gloria e di eternità era calato sul Nome Proprio divenuto il Significante della marca (YSL) proteggendo il suo mito dalla tragedia un uomo distrutto dalle droghe, dall’alcol, dalle depressioni.

3. Aldilà delle mie congetture sulle motivazioni e sull’impatto delle strategie evenemenziali connesse con l’uso della grande arte (sancita dall’autorevolezza dei Musei-mondo), c’è  da dire che i biografi del grande couturier/stilista hanno scritto pagine significative sulle costante contaminazione tra arte e abiti nel personale laboratorio creativo del couturier.

Yves Saint Laurent amava certamente l’arte e nel corso della sua vita divenne un collezionista di opere di ogni tipo e di gran valore. Ma aldilà del suo piacere cosa motivava le numerosi interrelazioni che intratteneva con le sue preferenze estetiche? Avanzo l’ipotesi che attraverso l’arte una parte della sua mente cercasse la gloria e l’immediato contatto con qualcosa che purificasse il mestiere di chi crea abiti, dal fondo materialistico e pragmatico che connota chi produce “oggetti per il corpo” (e non da appendere a una parete).

In realtà, se ci pensate bene la bellezza degli abiti di Yves Saint Laurent ha quasi sempre una valenza ortopedica nel senso che sono pensati per correggere/sublimare il corpo. Effetto che si può intendere anche come una negazione del corpo reale, proposta però con l’intento di elevarlo. Iscrivere contenuti artistici nella struttura dell’abito significa bucarne la superficie per farvi emergere il mito del genio creativo che lancia la sua sfida al tempo discontinuo delle mode collocandosi idealmente aldilà di esse.

Quindi esiste senz’altro una “verità storica” contaminata o addirittura creata dalla mitizzazione; una narrazione che via via cresce sulle spalle di una “verità materiale” riscontrabile tra le creazioni che, in un certo senso, hanno traumatizzato la moda reale (per reale intendo l’abito indossato, venduto, che cambia trattorie estetiche ed estesiche dello stile di vita della gente). A partire da questo intreccio, abbiamo poi assistito, alla proliferazione di un immaginario che progressivamente velava i fatti reali per innalzare il couturier/artista nell’Olimpo dei grandi visionari, per i quali la legittimazione non dipende più da ragionamenti razionali ma da derive emozionali. Buona parte di questo lavoro semiotico e passionale è stato fatto dalla fotografia di moda e dal clamore mediatico attivato dalle sfilate. Ma come ho già scritto, la trasduzione delle cose in segni o simboli, nelle società dello spettacolo, ha un prezzo che possiamo etichettare con il termine dissipazione. In altre parole le cose della moda divenute segni, circolando tra gli umani  con meno attriti si svuotano velocemente di senso e di energia emotiva.   A questo punto possiamo comprendere il perché le mostre nei luoghi sacri per l’arte ha convinto le marche della moda ad investire ingenti risorse. La strategia basata sull’uso dei Grandi Musei (mostre ed eventi) catalizza l’energetica del mito ( eventi, ritorni stampa immensamente più efficaci della pubblicità ordinaria, presenza con il catalogo nelle librerie più importanti…) e nel corso del tempo ne assicura la manutenzione.

4. La “mostra diffusa” su Yves Saint Laurent sarà senz’altro uno degli eventi moda più significativi dell’anno in corso. Verrà ospitata da altre città/mondo generando uno tsunami mediatico difficile da emulare per altre marche della moda. E proprio per questo merita di essere analizzata aldilà del piacere prodotto dalla visione degli abiti concepiti dal grande couturier, maestro di armoniosa bellezza anche quando i suoi look sconfinavano dalle regole fin lì accettate.

Se osservate con sufficiente attenzione le immagini di alcuni allestimenti nelle sedi museali citate, per esempio quello mostrato dalla immagini in coda a questo articolo, credo che come è successo a chi scrive, non possiate evitare l’impressione che la significazione dell’abito esposto cambi in modo radicale rispetto le aspettative generate dalla presa in visione dello stesso oggetto esibito in un contesto meno intrusivo.

Voglio dire che quando focalizziamo  la visione di un abito esibito in una mostra dedicata alla moda, la nostra mente percepisce nel pattern catturato dallo sguardo, una struttura fantasma presa in un gioco di presenza/assenza, dalla quale si irradiano le funzioni dell’abito (portabilità, usabilità, stile, eleganza, bellezza…); questa struttura che non c’è normalmente l’ancoriamo all’emersione di una certa idea di corpo e può essere rinforzata da un manichino o da supporti quasi invisibili. Infatti per noi riesce difficile separare ciò che percepiamo (ad esempio, un abito sostenuto da un qualsivoglia supporto) dalla sua interpretazione (un abito creato per un corpo provvisto di determinate qualità: alto, magro, decontratto, rigido…). Insomma, percepiamo le affordances dell’abito proprio perché l’insight del corpo fantasma ci invita a coglierne la congruità e non solo la bellezza formale.  Ora, cosa succede se nel campo visivo entrano altri oggetti di tipo logico diverso (quadri, sculture, decorazioni) e se l’assetto ambiente si sovraccarica di significati emotivi e cognitivi? In questo caso il fantasma del corpo evapora e al suo posto emerge un “oggetto tutto superficie” che rimanda direttamente a valori artistici che trascendono l’incidente organico manifestato dalle affordances dell’oggetto o forma in assetto vetrina.

L’abito esposto in un prestigioso contesto che grazie a istallazioni dominate da distonie e anacronismi storici, può divenire monumento, reliquia, forma estetica, relegando le estesie o le percezioni del sentire che i bravi stilisti sanno indovinare e orchestrare mentre lo creano addosso ad un corpo reale, ebbene questo fascio di percezioni, dicevo, vengono relegate in una specie di sfondo indifferenziato, come se quell’idea di corpo ideale dalla valenza ortopedica rispetto al corpo reale, dalla quale partiva il calcolo o la misura dell’atto creativo, fosse in realtà un banale epifenomeno di qualcosa di più grande, misterioso, ineffabile, dimensioni queste che per molti equivalgono ad un diretto riferimento all’arte.

Naturalmente non nego il piacere visivo che promana dalla relazione di contiguità tra abiti e altre opere artistiche (pittura, scultura, architettura di interni…)  soprattutto se esposte in un ambiente, come un museo, che spettacolarizza e, nelle stesso tempo, sacralizza entrambe. E tantomeno ne sottovaluto l’effetto scalare per la nostra percezione. Il famoso abito della collezione Mondrian del 1965 esposto al Musée Pompidou di fianco alla altrettanto celebre opera di Mondrian (fig.5) non genera solo un parallelismo tra valenze espresse da forme e materiali in realtà molto diversi, e tantomeno è riducibile a una banale addizione di valori; bensì l’allestimento cambia l’assetto percettivo dell’oggetto, creando la disposizione nel soggetto a vedere l’abito come una diretta espressione di un conato artistico. In questo modo gli oggetti per il corpo di Yves Saint Laurent non sono più degli eventi che fluttuano nel tempo storico ma divengono parte o addirittura la condizione dell’esistenza stessa del tempo (della moda). In questo senso la sua effigie (i segni che configurano la sua marca) diviene monumento e mito di una creatività assoluta, visionaria, geniale.

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Fig.5- Il parallelismo estetico Mondrian/Yves al Musée Pompidou

Anche se oggi, succede spesso che i curator giochino con la contaminazione tra abiti e oggetti artistici di diversa valenza, sfruttando l’effetto magico di anacronismi e contaminazioni più o meno arbitrarie, in questa sede vorrei semplicemente sottolineare che con questo stile espositivo si corre il rischio di far passare in secondo piano l’evocazione del rapporto tra abito e stile del corpo, che considero centrali non solo per l’estetica dell’abbigliamento ma anche per l’economia del desiderio che la fonda: normalmente noi compriamo abiti per indossarli e non per appenderli ad un muro. La misura della loro eccellenza dovrebbe emergere dall’integrazione della forma dell’abito nell’esperienza che lo rende partecipe di un vissuto umano. E quindi la sua specificità è di non essere tanto o solo “un’opera” bensì di assurgere al suo significato precipuo attraverso l’esibizione del corpo.

Tuttavia è pur vero che in determinate circostanze creare un confronto tra Gestalt eterogenee (abito V/S opera d’arte) permette di esplorare percezioni e cognizioni che suggeriscono significazioni che trasformano entrambi gli artefatti in gioco: l’abito diviene forma simbolica di una impressione che lo sublima e lo eleva dal regno materiale degli oggetti per il corpo ad espressione di una creatività ammantata da note di purezza; per contro l’opera artistica messa in tensione da un artefatto fondato su un immaginario che segue contorni umani, sembra evadere dalla prigione dorata del museo proponendosi su un registro percettivo ed esperenziale che favorisce la sua fruizione presso il pubblico meno preparato o addestrato a modulare la visione di un’opera per goderne dell’ineffabile senso.

5. Per avviarmi alla conclusione della mia lettura critica delle mostre parigine e per evitare fraintendimenti, vorrei precisare che colloco certamente Yves Saint Laurent tra i massimi interpreti della moda nella seconda metà del novecento. Ma ritengo che non vada esagerato il suo posizionamento nel contesto della narrazione storica. La sue competenze sartoriali non si discutono; tuttavia relativamente alle generazioni di couturier che lo hanno preceduto, come ho già affermato sopra, ovvero madame Vionnet, Dior, James, Balenciaga ai quali aggiungerei almeno due nomi di suoi contemporanei,  Miyake (nato nel 1938) e Capucci (nato nel 1939), a mio avviso dal punto di vista strettamente tecnico lo sopravanzavano. Coco Chanel e Dior ebbero un impatto sul loro tempo molto più significativo e per quanto riguarda l’arte applicata alla struttura degli abiti, Elsa Schiaparelli o il già citato Capucci certamente non hanno nulla da invidiargli. L’ondata di info-chiacchiere magnificative in formato giornalistese, che regolarmente si alza a partire da mostre/evento come quelle dalle quali sono partito, sostanzialmente gli attribuisce l’invenzione del pret à porter di lusso. È falso, o se volete si tratta di una imprecisione che cancella per esempio, le intuizioni di Pierre Cardin; cancella i creativi della moda Made in USA degli anni trenta/quaranta dove il pret à porter era nato; cancella la moda/boutique di Mary Quant, Biba…Insisto col dire che dopo gli anni ottanta del secolo scorso le sue collezioni non reggono il confronto con altri protagonisti che hanno saputo interpretare meglio la deriva degli stili di vita…Vi ripeto alcuni nomi: Mugler, Gaultier, Lacroix, Lagerfeld (Chanel), Vivienne Westwood, Armani, Tom Ford (Gucci), Yamamoto, Kawakubo, Margiela, McQueen, Galliano. Però è altrettanto vero che probabilmente nessuna delle marche citate, anni ‘80 in poi, ha avuto l’influenza olistica esercita da YSL nella decade che lo ha visto dominare la scena della moda.

Ma allora quali sono le specificità che ci permettono di comprendere e forse spiegare la verità materiale della effettiva valenza degli atti moda di YSL aldilà della mitizzazione?

Quando esordì con la sua griffe di moda-couture fu senz’altro uno dei tanti creativi della giovane generazione che intuirono la necessità di ispirarsi ad un ideale di donna più aperto alla modernità, alla giovinezza. Già quando disegnava le collezioni per Dior le vecchie, ricche, rincoglionite clienti couture storcevano il naso per le sue interpretazioni di un look attuale. Ma erano citazioni generazionali, a quel tempo Yves aveva poco più di vent’anni, che non possono reggere il confronto con quanto fecero Courreges e Mary Quant. Piuttosto attribuirei a Yves il merito di aver spinto di forza la trasformazione dell’Alta Moda, dall’inizio dei sessanta soffocata da una apparentemente inarrestabile crisi, in una sorta di laboratorio work in progress di possibili tendenze o contro/tendenze, con creative esplorazioni di nuovi materiali e forme che suggerivano modi di apparire eleganti, lussuosi e via via sempre più “artistici” ovvero surdeterminati da contaminazioni culturali.

Nei suoi anni d’oro la strategia era grosso modo questa: nelle interviste divulgate alla stampa il punto focale della creatività del brand era centrato sul suo Pret à porter ovvero Rive Gauche (fondata nel 1965 per soddisfare il desiderio di eleganza moderna di una giovane donna attiva, vitale); ma però sfilavano solo le collezioni couture composte da look di ricerca mixati con altri che evocavano ciò che in quel periodo veniva chiamata la moda di strada. Ricordo al lettore che in quell’anni erano soprattutto i fashion show couture a Parigi, a sancire il timing fasullo ma efficace della moda più acclamata (grazie alla stampa e alle campagne dei grandi fotografi). Tutti in quel periodo facevano finta di credere che in quei due archi temporali (coll. spring/summer nei mesi invernali; Fall/winter alla fine dell’estate)  codificati in realtà da Dior nei primi anni cinquanta, succedessero i fatti decisivi per l’evoluzione della moda. Questa credenza diffusa generava “ordine” e la sua mitizzazione gli conferiva un’aura di naturalezza. Oggi siamo propensi a sottovalutare l’importanza del fashion show salvo esaltarne la spettacolarità come se l’essenziale fosse l’effetto da pirotecnico circo mediatico attivato. Quando Yves Saint Laurent esordì con la sua maison le sfilate d’Alta Moda a Parigi avevano ancora qualcosa di sacro che le differenziava da ogni altro evento-moda. L’elemento decisivo era la solennità cerimoniale che tutti i protagonisti del settore rispettavano. Senza la solennità cerimoniale una modella che cammina in modo strambo, è praticamente niente, il nulla o se volete è solo una bella ragazza ben vestita che finge di avere una certa fretta. Yves e Pierre  Bergè hanno, fin dagli inizi, coltivato il culto del rituale iniziatico delle nuove mode e non si contano i fashion show della loro griffe che. meriterebbero di essere citati in una Storia della sfilata non ancora scritta. In questa sede devo limitarmi a ribadire che Yves Saint Laurent, interpretando magistralmente i rituali del fashion show immergeva la marca nel mito; e con le forme concepite per le collezioni da sfilata, dall’effetto amplificato dal rituale, prendeva possesso di una quota sempre più importante dell’immaginario moda. Erano forme che mettevano d’accordo il desiderio di eleganza equilibrata e ben costruita delle élite con le contaminazioni necessarie per farle apparire come una sorta di esclusiva avanguardia estetica del decennio nel quale la moda diveniva una pratica  sociale di insospettabile impatto. In questo modo veniva a strutturarsi una simbiosi mutualistica tra couture e linee seriali. La prima aggiungeva un in-più di prestigio e gloria alla marca; le seconde la incuneavano tra i trend setter generazionali che conferivano ad essa le note rivoluzionarie necessarie per decollare ed ergersi a simbolo del cambiamento culturale e sociale.

Successivamente, all’incirca verso la metà dei settanta, improvvisamente Yves Saint Laurent cambiò strategia. Le sue collezioni couture abbandonarono ogni riferimento alla strada cioè alla realtà e divennero pura espressione di una immaginazione creativa apparentemente senza limiti. Agli addetti ai lavori apparve chiaro che a questo punto Yves non seguiva trend o tendenze ma solo se stesso. Se nella prima fase l’ombra del suo pret à porter (cioè i riferimenti a qualcosa di condiviso con la vita reale della gente) bilanciava le stravaganze del lusso, nella seconda le sottili nervature tra la moda indossabile da chiunque (si fa per dire, of course) e la sua Alta Moda subirono un taglio netto: nessun limite alle forme a parte l’indossabilità, nessun limite all’esibizionismo decorativo e al lusso. I suoi fashion show divennero memorabili. La “sua” moda era vissuta come una folgorante escrescenza partorita da uno spettacolo totale.

Da quei giorni la couture è rimasta ben viva nella moda soprattutto grazie al sentiero tracciato da Yves Saint Laurent nel quale riconosciamo due bordi diversamente configurati. Da un lato del sentiero sembra di intravvedere una couture razionale trasformata in laboratorio/sperimentazioni work in progress di forme che tentano di incorporare passioni sociali in un involucro nel quale quasi sempre la bellezza o l’eleganza dei look non subiscono deviazioni sconcertanti.

Dall’altro lato del sentiero appare una couture senza apparenti limiti, spesso in controtendenza rispetto ai problemi che minacciano gli stili di vita  del largo pubblico, totalmente destinata ad esibire effervescenze creative insensate quanto convincenti per un mondo nel quale l’evento e lo spettacolo diventano più reali del reale. Avanzo dunque la congettura che il dispositivo moda della couture grazie al quale questa sofisticata forma di cultura può proseguire nel terzo millennio la sua avventura tra gli umani oscillando da un bordo all’altro secondo i termini descritti sopra, sia stato inventato o sperimentato da Yves Saint Laurent prima di chiunque altro.

Vorrei però altresì ricordare che se non si può attribuire a Yves Saint Laurent la scoperta o l’invenzione del prêt à porter, il suo contributo alla diffusione di una moda seriale di alta gamma fu senz’altro significativo. Soprattutto  nella prima fase della ristrutturazione dell’Alta Moda concepita dal couturier/stilista, venivano regolarmente trasmesse note di eleganza raffinata, di solito riservate alla couture, al suo brand Rive Gauche, creando prodotti qualitativamente superiori a quelli della concorrenza, dedicati a un vasto pubblico femminile, per il quale l’esperienza seriale se tenuta sotto controllo non rappresentava un problema bensì il contrario cioè una conferma del valore della propria scelta. Di passaggio mi piace ricordare che fu proprio questo l’errore che fece un innovatore come Courreges: rinunciando o non comprendendo l’importanza di mercato del prodotto seriale confinò le proprie creazioni in un campo immaginario dal quale evaporarono velocemente le valenze estetiche che con clamore si erano diffuse dopo le sfilate. Senza il prêt à porter negli anni settanta la mitizzazione delle apparenze non poteva decollare. Courreges dunque perse nettamente il confronto storico con Yves Saint Laurent, scomparendo velocemente dalla scena primaria della moda.

Nella seconda fase dell’adattamento della couture concepita da Yves, in un mondo nel quale si pensava che essa non avrebbe più avuto spazio, le possibilità di tradurre le linee e le forme delle collezioni dell’Alta Moda in prodotti per il prêt à porter si riducono. Ma con l’Yves Saint Laurent delle collezioni ispirate all’oriente, all’erotismo  esotico, della metà degli anni settanta, l’estasi creativa auto referenziale del couturier e la prestazione spettacolare ipermediatica che introduce la collezione nel simbolico e nell’immaginario della moda, diventano uno dei motori con il quale i grandi brand del settore affronteranno la globalizzazione dei mercati. In altre parole, anche senza trasmigrazione di concetti-moda da couture al prêt à porter, il clamore mediatico della prima può riverberarsi sul secondo ( e sugli accessori) con effetti esponenziali in termini di supplemento d’autorevolezza e aumento dei fatturati.

Oltre al riposizionamento/adattamento della couture, tra le specificità più evidenti di Yves Saint Laurent annovero la sua immagine pubblica che velocemente si è trasformata in una sorta di mitologia. Probabilmente solo Coco Chanel, negli anni venti/trenta, ha avuto una simbiosi tra proprio stile di vita e le sue creazioni con un impatto superiore. Negli anni sessanta e settanta lo stilista francese, circondato e adorato da donne molto influenti è stato oggetto di maniacali attenzioni giornalistiche. Tra il suo modo di rappresentarsi come attore della vita sociale, amplificato, magnificato dalla stampa e le sue creazioni si strutturarono una catena di rinforzi che generarono una efficacia simbolica della marca rara quanto paradossale: per oltre un decennio persino i suoi eccessi finivano regolarmente con l’attivare energie semiotiche che funzionavano da propellente per la diffusione del suo mito con evidenti ricadute positive sul fatturato dei prodotti che ne materializzavano la presenza (abiti, accessori, profumi). Se all’inizio della sua carriera erano stati Dior prima e la supermodella Victorie subito dopo, a pilotarne l’immagine tra i pubblici specializzati della moda, dalla metà dei sessanta Yves (supportato con paziente dedizione da Pierre Bergè) divenne il testimonial più importante della sua marca. L’esempio più clamoroso dell’uso della propria immagine è la foto che lo ritrae nudo come pubblicità del suo profumo che diverrà subito un irrefrenabile successo di mercato. Nel decennio che lo vide protagonista, le foto che lo ritraevano alla Factory o al Club 54 con Wharol e le amiche storiche, piuttosto che a Marrakech lo fecero divenire una icona del decennio  contribuendo alla mitizzazione dei suoi atti moda.

Ma oltre alle narrazioni correlate a verità storiche (per “storica” intendo la verità secondo un punto di vista appartenente al contesto del periodo in oggetto) indubbiamente le specificità di Yves Saint Laurent possiedono evidenti elementi di verità materiale.

Senza dubbio l’abito ispirato a Mondrian citato sopra, anche se Yves non fu certo il primo ad incapsulare pattern artistici nella struttura dell’abito, ebbe un impatto fortissimo negli anni sessanta/settanta, i cui effetti a livello percettivo/cognitivo continuano ancora oggi.

Anche il,suo famoso smoking (fig.6) non può essere considerato una novità concettuale assoluta. Prima di lui Chanel, personaggi del cinema come Greta Garbo avevano contaminato il proprio guardaroba con linee tipicamente maschili. e poi, se vogliamo essere pignoli, la parola Tomboy riferita a donne che si vestono da uomo esiste nell’Oxford Dictionary fin dal 1592. Tuttavia la ri-creazione dell’effetto smoking per il soggetto femminile concepita da Yves Saint Laurent ha una valenza che non possiamo sottovalutare: certamente fa trasmigrare nella struttura delle apparenze del secondo sesso punti di aggancio percettivo che rimandano al polo opposto, ma con una raffinata regolazione del taglio e delle linee, addolcisce, armonizza il look, suggerendo una totale territorializzazione femminile di un classico look maschile. Lo smoking di Yves è severamente sexy nel senso che rimanda ad una sorta di soft power di una immagine di Donna non più oggetto del desiderio dell’altro bensì soggetto desiderante, autonomo, libero.

Il famoso smoking di Yves Saint Laurent fotografato da Helmut Newton nel 1975
Fig.6- Il famoso smoking di Yves Saint Laurent fotografato da Helmut Newton nel 1975

Uno scatto di Helmut Newton per Vogue France fatto nel 1975 sintetizza in modo mirabile i valori percettivi e visivi che proiettarono la ri-creazione dello smoking di Yves nelle tante mitologie della moda.

Se osservate l’immagine non potete evitare il raggelante fascino di una Donna incontrollabile, pericolosa, probabilmente molto costosa. Newton e  Yves avevano una predilezione per l’immaginario dei film noir anni trenta/quaranta e lo scatto che sto commentando ne rappresenta un fermo immagine esemplare. In una delle tante interviste rilasciate in quel periodo il couturier/stilista disse:”J’ai été profondément impressionné par une photographie de Marlene Dietrich en costume d’homme. Une femme qui s’habille comme une homme doit être terriblement féminine, pour porter un vètement qui ne lui est pas destiné”.

Un altro esempio di verità materiale lo ritrovo nella sua famosa sahariana, ri-creata per la collezione Safari spring-summer 1968 (fig.7).

Yves Saint Laurent MyWhere
Fig.7- Yves Saint Laurent in sahariana

Osservato con lo sguardo di oggi, il look non ha perso nulla della efficacia di quando impose l’immagine di una femme terrible, in questo caso in versione militare/sportiva, ovvero libera, moderna aggressivamente sexy e determinata ad ostentare un autonomo orientamento ai défilé del desiderio preso nei giochi sociali. La foto scattata da Franco Rubartelli della collezione Safari per Vogue Francia e che ritrae una splendida Verusckha all’apice del successo come modella, illustra perfettamente ciò che a parole rimane sfuggente (fig8).

Yves Saint Laurent MyWhere
Fig.8Veruskha, la sahariana secondo l’interpretazione data da Franco Rubartelli (Vogue Francia, 1968)

Se con l’attenzione tornate alla fig.7, potete notare inoltre come lo stesso oggetto moda cioè una sahariana indossata da Yves, ammorbidisca l’immagine maschile. Aldilà del concetto di unisex decollato proprio nella decade dei sessanta, Yves lavora su una duplice svolta del potere delle apparenze: per la donna è un soft power che sottolinea l’autonomia del proprio desiderio; per l’uomo invece rappresenta una rinuncia ad una virilità autoreferenziale e un adattamento all’altro da sé femminile. Vale la pena di ricordare che di lì a pochi anni, mentre Yves in parte negando il succo delle intuizioni che ebbe alla fine dei sessanta, ritornerà ad esplorare con commovente dedizione l’eterno femminino, Giorgio Armani porterà a compimento il percorso a due tra maschile e femminile, disegnando una serie di collezioni che sublimeranno, almeno nel mondo delle apparenze, la guerra mai dichiarata tra i due sessi in concetti di eleganza di straordinaria efficacia, il cui impatto sulla stile di vita occidentale è stato ampiamente sottolineato.

Ritornando al look di femme terribile (che dovete pensare come il risultato della sincronizzazione tra abito+tipo fisico della modella + postura + stilizzazione) del quale ho parlato prima, ebbene, ai fini della mia riflessione, il look sarebbe il supporto materiale del processo di mitizzazione prodotto dalla fotografia. A questo punto la domanda è: cosa c’entra il museo? Per farla breve la metterei giù così: data la dissipazione tipica di una società inflazionata di immagini, l’esibizione nei musei di primo livello di entrambi gli elementi (look e immagine) rappresenta un eccellente modo per concretizzare la necessaria manutenzione del mito nella società contemporanea, caratterizzata da una sempre più veloce evaporazione delle valenze contenute nel suo nucleo (in questo caso  il nucleo del mito sarebbe la marca YSL vista come Significante cioè come un ancoraggio per le catene di narrazioni che conferendo senso l’innestano nell’esperienza umana). L’evento riattiva il Significante della marca, consentendo una folgorante manutenzione delle narrazioni che lo riallineano a ciò che ho definito la verità storica.

6. L’evento museale esemplare dunque non lavora tanto sulla robustezza dell’unità mitica incorporata all’oggetto artistico che promuove (in realtà non aggiunge niente di sostanziale ad essa), bensì la rende anti-fragile nel senso che Nassim Taleb conferisce al concetto: ovvero risponde alla volatilità dei valori tipici del disordine contemporaneo trasmigrandoli in direzione di un pubblico che sottoposto anch’esso al medesimo disequilibrio può averne narcotizzato le precedenti valenze. Avere una Storia, un grande passato da raccontare nel tempo in cui l’imprevedibilità, la conflittualità, la competizione, i mutamenti sono dominanti, può rappresentare un enorme vantaggio (che il marketing evoluto con il concetto di heritage cerca a suo modo di sfruttare). Si tratta dunque di tradurlo nel metalinguaggio più efficace della nostra epoca cioè in una cascata di immagini che tuttavia devono trovare il loro posto in un “pieno” e non in un “vuoto”. La manutenzione delle immagini pivot del mito in un contesto caratterizzato dalla saturazione degli spazi semantici, un “pieno” dunque, può essere operativizzata trasformandole in evento. Nel campo dell’estetica la glorificazione museale è forse l’avvenimento prevedibilmente più efficace per riaccendere la lampada mitica affievolita dall’ottundimento percettivo causato da una società dello spettacolo dove tutto può per un momento divenire altro da se stesso e quindi prestarsi alla mitizzazione.

Cosa possono aggiungere i grandi musei del nostro tempo al processo che ho brevemente descritto? Non solo offrono un in-più di notorietà e una certificazione di autorevolezza, penso. Per il vasto pubblico estromesso dal discorso religioso tradizionale, il grande museo può trasmettere fragili note della percezione del sacro che forse non arrivano a deificare un pur geniale creativo (Yves Saint Laurent) o il suo Significante (YSL), ma possono  senz’altro proteggere l’identità di marca dal rischio dell’oblio.

mostre a Parigi Yves Saint Laurent MyWhere

mostre a Parigi Yves Saint Laurent MyWhere

mostre a Parigi Yves Saint Laurent MyWhere

mostre a Parigi Yves Saint Laurent MyWhere

Bibliografia

 

1. Yves Saint Laurent aux Musèe, Gallimard, 2022 (Catalogo mostra)

2. Yves Saint Laurent e la fotografia di moda, prefazione di Marguerite Duras, Rizzoli, 1989

3. Marie-Dominique Lelièvre, Saint Laurent, Editions Flammarion, 2010

4. Dotreleau Victoire, Et dieu crèa Victoire, Robert Laffont, 1997

5. Murphy Robert, Les Paradis secrets d’Yves Saint Laurent et de Pierre Bergé, Albin Michel, 2009

6. Rawsthorn Alice, Yves Saint Laurent: A Biography, Harper Collins, 1996

7. Yves Saint Laurent, Yves Saint Laurent par Yves Saint Laurent, préface de Bernard-Henry Levy, catalogue de l’exposition, Hercher Arts de la mode, 1989

8. Teboul David, Yves Saint Laurent, 5, avenue Marceau 75116, Paris, France, La Martinière/Atlante, 2002

9. Alessandro Bignami (a cura di), L’amore è il dardo, Feltrinelli Real Cinema, 2011

10. Quirino Conti, Mail mondo saprà, Feltrinelli, 2005

11. Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi

  

Documentari e film

 

Pierre Thoretton, Yves Saint Laurent, L’amour fou, 2009

Lamberto Cantoni
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13 Responses to "Yves Saint Laurent. Come si crea e perpetua un mito"

  1. luciano   5 Maggio 2022 at 14:27

    Sembra che per l’autore il mito di Saint Laurent dipenda più dalle foto di moda che dagli abiti. Ma forse non ho capito bene

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto   6 Maggio 2022 at 08:00

      Non ho scritto esattamente così, anche se il ruolo della fotografia nel processo di costruzione delle nostre mitologie quotidiane a me sembra scontato. Prova a pensare ai personaggi iconici del novecento e poi cancella tutte le immagini fotografiche che li riguardano: quanti di loro sarebbero diventate delle icone?

      Rispondi
      • luciano   8 Maggio 2022 at 07:59

        A questo punto mi chiedo se non basti solo la notorietà offerta dalla circolazione delle foto a creare un mito della moda. Vista in questo modo la questione mi rende dubbioso: tecnica, maestria sartoriale non contano più niente?

        Rispondi
        • Lamberto Cantoni
          lamberto cantoni   9 Maggio 2022 at 09:36

          Certo che contano, non si fotografa il nulla. Ma nel mondo moderno la mitizzazione passa soprattutto attraverso l’uso delle immagini.

          Rispondi
  2. annalisa   6 Maggio 2022 at 09:01

    Chanel diceva che la moda non è arte ma un mestiere e quindi al massimo potrebbe essere un alto artigianato. Però la sensibilità della gente è cambiata e non sono sorpresa se Saint Laurent viene presentato come un artista.

    Rispondi
  3. Antonio Bramclet
    Antonio   6 Maggio 2022 at 11:35

    Oggi tutto può essere arte, quindi anche a Saint Laurent può essere considerato un artista. Mi chiedo cosa serva discutere su queste ovvietà. Sarebbe importante invece chiedersi quale potrebbe essere il posizionamento dello stilista nell’Olimpo degli artisti.

    Rispondi
  4. mau   12 Maggio 2022 at 08:40

    nell’articolo si parla poco di Pierre Bergé che per me è stato il vero protagonista del successo della marca YSL. Secondo me bisogna distinguere il momento in cui la creatività di Yves Saint Laurent ha fatto la differenza, dal momento della crescita del brand. In questa seconda fase il marketing di Bergé ha dominato la scena. Ma di questo non possiamo mostrare granchè. Una mostra fa vedere solo abiti e quindi contribuisce a diffondere il mito del genio creativo. Chi invece ha operato concretamente per trasformare un nome in un brand globale passa in secondo piano. Questa non è storia ma la solita mitologia modaiola.

    Rispondi
    • ann   12 Maggio 2022 at 15:57

      Questa non l’avevo mai sentita! adesso i manager si prendono il merito del colpo di genio di un creativo perché lo distribuiscono nei negozi. Una totale assurdità.

      Rispondi
      • luc97   13 Maggio 2022 at 08:26

        Ha ragione Ann. Anche se nella logica del branding tra stilista e manager deve esserci sinergia. Ma nel caso di Yves Saint Laurent, un genio della moda, qualsiasi accostamento a questioni finanziarie oggi non ha senso.

        Rispondi
        • Antonio Bramclet
          Antonio   13 Maggio 2022 at 08:56

          A nessuno verrebbe in mente di associare Coco Chanel a un manager. E nemmeno Dior. Una mostra si interessa di cultura. Nel caso di Yves nei musei di Parigi si presenta lo stilista come autore di abiti che hanno cambiato la moda. Chi lo ha aiutato a commercializzare le sue creazioni non ha nessuna importanza in questo contesto.

          Rispondi
          • james   14 Maggio 2022 at 09:13

            ART complicato. Non ho capito quasi niente del significante. Però ho capito una cosa: se l’autore ha ragione e Saint Laurent è un mito allora la gente tende ad esagerare. Il buon senso ci suggerisce che i miti vanno riportati con i piedi per terra. I manager spesso sono costretti a fare questo: rimetter con i piedi per terra il creativo di turno.

          • james   16 Maggio 2022 at 09:24

            Mi correggo. A volte sembra che i manager non mettano i piedi per terra a niente. Anzi spesso sono molto interessati a mitizzare. Pierre Bergé aveva capito tutto. Il mito aiuta a vendere anche una creatività bollita. Però lo fanno “strategicamente” ed è per questo che invadono il territorio dello stilista.

  5. enzo   17 Maggio 2022 at 11:21

    Io ricordo che quando Tom Ford disegnò le collezioni YSL, lo stilista che aveva dovuto vendere il proprio brand a Gucci fu molto cattivo anzi perfido con il texano. Gli dispiaceva aver ceduto la marca che portava il suo nome. Aggiungo anche che aveva ragione. Gli abiti disegnati da Tom Ford snaturavano lo stile YSL. Il francese era un artista, il texano un costumista da film commedia holliwoodiani. Yves Saint Laurent merita il museo perché la sua moda è arte cioè ricerca di perfezione.

    Rispondi

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