La camicia bianca secondo Ferré

La camicia bianca secondo Ferré

Interventi di: Margherita Baldi, Liang Chen, Greta Del Popolo, Mariagrazia Di Rosa, Ideal Dridi, Giulia Ficini, Ruggero Galli, Irene Libbi, Federica Piedimonte, Mina Quinto, Lisa Ricci, Silvia Valesani, Simona (Zhou ying), Maria Solovyeva (Мария Соловьева), M.Camila Vanegas, Valentina (Chenxin).

mostra Ferré

LEZIONI DI STILE

Articolo di Lamberto Cantoni

Quando fui raggiunto dalla notizia della mostra, pensai subito che GF.Ferré meritasse una sede diversa da quella di Prato. Per esempio Palazzo Pitti di Firenze, alla cui Galleria del Costume lo stilista aveva donato 300 bellissimi abiti. Anche il tema della mostra, la camicia, seppur centrale nella poetica delle forme di GF. Ferré mi sembrava riduttivo.

Dopo aver visitato la mostra, rimango convinto che in questo preciso momento uno dei campioni del nostro Made in Italy dovesse essere presentato, celebrato, studiato e comunicato con maggiore consistenza e lucidità strategica.

Ma devo ammettere che il lavoro degli organizzatori, pur nei limiti di una location sbagliata, e la bellezza delle opere, mi hanno trasmesso emozioni profonde. Ho capito anche l’importanza della focalizzazione sul tema della camicia: un modo intelligente per farci entrare nel laboratorio creativo di un protagonista della moda, partendo dal linguaggio base del suo stile.

Variazioni e Ripetizioni creative

Il primo colpo d’occhio sulla grande sala interna del Museo del Tessuto, nella quale è stata organizzata l’esposizione, è strabiliante: le camice appaiono come silenziosi angeli della bellezza, elegantemente “sospese” da una luce metafisica che le trasforma in epifanie dell’oggetto-moda.

Ferré 2L’effetto che vi ho descritto è stato creato grazie ad una concettualizzazione del manichino, il cui “corpo” decostruito in una filiforme composizione a due coni sovrapposti in simmetria rovesciata, trasmette l’idea di esemplare leggerezza e rigore geometrico. Un dispositivo di luci ben posizionate, ha generato a livello olistico l’illusione metafisica che ho già citato, ovvero ha meta-comunicato l’idea che gli oggetti esposti rappresentassero l’essenza di uno stile creativo. Ai lati della grande sala, una lunga teoria di bacheche vetrate esibiva un contenuto di disegni delle camice e la loro simbolizzazione ottenuta attraverso l’estensione fotografica/editoriale del loro concetto.

Prima dell’ingresso nella grande sala gli organizzatori hanno proposto uno spazio introduttivo e al tempo stesso conclusivo dove a sinistra rispetto l’entrata nella mostra, si potevano ammirare macro istallazioni fotografiche “a effetto x-ray” dei capi, immaginate narrare in modo poetico l’importanza della sostanza materica per la progettualità di GF. Ferré; mentre la parte destra era dedicata alla visione di alcune sequenze di sfilate storiche, immaginando in tal modo una sorta di conclusione esemplare di un percorso creativo partito dai disegni e terminato con le percezioni trasmesse dall’oggetto indossato.

Ferré 1.jpgL’allestimento, aiuta tantissimo il fruitore ad avvicinarsi con reverenza alla piccola falange di essenze (di uno stile), per prepararne la mente al successivo e più lento lavoro di decostruzione segnica, di una categoria dell’abbigliamento centrale per la visione creativa di Ferré.

Non trovo parole migliori di quelle di J.Joyce per descrivere gli effetti di una messa in scena magistrale. In Dedalus prima e in Stephen Hero poi, lo scrittore appellandosi all’estetica di S.Tommaso, identifica i pre-requisiti della percezione del bello nella capacità di vedere l’oggetto come una cosa conclusa in se stessa (integritas); di apprenderlo come struttura integrata e armonica (consonantia); e infine di appercepirne l’essenza (la claritas è quidditas).

Sono grato agli allestitori per la claritas che mi hanno donato, necessaria per riprogrammare la mia mente scombussolata dall’inusuale percorso obbligato per l’approdo alla mostra.

Non voglio apparirvi come un rompicoglioni esteta un po’ troppo blasé, non lo sono affatto, ma entrare nello spazio espositivo partendo da un bar tipo dopolavoro ferroviario, passare poi per una cassa/libreria/merchandising, e infine attraversare spazi museali più funzionali alla didattica di base che alla contemplazione attiva, di certo non corrispondeva alle mie attese e nemmeno al desiderio che provavo di veder finalmente celebrato uno dei grandi maestri della moda italiana, in un momento in cui troppe voci vorrebbero proclamarne la definitiva rottamazione (di entrambi).

Il momento di illuminazione momentanea del cuore o se volete, l’attimo di emozione, stupendamente preparato da chi ha progettato l’allestimento, mi ha riavvicinato al sistema di oggetti estetici esposti, permettendomi di coglierne l’aspetto lirico ed epico ovvero di avvicinarmi a quel centro di gravità cognitivo nel quale la narrazione implicita al sistema di oggetti fruibili, si trova a metà strada tra la personalità del creativo e il mondo culturale del fruitore.

D'ARTISTA.  PaP Donna A/I 1993
D’ARTISTA.
PaP Donna A/I 1993

L’idea degli organizzatori mi è dunque sembrata semplice e al tempo stesso ambiziosa. La mostra attraverso l’esempio della camicia intende offrire al pubblico una lettura articolata degli elementi base del modus operandi di GF. Ferré. La complicazione discende dalla difficoltà di cogliere le relazioni tra i diversi livelli di creatività e di maestria tecnica impliciti nella trasformazione del disegno in oggetto moda compiuto. Per non parlare delle necessarie traduzioni in immagini simboliche, con le quali alludere alle narrazioni di eleganza e stile di maggiore impatto sul pubblico, che configurano la serie di significazioni mutanti, catalizzate dall’effetto marca.

A mio avviso le mostra ha risolto brillantemente il compito di far capire le caratteristiche eccezionali di GF.Ferré.
Le 27 camicie esposte mostrano in modo convincente il talento per l’innovazione dello stilista. Ci parlano benissimo della sua ragguardevole cultura artistica ed estetica.
Ma soprattutto, grazie al percorso articolato che ho cercato brevemente di descrivere, dal disegno all’oggetto passando per il tessuto, i modi della fruizione previsti dagli organizzatori, fanno emergere la non comune sensibilità dello stilista nei confronti della dimensione progettuale dell’oggetto moda.

Le camicie esposte coprono praticamente tutta l’avventura creativa di GF. Ferré, dal 1982 ai primi anni del terzo millennio. Nelle prime in ordine cronologico emerge una dominante geometrica e un’accentuazione del codice femminile della camicia. Passando a modelli più avanti negli anni si coglie l’impatto che lo studio della camicia maschile aveva nella ricerca di una bellezza meno scontata, più rigorosa ma anche imprevedibile. Mi piace citare come esempio Plastron (2000). Vi si leggono agevolmente alcune procedure di allontanamento dal canone femminile, farsetti, colletti militari, il plastron a chiusura centrale, riassorbiti in una idea di severa e al tempo stesso audace eleganza: infatti il ventre risulta scoperto senza che vi sia alcun rimando al sex appeal.

PLASTRON. PaP Donna A/I 2000
PLASTRON.
PaP Donna A/I 2000

Il modello chiamato Picaresque (2001), caratterizzato da un ampio collo, da maniche molto enfatizzate e da un bustino dal sapore medicale, sono un altro esempio di narcotizzazione del femminile, attraverso apparati formali dalla doppia significanza. GF. Ferré sapeva benissimo che la moda del suo tempo amava rappresentare il primato della vita affettiva, per non dire del desiderio, su ogni altra modalità cognitiva. Ma si può dire che spesso le sue creazioni evidenziavano una critica profonda all’esasperazione del tratto sexy. In Picaresque troviamo una delle procedure duali tipiche dello stilista: da un lato abbiamo tutti i riferimenti ad un concetto di eleganza eccitante, con allusioni fetish, dall’altro lato non possiamo non accorgerci del sostanziale silenzio degli affetti.
Con questo non voglio dire che l’appello al registro mentale (al concetto imbricato nella forma camicia), nella visione di GF. Ferré, debba annichilire ogni emozione.

PICARESQUE. PaP Donna A/I 2001
PICARESQUE.
PaP Donna A/I 2001

Alcune delle camicie esposte, nelle quali i tratti duali o non sono presenti oppure non sono dominanti, si presentano come forme significanti che enfatizzano la sublimazione romantica della base affettiva che storicamente contraddistingue gli oggetti moda femminili nella nostra cultura (Princesse, Merveilleuse). In breve, i registri mentale e affettivo implicati dalle forme di GF. Ferré non sono mai polarizzanti, del tipo: o l’uno o l’altro. Piuttosto i rimandi al primo o al secondo seguono la logica sfumata della gradation delle forme e delle emozioni. Per usare una metafora musicale, la creatività dello stilista sembra una fuga attraverso variazioni che si allontanano e poi ritornano nei dintorni di una struttura di invarianze (il bianco della camicia; l’ordine concettuale che prepara la strada alla percezione dello stile Ferré).

PRINCESSE. PaP Donna P/E 2006
PRINCESSE.
PaP Donna P/E 2006

Un altro aspetto della mostra che mi ha incuriosito è l’invito alla lettura dell’oggetto come effetto della stupefacente presentazione della sua forma/sostanza (la claritas di cui vi ho già parlato). Mi è sembrato di aver attraversato questa esperienza: dopo il primo impatto il mio sguardo è stato catturato dai giochi di moda ben visibili sulla superficie di oggetti a complessità crescente (più si guardano e più diventano complicati). Attraverso la sovrapposizione di “segni” di tipo logico diverso (sono segni che possono rimandare alle tecniche di taglio o costruzione della camicia; oppure citazioni di forme tradizionali, oppure trasduzioni semantiche derivate dalla sensorialità dei tessuti utilizzati etc.), le camicie di GF.Ferré si presentano come oggetti/testo. In altre parole sembra vogliano raccontarci storie. Evidentemente, la complicata trama di rimandi iscritta sulle loro superfici implica conoscenze non banali, spesso inaccessibili a molti fruitori. Ma è la propensione enunciativa o narrativa ad essere interessante, dal momento che è proprio in questa intenzionale volontà di senso, che mi piace trovare una delle caratteristiche di GF.Ferré che ho sempre ammirato. Aldilà della maestria tecnica e della forza della sua immaginazione, qualità che potevano consentirgli creazioni ben più spettacolari di quelle che poi presentava, è la sua commovente volontà di spiegare ciò che faceva a renderlo diverso da tutti i suoi colleghi. Molti oggi pensano che questa volontà di senso sia stato un po’ il suo limite; io credo invece che sia stata la sua lezione più importante. Una lezione, ed è questo l’aspetto che ho colto grazie alla mostra di Prato, che lo stilista non rinviava solo alla sua pur importante e generosa attività di docente o alle chiacchiere con le amiche giornaliste, ma che incorporava all’oggetto moda che creava, donando ad essi un’aura umanistica rara della quale oggi si sente il bisogno.

Divagazioni sulla vita creativa di GF. Ferré

Gianfranco Ferré, nel 1969 si laureò al Politecnico di Milano in architettura. Possiamo immaginare quindi che avesse in parte una mente plasmata dal metodo analitico e logico di chi sa progettare e costruire strutture solide e pregnanti. In altre parole, pur non essendo mai stato veramente un architetto, nella sua vita infatti costruì solo qualche casa per amici e segui’ personalmente la costruzione delle boutique principali del suo brand, quando trovò il modo di esprimere la sua raffinata creatività nella moda, gli rimase l’impronta degli studi che lo avevano appassionato. Al culmine del successo lo riconoscerà proprio di fronte ad un pubblico di studenti. Infatti nelle sue “Lezioni di moda“, pubblicate da Marsilio (2009), si legge: “In molti hanno definito i miei abiti “architetture tessili”. La definizione mi piace. Rende bene l’idea di quello che per me è l’abito: il risultato di un incontro tra forma e materia, “guidato” dalla mano del creatore. Non userei altre definizioni. Semplicemente completerei questa: i miei abiti sono architetture tessili pensate per il corpo. Che il corpo rende vive”.

Se sfogliamo velocemente una rassegna dei suoi abiti più iconici, per esempio quelli documentati nel volume Itinerario (Leonardo Arte), pagina dopo pagina, siamo invitati a prendere sul serio l’idea emergente di una creatività più vicina al design che ai colpi ad effetto con i quali molti stilisti a lui contemporanei cercavano di suggerire i contorcimenti stagionali delle mode. Le sue biografe, Maria Vittoria Alfonsi (Gianfranco Ferré, l’architetto stilista, Baldini Castoldi Dalai editore, 2008) e Edgarda Ferri (Ferré, Longanesi & Co, 1995), raccontano che fin dalla sua prima collezione del 1978 erano riconoscibili percorsi creativi che trascendevano la logica della tendenza del momento. Si trattava di una collezione estiva, molto chic, disegnata seguendo linee rigorose, di stupenda portabilità. Il bianco e blu dominanti consolidavano la percezione di una bellezza ordinata e distinta, lontanissima dai coup de théâtre usati per ravvivare le sfilate. Forse fu per questo motivo che i commentatori dei fatti di moda più attenti riconobbero subito l’eccezionale potenziale di stile delle sue creazioni.

ORIGAMI. PaP Donna P/E 2004
ORIGAMI.
PaP Donna P/E 2004

Il talento fuori da comune di Ferré lo predispose ad essere un maestro in tutti gli elementi del linguaggio della moda: dagli accessori agli abiti femminili; dalla maglieria alla moda per l’uomo; dalla camicia all’abito couture; dalla moda sportiva al glamour più sofisticato. Il rischio di un talento così debordante poteva essere l’eclettismo ovvero la capacità di creare forme dal contenuto eterogeneo, apparentemente giuste, nuove, ma senza anima. L’imperioso stile Ferré ha consentito allo stilista un campo di variazioni creative prodigioso mantenendosi sempre coerente con un punto di gravità suscettibile di ancorare la forma ad un progetto razionale, riconducibile a configurazioni portatrici di una bellezza pensosa, raffinata, intellettuale, modulate su un registro emotivo più sottile e raffinato rispetto ai superlativi passionali che polarizzano troppa moda contemporanea.

Questa propensione che ascrivo in parte alla sua formazione da architetto, ha consentito alle sue linee di posizionarsi in qualche punto intermedio tra la costruzione barocca onnipresente nelle forme del lusso e l’abito puramente concettuale.

Un altro aspetto del suo modo di concepire la moda, a mio avviso, è determinante per cogliere la dimensionalità del suo lavoro. GF. Ferré apparteneva alla ristretta cerchia di creativi sensibili e capaci di dialogare con gli apparati tecnologici e innovativi di una moda proiettata verso un mercato molto più vasto rispetto a quello rappresentato dalle élite del consumo. Nelle sue seconde linee, quando ideava collezioni per una moda casual e sportiva sapeva interpretare benissimo il ruolo di fashion designer. Tuttavia la sua passione e le sue sintesi creative che non è una esagerazione definire geniali avevano come campo di elezione il prêt-à-porter di lusso e la couture.

Vorrei spendere ancora un po’ di parole sulla sua formazione da architetto e da grande umanista nella cultura della moda. GF.Ferré, come ho già detto, forse non era un vero architetto, ma tuttavia aveva incorporato nel suo fare i significati più profondi del modo in cui la propensione ad interessarsi del costruire e abitare strutture prende posto nell’avventura umana. Per esempio era sempre disponibile a far capire come lavorava e a trasmettere agli “altri” ciò che pensava; era di una generosità intellettuale molto rara nei confronti del senso e dell’impatto del suo lavoro. Quando sottolineava la relazione stretta tra l’architettura alla moda, non lo faceva per distinguersi da colleghi o per sottolineare uno spessore culturale che, lo sappiamo bene, nelle performance estetiche vale fino ad un certo punto. La sua architettura aveva a che fare con l’etica del creare.

Una citazione tratta dalla viva voce dello stilista esprime meglio di qualsiasi commento questo aspetto assolutamente rilevante della sua visione estetica:

“Apparentemente l’architettura è hard e gli abiti sono soft. Ma anche quando disegno abiti, disegno per qualcosa di hard e definitivo: il corpo umano. Sono convinto che il rapporto che uno stilista-architetto instaura con la sua collezione sia abbastanza diverso da quello di tutti gli altri. Io parto da schemi, così come quando progettavo una casa. Mentalmente, non c’è differenza fra disegnare una casa e una collezione. Se avessi fatto l’architetto, avrei creato delle case moderne, senza dimenticare la tradizione. E dovendo disegnare un edificio, avrei tenuto presente dove andavo a metterlo, quale intenzione avevo: se mi prefiggevo di rompere degli equilibri, oppure di crearne dei nuovi…Creando un vestito, uso lo stesso metodo: devo sapere per chi è fatto, dove andrà a finire. Il legame con l’ambiente, con i luoghi dove l’uomo vive e si muove, fa costantemente parte dei miei interessi, ed è alla base del momento creativo: sia che questo riguardi l’architettura, sia che riguardi il modo di vestire”. (parole tratte dal bel libro che la giornalista Edgarda Ferri ha dedicato allo stilista, libro edito da Longanesi, 1995).

Il riferimento all’architettura e la sua “apertura” ad una moda etica, non deve far pensare a forme dalla seduzione fredda e distaccata. Ferré possedeva una stupefacente sensibilità al colore che conferiva alle sue creazioni una corrente passionale che rendeva percettivamente dinamiche le forme degli abiti. Diamo ancora la parola al protagonista:

“Nelle collezioni Ferré, di stagione in stagione, i colori base – il bianco, il nero e il rosso – tornano come una costante, affiancati da toni naturali, più sfumati, meno decisi, in una serie infinita di gradazioni e varianti, arricchiti e completati da qualche concessione alla fantasia e ai temi della collezione. Ma riconosco di avere un debole particolare per l’oro in tutti i suoi riflessi, dai luccichii alla luminosità dell’argento, al lucido colore del bronzo”. (Gianfranco Ferré, A un giovane stilista, Pratiche Editrice, 1996).

Tuttavia il colore, pur parteggiando per la parte emozionale della mente, nella sua visione, in ultima istanza doveva piegarsi al controllo della razionalità: “È necessario stabilire una logica cromatica – scrive Ferré – con i suoi contrasti di caldi e di freddi. La scelta del colore è una necessità di vita che, nella mia concezione estetica, influenza linee e forme. nel suo rapporto con l’abito, il colore deve avere una funzione e un significato che spieghino e giustifichino il suo utilizzo”, diceva a chi voleva capire la necessità del suo costante ritorno al bianco delle sue camicie.

Possiamo facilmente intuire che la Donna immaginaria utilizzata dallo stilista come musa ispiratrice e, per estensione concettuale, la sua “consumatrice modello”, avessero fisici, caratteri e personalità che si distinguevano dal tipo di donna che dominava le narrazioni sulla bellezza femminile anni ’80/’90. Alta, sottile, slanciata, agile, sinuosa, dinamica, preferibilmente bruna con i capelli corti o raccolti…” Può essere non perfetta nei suoi lineamenti ma è essenziale che sia intelligente. Se manca l’intelligenza, la femminilità non ha più alcun senso, non mi incuriosisce, non mi interessa”, diceva Ferré. Quindi, una Donna che non rinunciava certo alla seduzione ma quando indugiava nelle passioni fondamentali dell’immaginario della moda, le interpretava sempre con un vena di umorismo; cosciente che lo stile vale più dell’eleganza. Comprendere lo stile significava saper scegliere l’abito in rapporto alla propria silhouette; significava saper calcolare i dettagli d’abbigliamento che impreziosisce il corpo minimizzandone i difetti. Insomma la Donna imbricata nelle collezioni Ferré era un felice impasto fra tradizione colta e contemporaneità rilassata. I suoi abiti hanno sempre avuto qualcosa che li apparentava al sogno ideale della moda ma al tempo stesso vi si leggeva sopra il progetto industriale, il respiro del “pubblico” che fa da sfondo alla produzione della moda contemporanea.

SARI. PaP Donna P/E 2002
SARI.
PaP Donna P/E 2002

Grazie a questa sua capacità di contornare il sogno della moda perfetta e al tempo stesso di calarsi nel mondo e tra le persone con cui viveva, Ferré è stato uno degli stilisti di punta della grande generazione di creativi che tra il 1978 e la metà degli anni ottanta hanno portato la moda italiana a dominare la scena internazionale del prêt-à-porter.

Insieme ad Armani, Missoni, Krizia e Versace ha elaborato il paradigma estetico grazie al quale la moda è fuoriuscita dal decennio schizofrenico degli anni settanta. Vale la pena di ricordare che in quel periodo gli stilisti italiani elaborarono una sintesi formale che nel nome della modernità e con un linguaggio compatibile con la nuova progettazione industriale riesci’ a convincere di colpo la committenza internazionale, suscitando entusiasmi che non si vedevano dall’epoca della seconda grande generazione di couturier francesi dal dopoguerra, ovvero, con Yves Saint Laurent, Courrèges, Cardin, Ungaro, Paco Rabanne.

Quali sono stati i passaggi cruciali della sua carriera?

Dopo un veloce apprendistato come designer di accessori, borse e bijoux, che lo portarono collaborare con W.Albini e una lunga collaborazione con l’industria di impermeabili San Giorgio, fondamentali per il parallelismo tra creatività applicata e assimilazione dei processi di industrializzazione, nel 1978, grazie alla regia di Franco Mattioli, geniale imprenditore bolognese, presentò la sua prima collezione di prêt-à-porter femminile a Milano. Il successo fu travolgente e le sue linee precise, pulite, raffinate ma con una nota di autorevole semplicità, qualcosa di diverso da ciò che più avanti ci abituerà il minimalismo, incantano le opinion leader che scrivono sulle testate più influenti della moda.

Nel 1986, dopo che otto anni di prêt-à-porter sempre più raffinato gli hanno permesso di assimilare una competenza straordinaria anche nei confronti della materialità dell’abito, propone la sua prima collezione di Alta Moda sfilando a Roma. Gli viene riconosciuta, oltre al talento per il design, una sorprendente competenza sartoriale e la capacità di creare per la donna forme ai margini del sogno.

1989-1996 Christian Dior by Gianfranco Ferré
1989-1996 Christian Dior by Gianfranco Ferré

Non è dunque un caso se nel 1989 viene chiamato da Bernard Arnault a succedere a Marc Bohan per la direzione artistica della maison Dior. La sua interpretazione dei valori immateriali di uno dei nomi sacri della storia della moda contemporanea è da manuale. Molti suoi abiti per Dior sono dei capolavori di couture contemporanea, ma bisogna aggiungere che a differenza del creativo francese che soprattutto col new look era affascinato dalle forme ottocentesche, Ferré non guarda mai solo al passato bensì ha un forte senso della contemporaneità.

Dobbiamo riconoscerlo: le sue collezioni pur rispettose del mito di Dior sono sempre state attraversate dal Ferré style.
Tuttavia la sua competenza e la bellezza degli abiti che creava gli consentirono di dirigere con successo per otto anni la creatività del marchio moda più famoso al mondo. Poi, nel ’96, Arnault decise di cambiare rotta e lo stilista italiano tornò a concentrarsi esclusivamente sulle proprie linee. Quali le ragioni della rottura? Un normale avvicendamento? Si era esaurita la carica creativa di GF. Ferré? Diciamo che fu una rottura tra gentiluomini e quindi interamente consumata dietro le quinte.

Possiamo congetturare che essendo il protagonista di un marchio molto famoso, in quel periodo i fatturati del brand Ferré erano in costante crescita, ci fosse una sorta di conflitto di interessi che covava fin dal primo giorno in cui lo stilista approdò alla corte di Dior.
Ma è un argomento certo non decisivo. Dopo un inizio contaminato da polemiche, il pubblico francese accoglieva sempre le nuove collezioni Dior con grande entusiasmo. A parte Suzy Menkes, molto critica nei confronti del nostro stilista, tutti gli opinionisti applaudivano il suo modo di tradurre i valori di Dior, avvicinandoli al concetto di modernità che GF. Ferré promuoveva. Perché allora ci fu un divorzio solo in apparenza consensuale? Io preferisco pensare che verso la metà degli anni novanta si sia consumata una grande mutazione nel modo di interpretare la couture, all’insegna di una spettacolarizzazione dei fashion show e delle collezioni. In estrema sintesi, l’Alta Moda parigina ormai dominata da gruppi finanziari estremamente agguerriti, si riconfiguro’ come momento evenemenziale. In un certo senso, la plausibilità degli abiti, la loro bellezza era meno importante del clamore che la loro presentazione pirotecnica produceva. Indubbiamente, per questi giochi di moda, la folle creatività di J. Galliano prometteva una maggiore performance in termini di “immagine” e comunicazione-mondo. Il rigore, l’ordine, la razionalità di GF. Ferré al giornalistese anglo-sassone, dominante nella comunicazione della moda, potevano apparire come out.

Tornato ad occuparsi esclusivamente del proprio brand, come i veri grandi della moda, Ferré riuscì a far dimenticare subito l’esperienza con Dior, creando bellissime collezioni sia per la Donna e sia per l’Uomo. Le sue ricerche per ciascuna di queste polarità fondamentali lo portano a inventare soluzioni intermedie tra i codici vestimentari dei due sessi di grande fascino…”Disegnare collezioni per l’uomo mi ha aiutato a capire meglio la moda femminile – scrive Ferré in “Itinerario” (Leonardo Arte, 1999) – L’eleganza maschile si è manifestata in termini di regole, canoni e codici nel concetto tradizionale dell’”uniforme”…concetti che ho voluto rivedere e, quando l’ho ritenuto possibile, adattare al gusto femminile. Ritengo di aver ottenuto risultati spettacolari, se non addirittura innovatori in diversi casi, giocando con gli opposti, unendo il desiderio maschile di comodità e solidità alla sobrietà di una femminilità sempre raffinata: camicie impeccabili, dal taglio maschile ma realizzate con tessuti preziosi, femminili. La giacca smoking addolcita dalla trasparenza del tulle. Tessuti dei pastrani militari usati per cappotti e redingotes avvitate. L’uniforme militare di una volta, la sua ricchezza, la sua opulenza, la ripetizione degli elementi decorativi, le astuzie tecniche e i valori simbolici che la contraddistinguono, è stata una fonte preziosa e un punto di riferimento per l’eleganza femminile di oggi”.

I colpi di genio di Ferré, come quelli di Armani e Missoni, hanno dato modo alla donna e all’uomo contemporanei di inaugurare un dialogo tra gli apparati formali dei sessi di insospettabile importanza interiore. In un’epoca in cui i ruoli tradizionali cominciarono a traballare e come primo risultato ci scoprivamo spesso in guerra con “l’altro sesso”, il valore di queste sintesi formali va ben aldilà dell’estetismo e sconfina apertamente in una raffinata modulazione dei linguaggi del corpo capace di armonizzare la transizione verso il consolidamento di nuovi modi di interpretare il ruolo di Essere Uomo e Essere Donna, nel rispetto della differenza tra i sessi.

Le collezioni delle prime linee disegnate dal 1997 al 2002, probabilmente sono state dei capolavori, per qualità e per maturità progettuale. Tuttavia i paradigmi della moda performante stavano cambiando in fretta. La geniale fusione tra razionalità alla bauhaus con sofisticate fantasie, di GF.Ferré si scontravano con proposte sempre più stravaganti, rafforzate da dosi tossiche di comunicazione. Allo stilista non mancavano certo clienti, ma le narrazioni che facevano la differenza sul mercato della comunicazione, privilegiavano spiriti animali della moda che stridevano con l’eleganza chic del suo stile.

L’ictus che colpi lo stilista nel 2002 tolse energia e lucidità al suo lavoro. Miracolosamente, pur con il fisico colpito da menomazioni GF. Ferré continuò a disegnare, a progettare, a creare. Le collezioni soprattutto nel 2003-04 continuarono a ricevere interesse da parte dei critici e dei clienti storici. Ma senza l’entusiasmo del passato. Dopo la morte dello stilista nel 2007 la direzione della maison passo’ alla coppia Tommaso Aquilanoe/Roberto Rimondi (6267). Ma l’eredità creativa di Ferre si rivelò troppo complicata per i due giovani, senz’altro bravi ma mai convincenti, forse troppo prigionieri di ombre del passato dalle quali bisognava invece separarsi.

Note finali

Il mio interesse per la mostra pratese, organizzata dalla Fondazione Ferré, è stato accompagnato da una nota di struggente, malinconica emozione.

Proprio nei giorni in cui si inaugurava l’evento, con la proverbiale insensibilità tipica del settore finanziario, venne annunciata dal Dubai Paris Group, proprietario del marchio, la chiusura di ogni attività in Italia, la sospensione di ogni investimento e la rinuncia alle sfilate milanesi 2014.

Precedentemente era stata venduta la prestigiosa sede Ferré di via Pontaccio al gruppo napoletano Kiton; decisione che faceva seguito alla cessione della boutique di via S.Andrea (Milano) e al licenziamento dei responsabili creativi.
Dubai Paris Group aveva rilevato il brand Ferré nei 2011 dalla IT Holding, condotta alla rovina dalle sciagurate manovre finanziarie di Tonino Perna.
Ovviamente questo genere di notizie non dovrebbe modificare il significato storico del lavoro di una vita di un grande creativo.

Tuttavia fanno affiorare alcune questioni che meritano di essere citate.
GF.Ferré per tutta la sua carriera aveva sposato una modalità di business basata sulla cessione delle licenze. Probabilmente questa scelta lo lasciava completamente libero di immergersi nel fare creativo, campo nel quale eccelleva. Ma probabilmente nei tempi lunghi e con l’estensione delle linee e il moltiplicarsi dei mercati, il mancato controllo della distribuzione ha reso il suo brand enormemente fragile.

Sostanzialmente, nel momento più difficile della sua carriera ha pagato a carissimo prezzo la noncuranza nei confronti della gestione manageriale, finendo stritolato dalla brutalità delle regole scritte e implicite imposte dalla finanza. E’ altresì vero che così come il controllo finanziario esterno di un brand può affossarne la storia, la tradizione e i valori, può tuttavia riuscire anche nell’operazione inversa, ovvero resuscitare marche defunte o rivitalizzarne altre date per morte.

Attualmente non è possibile sapere cosa ne sarà di Ferré. Forse il brand vivrà con collezioni prodotte in Cina, in India o in Turchia. Forse, grazie alle tecniche di branding e ad una comunicazione aggressiva, vedremo ancora il nome dello stilista stampato sulle etichette degli abiti o sull’insegna di boutique.
Ma, sono pronto a scommettere che non è certo questa la vita futura del brand alla quale pensava il grande stilista.
Non è questo il senso di eternità che dovrebbe accompagnare i grandi creativi che hanno saputo iscrivere nella realtà, processi e forme che hanno arricchito la nostra vita.

Forse uno dei meriti maggiori che ha la mostra del Museo del Tessuto di Prato è di ricordarci cosa e dove dobbiamo guardare per non disperdere una delle lezioni di stile assolutamente centrale per dare significato non solo alla moda italiana, ma anche al come, il sistema di oggetti che rappresentano meglio di altri la parte solida del desiderio, può prendere posto nell’avventura umana all’insegna di valori che sarebbe sciocco considerare superati.

M.CAMILA VANEGAS

ELOGIO DELLA CAMICIA

Testo di MARIA CAMILA VANEGAS

“It’s too easy to describe my white shirt …It’s too easy to declare a love that winds like a red thread throughout my creative career”. Che in italiano si traduce in: “E’ troppo facile descrivere la mia camicia bianca. È troppo facile dichiarare un amore che si snoda come un filo rosso nel corso della mia carriera creativa”.

Queste sono le parole di Gianfranco Ferré, un grande artista che, anche se è morto, è commemorato ancora per la sua creatività e per il suo stile unico e complesso. E per chi, come me, che vogliono incontrare ed avvicinarci alle sensazioni di grandezza che lui fa sentire c’è, da Febbraio di quest’anno, una grande mostra al Museo del Tessuto di Prato, fatta in collaborazione con la Fondazione Gianfranco Ferré. La mostra racconta nella maniera più giusta e assertiva, la creatività, lo stile architettonico caratteristico e la genialità di un leader della moda contemporanea, sempre inspirandosi al capo iconico che lo rappresenta: la camicia bianca. E ora vi chiedo, quando si parla di camicie bianche di classe superiore, a chi si pensa? Solo a lui, un artista unico e inimitabile, e alla sua camicia bianca che è diventata una delle voci simboliche della moda italiana nel mondo.

La mostra si sviluppa in due grandi stanze al primo piano, dove i visitatori possono scoprire l’approccio e il disegno tecnico dell’architetto nella costruzione degli indumenti, fatta con installazioni artistiche di grande suggestione, innovative e di vasta interazione. Un’esposizione da non perdere che permette, non solo agli amanti della moda, di entrare in contatto con lo stile sartoriale poetico di Ferré e il suo design innovativo, attraverso una selezione di ventisette camicie tra quelle più straordinarie, create durante i suoi venti anni di carriera, insieme ai suoi disegni personali. L’originale impostazione dei diversi cappi, ci permette approfondire e capire la complessità e l’ingegno inerente alla costruzione di alcune delle camicie più strutturate, individuando i passaggi più cruciali per lo sviluppo creativo.

L’ambientazione è stata fatta con molta attenzione, seguendo un ordine giusto che ci fa capire l’innocenza e la meraviglia con cui sono fatte queste famose camicie. Le installazioni artistiche ci sorprendono con un gioco di trasparenza e di volumi, focalizzandosi nelle forme come un piccolo esercito di capolavori sartoriali, dandoci l’opportunità di scoprire l’evoluzione stilistica dell’architetto. Tra schizzi e disegni, è possibile ammirare il bustier di seta che si apre trasformandosi in una camicia rovesciata, ammirando in questa maniera il suo design logico insieme alla semplicità e alla genialità di un singolo collo che diventa una camicia; una vera e fantastica opera d’arte.

In conclusione, posso affermare che la mostra è un omaggio al lavoro e il talento dello stilista, che fin dall’inizio è diventato il rappresentante di un dialogo continuo tra architettura e moda. Definitivamente, è un’esposizione concepita per focalizzare l’attenzione sulla squisita poetica sartoriale del designer, che guida il visitatore in un viaggio unico alla scoperta della camicia bianca, il vero paradigma dello stile di Ferré, grazie a un percorso che mette in luce una visione straordinariamente ricca di elementi di un designo innovativo e una creatività coinvolgente.

MINA QUINTOVENTISETTE SCULTURE BIANCHE

Testo di MINA QUINTO

Un’antica industria tessile, ventisette sculture bianche sospese per aria, una combinazione di luci soffuse e un abile architetto della moda. Ecco gli ingredienti della mostra “La camicia bianca secondo me. Gianfranco Ferrè”, visibile al Museo del Tessuto, a Prato.

La retrospettiva, dedicata alla camicia bianca, capo iconico del grande stilista Gianfranco Ferrè, riporta alla luce il suo modus operandi: combinando intuito, fantasia e poesia all’artificiosa, ma attendibile razionalità e al concreto progetto architettonico di cui ne è fedele discepolo, ha saputo donare prestigio a semplici camicie bianche.

In un primo momento, lo spettatore si ritrova ad ammirare le eteree e candide camicie bianche, considerate elemento di continuità della carriera dello stilista e disposte in ordine cronologico, dal 1982 al 2006.
Impelagandosi tra un espositore e l’altro, ci si accorge come un capo apparentemente semplice sia diventato un elemento intramontabile nell’armadio femminile, grazie ad opere di scomposizione e ricomposizione degli elementi decorativi, dei tessuti e dei volumi.

Successivamente, proseguendo il percorso, lo spettatore indaga sul lavoro che precede la realizzazione fisica di un capo attraverso l’armoniosa esposizione di bozzetti, progetti, fotografie, immagini pubblicitarie e redazionali: la cultura di architetto, plasmata sul raziocinio e su norme matematiche e logiche, trapela nella costruzione degli abiti, intesi come realizzazione di strutture architettoniche, associati ad uno spiccato senso creativo e alla capacità sartoriale.

Al termine di questo viaggio onirico, rivivendo le tappe più significative di uno degli esponenti della moda italiana, le camicie bianche prendono finalmente vita: lo spettatore può assistere, attraverso la proiezione delle sfilate, alla più elevata realizzazione di un progetto, di un sogno, di un desiderio, quello per la camicia bianca, simbolo di purezza e autenticità, eleganza e femminilità, arte e maestria.

L’iter espositivo è funzionale al processo etico: di seta arricciata, pizzo, mussola o di qualsiasi altro tessuto, arricchita o meno da elementi accessori, la camicia bianca rimane un evergreen senza tempo nel raffinato universo femminile.

RUGGERO GALLIAL MUSEO DEL TESSUTO DI PRATO: LA CAMICIA BIANCA SECONDO ME

Testo di RUGGERO GALLI

La scelta di raccontare il genio creativo Gianfranco Ferrè attraverso il suo capo icona – la camicia bianca – è frutto della collaborazione tra la Fondazione Museo del Tessuto di Prato e la Fondazione Gianfranco Ferrè, ora diretta dal fratello Alberto Ferrè.

Personalmente ho apprezzato tantissimo la mostra che mi ha permessi di riscoprire uno stilista dall’estro creativo e progettuale di primissimo livello. La visita alla mostra mi ha permesso principalmente di assaporare e godere di 27 modelli di stile uno più bello dell’altro che mi hanno rapito e lasciato dentro di me la voglia di acquistare una camicia di Ferrè.

La luce portata puntualmente sulle camicie consente al bianco di accendersi in diverse tonalità e di evidenziare gli elementi strutturali, stilistici e funzionali che risiedono nella modalità progettuale del saper fare e dell’eccellenza propria del miglior Made in Italy, propria di Gianfranco Ferrè.

La camicia bianca puo’ considerarsi la punta dell’iceberg dentro il quale sta il credo creativo di Ferrè. Dopo gli elogi sullo stilista Gianfranco Ferrè le mie parole vertono sue 2 osservazioni prettamente personali sorvolando sulla scelta della location. La prima risiede nella percezione che la mostra mi ha comunicato e di conseguenza la persona Ferrè mi ha trasmesso. Tale percezione ha preso vita dalle bozze, scritti, disegni tecnici, materiali fotografici, redazionali che appoggiavano in maniera circondante le 27 sculture che padroneggiavano la sala cardine della mostra.
Se la mostra, come dovrebbe essere, fosse la perfetta traduzione dell’artista sia come estro che come persona, allora sembra che Gianfranco Ferrè sia una persona non gelosa del proprio lavoro ma al contrario disponibile ad offrire la propria esperienza professionale e il proprio pensiero alle giovani generazioni desiderose di esprimersi nella moda. Trovo un senso di condivisione in tutto ciò che definirei sublime, lontana da qualsiasi avidità, restrittezza, segretezza tipica di molti artisti.

La seconda osservazione è, invece, negativa e verte sulla personale perplessità di un’assenza di celebrazione che la mostra, l’artista merita.
Dico questo perché la magia di quella sala avrebbe dovuto concludersi con l’atto che è considerato il risultato finale per uno stilista: una passarella.
Una passarella avrebbe, a mio parere, dato il perfetto mix di favola e realtà che la sala avrebbe meritato. Questo poteva essere fatta semplicemente adattando le 27 sculture ad una semplice passerella tipica della sfilata. Riuscire a comunicare il carattere celebrativo sarebbe stato la scoccata vincente nel cuore dei visitanti e di me stesso.

VALENTINABREVI RIFLESSIONI SU FERRE’ (cinese)

Testo di VALENTINA (Chenxin)

奇安弗兰科·费雷 是曾任迪奥 创意总监的设计大师于1974年创立的个人同名品牌。创始人Gianfranco Ferre于2007年辞世,随后该品牌的创意总监就一直频繁变更。2011年4月,品牌解除了设计师组合Tommaso Aquilano和Roberto Rimondi的创意职务,随后另一对组合Stefano Citron和Federico Piaggi上任。

然而最新消息是,Stefano Citron和Federico Piaggi这对组合也将离任奇安弗兰科·费雷 (Gianfranco Ferre) ,但究竟是主动离开还是同前任一样被开除尚不明确。由于继任创意总监未能定夺,Gianfranco Ferre将缺席2014年2月的米兰时装周

Stefano Citron和Federico Piaggi这对设计师组合,相较前任更加忠于创始人费雷先生的美学理念,以立体的建筑廓形、流畅大气的线条以及腰部曲线的强调为特色,将费雷女性阳刚潇洒的一面淋漓展现。

LIANG CHENGIANFRANCO FERRE’ (cinese)

Testo di LIANG CHEN

向以简洁线条、用料高雅华贵、色彩明亮而闻名于世。但参观博物馆之后,对他的设计有了更深一步的了解,在博物馆中展示的仅仅只是白色的衬衣,这样简简单单一件衬衣,在他的脑海中却有各种各样的变化。并且手稿的线条是如此的简约且流畅,但在简单之中却能展现丰富的动态以及设计的重点与精髓,这正是他的过人之处以及被世人所认知的重点。我想这与他之前学习建筑是密不可分的,用以一个建筑的思维去设计服装,以刚硬耿直的线条贴合人体、但柔软且轻盈的面料诠释柔美。由于他对纺织品细致的研究才使得他能够准确的把握每种面料的特性从而在此之上做造型。Ferre的艺术世界充满诗情画意和遐思幻想。他的艺术概念是:时装是由符号、形态、颜色和材质构成的语言表达出来的综合印象和感觉;时装寻求创性和传统的和谐统一。而如何运用材质是最初的重点,在博物馆中,我们从各种材质的原材料看到最后他著名的白色女士衬衫,让我感觉一件成功出色的作品它的形成是需要一个漫长的过程的,并且需要有这样像Ferre一样出色的设计师恰当的将其用到好处,才可以使每个原材料发挥自己的特长服务且增色于成衣。

Testo di SIMONA (Zhou ying) SIMONA

Gianfranco Ferre是一名享誉全球的意大利著名设计师,素有“造型美天才”之称,曾任DIOR的艺术总监。
我感觉ferre设计的服装中最重要的特性是品质、独特、唯一和豪华,其服装的特点是刚柔相济、轮廓清晰,面料考究、色彩鲜明,载剪细致精巧,设计平和却抢眼,雕塑感和印度异域风情成为Ferre的两大特点。让人感到了一种传统中的现代、摩登中的古典,是一个严格继承欧陆传统经典的品片,寻求创新和传统的和谐统一,充满奇思幻想,诠释了一个多维的现代生活方式。
男装
对于他的男装,我感觉Ferre的男装显得很大方,西装、衬衫、领带甚至其他的配件,多半以正统带复古的款式居多,颜色也较偏向原色系,特别是黑色、蓝色,在一片前卫、新潮的艳色里,反而流露出不同凡响的男性气质。Ferre设计的男装别具一格。而今男装的象征不仅仅是地位、权势,更是现代精神和文化的体现。Ferre的男装突破了传统拘谨的模式,舒适自由、线条柔和,阳刚气十足的鹿皮装、麻质便装及源自运动装的便装,实现了他的设计思想“男装需要自由”。
女装
对于女装,我感觉Ferre的女装最能诠释都市淑女兼具的干练气质与妩媚风采。他惯以吕型的配饰如胸花、领结或取素材上明显的图案如条纹、圆点、动物皮纹等,营造出无懈可击的女性风情与傲视群伦的名媛气质。且多适合身材较高的女性穿着。他的套装讲究材质与精工,极适合职业女性出席正式场合穿着。

IRENE LIBBILA STORIA DI GIANFRANCO FERRE’

Testo di IRENE LIBBI

Quando iniziamo a parlare di uno stilista dobbiamo avere bene in mente quale sia il suo punto di forza. Ferré è riuscito ad unire due mondi agli antipodi: il mondo della moda, il mondo delle emozioni, del surreale, con quello della logica, della ricerca, della progettazione del mondo dell’architettura. Ferré ha posto tutta la sua razionalità, il suo senso della geometria al servizio del taglio, del disegno, del vestito.

Rappresenta tutte quelle persone convinte di intraprendere una specifica carriera lavorativa, e che poi, paradossalmente, vengono catapultati in un ambiente e in un contesto totalmente differente. Le amiche dell’università del Politecnico di Milano, nel libro a lui dedicato Ferré, le origini, i valori, i successi: storia di un grande della moda che la celebrità non ha cambiato, scritto da Edgarda Ferri, non si aspettavano che iniziasse a lavorare per il mondo della moda. Eppure avvisaglie c’erano state! Attento ai look delle sue compagne, dispensatore di consigli stilistici, produttore artigianale di cinte e bijoux, ma tutto, sia dai compagni che dalla famiglia era visto come un hobby, una modalità di guadagno, piuttosto che uno sviluppo professionale. Ma Milano è in fervore, c’è attenzione per chi ha talento e chi è bravo si fa strada. Siamo nel ’68, il mondo della moda cresce a dismisura, i designer sono celebrati come star. Le collaborazioni si accumulano, prima con la boutique Rosy Biffi in via Fabio Filzi a Milano, poi l’incontro con Walter Albini.

Anna Piaggi, importante giornalista di «Vogue», in quegli anni scrive: «Credo che Ferré abbia trovato un suo spazio abbastanza in fretta nel mondo della moda perché si è presentato contemporaneamente come stilista e come architetto. È questa duplicità che ha conquistato il pubblico. L’essere architetto gli conferiva autorevolezza».

È l’Oriente che lo affascina e quando un’azienda di abbigliamento genovese gli propone di partire per l’India, per studiarne l’artigianalità e le potenzialità produttive, non dice di no. Dal 1973 al 1977 esplora il paese in tutte le sue parti, ma ogni mese torna nella sua adorata Legnano, città di nascita dalla quale non si distaccherà mai. Ferré è un uomo di grandi tradizioni, nonostante la sua voglia di scoprire, di esplorare, la sua Legnano e le sue due “mamme”, così chiama affettuosamente la mamma e la zia, rappresentano le sue radici dalle quale non è affatto disposto a staccarsi totalmente.

Torniamo all’Oriente. «Sono stati i colori e le forme che mi hanno stregato, sono stato letteralmente folgorato dall’elementarità delle loro forme di vestire e della loro estrema eleganza, così perfette da non aver bisogno di esser migliorate». Così parla Ferré in un’intervista. L’Occidente e l’Oriente non sono solo poli geografici distanti, ma anche poli in termine di gusto, gusti che si combinano nelle sue opere in maniera armoniosa. L’Occidente rappresentato dalle forme nitide e rigorose, dal culto del progetto, mentre l’Oriente si manifesta nella sua preziosità, dalla ricchezza, dall’opulenza dei tessuti, i colori, nei riflessi dei metalli e delle pietre. Il viaggio in India lo cambia, più probabilmente lo forma. Qualsiasi persona è frutto delle sue esperienze, del suo bagaglio esperienziale… Ferré sarebbe stato lo stesso, avrebbe avuto lo stesso successo se non fosse stato così condizionato dalla sua esperienza indiana? Non credo. È qui che la sua concezione estetica cambia. Il Ferré immaturo, ancora dedito alle cinture e ai bijoux, entra in una nuova fase: la sua personalità esplode in progetti più ampi e maturi.

Nello stesso periodo, nelle sue soste in Italia, mantiene una serie di rapporti di collaborazione e di consulenza per gli accessori con nomi già affermati, come Walter Albini e Christiane Bailly e rapporti di consulenza stilistica con Aziende di maglieria e costumi da bagno, che sfilano per la prima volta nell’ambito di “MareModa Capri” e gli fanno meritare il premio che inaugura la serie dei riconoscimenti ottenuti nella sua carriera.

Dal 1974, le prime collezioni e le prime sfilate, e poi l’incontro con Franco Mattioli, imprenditore bolognese che, nel 1978, diventerà suo socio.
Ferré è nel periodo di ascesa. Firma emozionato la prima linea di prêt-à-porter donna nel 1978, a cui poi sopraggiunge dopo poco la linea di abbigliamento maschile.

Nel 1989 inizia l’esperienza come direttore artistico di Dior, esperienza che durerà fino al 1996, anno in cui decide di abbandonare la maison francese per dedicarsi interamente alla sua griffe. È anche questa esperienza di Alta Moda che lo forma. È in questo paese lontano, nella Parigi degli anni Ottanta-Novanta, che capisce ulteriormente che saranno i colori, le forme tradotte in volumi, le sete, i taffetà, i tessuti preziosi, le lane finissime i pilastri su cui fonderà il suo futuro.

Nella progettazione di una collezione Gianfranco Ferré segue regole già collaudate. «Ci sono dei punti di riferimento che sono diventati costanti nell’iter delle mie collezioni. Penso che si possano tentare innovazioni a patto di mantenere inalterato lo charme della tradizione. Mi spiego: se si fa una gonna dritta, un pezzo classico, basta ridarle proporzioni moderne abbinandola a una camicia larghissima. Riconoscere che alcune forme essenziali non sono soggette alla moda è un pregio secondo me». L’amore per la tradizione si esplica proprio in queste sue parole. Tale concetto è riportato nel suo prodotto iconico per eccellenza: la camicia bianca. Uno dei suoi capi principali vive di questo: amore per la classicità e per la sua innovazione.

La mostra organizzata dalla fondazione Gianfranco Ferré, dedicata a quest’ultimo, nel Museo del Tessuto di Prato, mira a ricordare il talento dello stilista scomparso nel 2007. Restituisce alla memoria degli spettatori ventisette camicie bianche disegnate dallo stilista nella sua carriera. Esposte in ordine cronologico, le luci puntano esclusivamente sull’oggetto, in un gioco di luci e ombre. Quasi un luogo di riflessione, silenzio, le camicie fluttuano nell’aria, sospese, in uno spazio mistico. Ma la domanda sorge spontanea…perché mancano gli abiti da sera, perché mancano i suoi colori brillanti e tutto il resto delle sue collezioni più spettacolari? E poi perché un’artista del genere viene ricordato in una Prato, senza nulla da togliere, ma non legata alla storia dello stilista. Avremmo accettato meglio se si fosse realizzata nella sua città natale Legnano, a cui era così legato. Ma poi Milano o Parigi perché non avrebbero potuto ospitare una mostra del genere? La domanda rimane senza risposta.

Ma mentre la mostra celebra la sua arte la società proprietaria dell’azienda, Paris Group Dubai, decide di chiudere i battenti e fermare l’azienda Ferré. D’altronde, dopo la morte dello stilista, il marchio aveva perso la sua anima. Nessuno degli stilisti che si sono susseguiti nell’ufficio stile si sono saputi distinguere né dare un senso di continuità alle collezioni. Un altro marchio che muore, proprio quando il suo fondatore viene celebrato in una mostra a lui dedicata. Un altro pezzo del Made in Italy va via, svanisce solo perché non più in grado di produrre profitto. Il mondo della moda è senza ripensamenti. Chiunque, anche i più grandi possono essere tagliati fuori da un momento all’altro; resta solo che ricordarli nelle memorie, nei testi storici e in queste mostre, le quali, benché relegate in realtà per noi incoerenti, sono in grado di metterci in contatto diretto con il lavoro dello stilista e con le sue emozioni.

MARIAGRAZIA DI ROSABREVE COMMENTO ALLA MOSTRA DI FERRE’

Testo di MARIAGRAZIA DI ROSA

La mostra è stata organizzata dalla fondazione Museo del Tessuto di Prato e dalla fondazione Gianfranco Ferrè, dedicata al talento di una delle figure più significative della moda internazionale. Questa esposizione racconta la sua capacità progettuale attraverso la camicia bianca e le sue costruzioni. Fu per Ferrè la sua più grande invenzione perché riuscì a trasformare con particolari d’opera d’arte la camicia bianca, essendo un elemento base del guardaroba. In esposizione ci sono 27 camicie bianche realizzate in 20 anni di attività geniale, creativa e progettuale, il tutto supportato da immagini, disegni originali firmati dallo stilista, e installazioni multimediali con macroproiezioni delle sfilate dal 1978 al 2007. Inoltre lo stesso Ferrè dichiarò che la camicia bianca è il vero e unico segno del suo stile che dichiara una costante ricerca di novità e un costante amore per la tradizione.

IDEAL DRIDIOMAGGIO A UN MITO

Testo di IDEAL DRIDI

La Mostra dedicata al grande stilista Gianfranco Ferrè organizzata presso il Museo del Tessuto a Prato, dalla stessa Fondazione Ferrè, si intitola non a caso: La Camicia bianca secondo me.
Perché la camicia? La camicia era un capo che Ferrè amava molto e che nelle sue mani era diventata quasi un’icona: la definiva lui stesso “un lungo filo rosso che mi ha seguito durante tutta la mia carriera”.
E non a caso, dopo appunti,foto,disegni, le ventisette camicie, tutte rigorosamente bianche, ci appaiono concentrate nella seconda sala testimoni silenziose di lunghi anni di studi e di genialità creativa.
Esposte come statue, alcune ottocentesche di immagini, ma tutte moderne nella ricercatezza delle linee e proporzioni, le ventisette camicie ci danno l’idea di antico, ma di un antico rivisitato, da un architetto, quale Gianfranco Ferrè era.
Colpisce il rigore, l’accostamento dei volumi che testimoniano la particolarità dello stilista originale,ma mai stravagante, frutto del suo lungo lavoro sul design dell’abito e delle connessioni con il mondo della moda.

La mostra, con i suoi capi rappresenta la sintesi di tempi e luoghi remoti, di grande esperienza non solo nella moda, ma anche di esperienze vissute in mondi lontani.

Questa molteplicità di fattori, ha permesso a Gianfranco Ferrè la creazione di queste “white blouses” molto particolari, ma anche senza tempo, giocate su uno sfondo di luce –ombra che ne sottolineano gli aspetti più significativi e valorizzate come se fossero sottoposte a raggi X rivelandone lo scheletro portante, spesso invisibile quando il capo viene indossato e valorizzate da un fantastico fotografo qual è Luca Stoppini.
Quando poi appaiono le sequenze delle sfilate più importanti, le camicie si animano e prendono vita attraverso le modelle facendo veramente apparire tutta la genialità creativa di questo grande stilista.

BREVI NOTE SULLA MOSTRA FERRE’

Testo di LISA RICCI

“Nel lessico contemporaneo dell’eleganza mi piace pensare che la mia camicia bianca sia un termine di uso universale. Che però ognuno pronuncia come vuole”. Così lo stilista, Gianfranco Ferré definiva quello che era per lui il “capo icona”: la camicia bianca. Nella prima sala siamo accolti da un sistema di installazioni sospese su cui scorrono disegni e autografi di Ferré. Nella sala successiva ci troviamo davanti alle ventisette camicie bianche, un piccolo esercito di capolavori sartoriali; ognuno dei quali è raffigurato dai meravigliosi bozzetti, disegni tecnici e scatti fotografici. Si chiude la mostra con un montaggio di video che rappresentano i vent’anni di creatività di Gianfranco Ferré, con una sequenza delle sfilate più importanti, dal 1978 al 2007.

LA MIA LETTURA DELLA MOSTRA DI FERRE’

Testo di FEDERICA PIEDIMONTE

Mercoledì 26 Febbraio sono andata a Prato a visitare la prima esposizione dedicata al grande architetto stilista Gianfranco Ferrè: “La camicia bianca secondo me” organizzata dalla Fondazione Museo del Tessuto di Prato. In mostra ci sono 27 camicie bianche che non sono le più preziose della collezione della Fondazione Ferrè, ma quelle che maggiormente raccontano questo percorso dall’idea al progetto e poi al manufatto, poichè la moda di Ferrè vive in un rapporto continuo tra forma e volume e tessuto.
L’incipit della mostra è affidato ad un sistema sospeso di teli su cui scorrono macro immagini dei disegni autografi di Ferré, lampi perfetti che delineano la sua visione creativa e che rappresentano la chiave per accedere all’universo insito a ciascun progetto.
Il cuore della mostra vive nel centro della grande sala successiva, dove le ventisette camicie bianche, testimoniano silenziosamente vent’anni di genialità creativa e progettuale. Esposte rispettando la cronologia della loro nascita, le camicie sono sculture “bagnate” da una luce pensata per consentire al bianco di accendersi in diverse tonalità e alle ombre di fare da contrappunto, per ottenere un suggestivo effetto plastico. Ai lati della grande sala espositiva, sono presenti disegni tecnici, bozzetti per le uscite in sfilata, scatti di grandi maestri della fotografia, immagini pubblicitarie e redazionali provenienti dall’Archivio della Fondazione Ferré.
Un messaggio di purezza e di eleganza sublime, una mostra per intenditori e per appassionati della moda, di lettura immediata perché esalta la bellezza delle forme e l’anima stessa dei modelli.

GIULIA FICINIIL RE DELLA CAMICIA BIANCA

Testo di GIULIA FICINI

Lo chiamavano “l’architetto della moda”. Un appellativo che s’è portato dietro per tutta la sua carriera.Una visione della moda grandiosa e strutturata, semplice e rigorosa, l’attenzione maniacale per il taglio, la costruzione, l’uso dei tessuti, la lavorazione. Per la qualità e l’eleganza. Quella della camicia bianca, che ha sempre scandito le sue collezioni, rubata al guardaroba maschile e regalata alla donna come strumento di seduzione.  (Repubblica.it – 17 giugno 2007)

Gianfranco Ferrè è stato uno dei grandi protagonisti della moda italiana. Uno degli “autori” che ha contribuito a costruire il fashion-system riconosciuto in tutto il mondo, per la sua capacità di tenere insieme creatività, innovazione e qualità del prodotto. L’Architetto stilista, creava abiti, partendo da una realtà bidimensionale quella del disegno avendo però già in primissima battuta il corpo umano come punto di riferimento. Comporre moda significa dar vita ad un’espressione propria, che associa un contenuto a una forma, nutrendosi di stimoli esterni, di esperienze vissute… Gianfranco Ferrè non smetteva mai di creare, nemmeno in vacanza. Era una cosa che lo rilassava. Da una melodia, da un paesaggio o da una semplice parola, poteva nascere una collezione intera. Le mani, per Gianfranco sono state il suo più fedele alleato, lo strumento in cui riponeva più fiducia: se non disegnava, doveva tastare, palpare, frugare la materia. Nei suoi abiti ha fatto in modo che si concretizzassero sempre gli elementi e i comportamenti che hanno caratterizzato da sempre il nostro vivere: il bisogno di comfort, il senso di libertà e l’eleganza e il colore.

“Lo stimolo – afferma Ferrè- mi viene dalla testa di una persona normale, che vive quella realtà. Con la mia moda voglio dare degli oggetti e dei vestii positivi, reali. Osservo le metamorfosi che subiranno un colore, una abito, una manica, nel lavoro che fanno gli altri stilisti, nel cinema e nel teatro. Le ispirazioni, quelle le ritrovo ovunque, nei viaggi, nelle mostre, in una rivista, nell’architettura.” dal libro Ferrè di Edgarda.

Durante lo scorso anno ho avuto la possibilità di studiare da vicino lo stile di Ferrè, di capire come si relazionava al mondo del fashion, ma soprattutto come si relazionava al suo pubblico. Per la prima volta, sono riuscita a capire da dove partisse l’idea di creare, ma soprattutto ho avuto l’opportunità di studiare non solo un couturier, ma un architetto che è riuscito a traslare la tecnica su un concetto mutevole nel tempo come lo è la moda, cercando di modellarlo su essa. Il rigore dello studio delle sue forme, la scelta accurata dei materiali e soprattutto dal ricorso a trattamenti e lavorazioni che integrano il meglio della tradizione artigianale con le più avanzate espressioni della tecnologia e del know-how industriale, hanno fanno sì che Gianfranco Ferrè divenne uno degli stilisti più importanti. Disegnava gli abiti femminili in modo istintivo, sapendo però quali esigenze doveva soddisfare. Sapeva unire il look maschile a quello femminile, usare il tessuto da uomo sull’abito elegante, la camicia da smoking sulla pelle nuda e sopra una lunga gonna di pelle nera. Gianfranco Ferré era il re della camicia bianca. Nelle sue mani, in diverse varianti, questo capo diventò un vero e proprio strumento di seduzione con particolari sfarzosi. Aveva proprio un amore spassionato per la camicia che come un filo rosso seguiva tutto il suo percorso creativo. Un segno del suo stile, che dichiara una costante ricerca di novità e un non meno costante amore per la tradizione. Questo processo di elaborazione rivela sempre un intervento ragionato sulle forme. Mai uguale a se stessa eppure inconfondibile nella sua identità; la blusa candida sa essere leggera e fluttuante; impeccabile e severa quando conserva il taglio maschile, sontuosa e avvolgente come una nuvola, o aderente. La sua camicia è stata vissuta con un appel speciale e come espressione di femminilità raffinata e naturale. Soprattutto la sua blusa candida, così come l’ha interpretata e proposta, sia emblematica di un modo assolutamente attuale di intendere la moda e il vestire, proprio per le sue versatilità. Tradizione e novità sono infatti gli elementi da cui prende il via la storia della camicia bianca Ferré. La tradizione, il dato di partenza, è quella della camicia maschile, presenza codificata e immancabile nel guardaroba, che ha fornito uno stimolo incredibile al desiderio di inventare, alla propensione a rileggere i canoni dell’eleganza e dello stile, giocando tra progetto e fantasia. Letta con glamour e poesia, con libertà e slancio, la quasi immutabile camicia bianca si è rivelata dotata di mille identità, capace di infinite modulazioni. Sino a divenire, un must della femminilità di oggi… Viene spesso enfatizzata in alcune sue parti, il collo ed i polsi innanzitutto, oppure ridotta ed intenzionalmente privata di alcune sue parti: la schiena, le spalle, le maniche. Si impreziosisce di pizzi e ricami, è resa sexy dalle trasparenze, oppure incredibilmente ricca e importante da ruches e volants. Si gonfia e lievita con il movimento, quasi in assenza di gravità. Svetta come una corolla incorniciando il viso. Scolpisce il corpo per trasformarsi in una seconda pelle. E’ la versatile interprete delle più svariate valenze materiche: dell’organza impalpabile, del taffettà croccante, del raso lucente, della duchesse, del popeline, della georgette, dello chiffon…Si adatta al pantalone grigio da giorno, alla gonna nera e diritta, al jeans, al pullover, al blouson di pelle. Può essere protagonista assoluta di un look oppure complemento discreto, magari sotto la giacca del tailleur. E’ un capo da giorno e da sera.

“E’ il pezzo quasi per antonomasia di un guardaroba vissuto in libertà, composto da elementi che si possono accostare tra loro in infinite varianti sulla base di scelte e desideri del tutto personali. Nel lessico contemporaneo dell’eleganza, mi piace pensare che la mia camicia bianca sia un termine di uso universale. Che però ognuno pronuncia come vuole…” Gianfranco Ferré, tratto dal libro Lezioni di Moda.
Straordinario pensare, che un capo così semplice diventi un oggetto così emblematico e così emotivo: durante la mostra a Prato, al Museo del Tessuto, ho potuto ammirare per la prima volta, questi capi eccezionali. Disposte su dei manichini, in una stanza “buia”, le camicie bianche risaltavano in tutta la loro eleganza. Girando tra di esse si poteva percepire che ognuna era unica e irripetibile: il dettaglio di una camicia, era solo per quella, destinata a una sola donna, qualcosa di veramente “magico” . Grazie all’installazione video le camice hanno preso vita, forma, volume…vederle fluttuare sulla passerella mi dava un senso di dinamicità, di carica emotiva, avrei veramente voluto indossarne almeno una.
Il marchio Gianfranco Ferrè, oggi non brilla più come un tempo, acquistato dalla Paris Group di Dubai nel 2011, pochi giorni fa ha dichiarato che non investirà più in Italia e questo significa che uno dei più grandi brand che ha rappresentato il Made in Italy, non lo sarà più. Le discordie legali e le vicende finanziarie hanno preso il sopravvento sulla vita del brand, tant’è che oggi la maggior parte dei negozi sono stati chiusi e nel giro di pochi anni ha cambiato almeno tre direzioni creative. Un vero e proprio declino di uno dei brand più illustri, più vivi , con dei reali contenuti tecnici ed artistici. Una vera perdita per il mondo della moda.

L’ARCHITETTO GIANFRANCO FERRE’

Testo di GIULIA CAPONE

Gianfranco Ferré è stato oltre che uno stilista affermato sia nel piano nazionale che internazionale, un architetto che ha sapientemente correlato il mondo della geometria con quello della moda. Ferré ha preso un capo basic come la camicia e l’ha concepito in maniera tutta nuova; spesso un colletto non era solo un colletto ma una parte di una normale tela bianca su cui l’artista non si arrendeva alla banalità della creazione di un capo che il pensiero comune avrebbe accettato ma cercava di sorprendere e lasciare esterrefatto l’osservatore.
L’architettura prevede strutture molto precise che l’architetto al il compito di decodificare reinterpretandole in maniera che il risultato finale non sia mai banale pur utilizzando formule e logaritmi che a volte vengono considerati tali; lo stilista italiano Gianfranco Ferré può essere considerato un architetto della moda in quanto ha portato la geometricità nelle strutture sartoriali che sotto il suo sapiente tocco lasciavano la banalità di una struttura classica assumendo sempre nuove forme, mai banali, che erano le molteplici sfaccettature che una stoffa bianca può assumere se modellata da un genio visionario.

GIANFRANCO FERRE’ SECONDO MESilvia Valesani
Ode all’architetto della moda

Testo di SILVIA VALESANI

L’allegoria della forma prende vita nello spazio riservato all’esposizione ambientata al secondo piano del Museo del Tessuto di Prato. Il protagonista è Gianfranco Ferrè. Uno dei casi più tristemente controversi del panorama-Moda dell’Italia nel mondo.
Radici da architetto e sensibilità da stilista: Ferré nasce innanzitutto da queste due inconfutabili certezze. Lo spazio riservatogli al Museo del Tessuto me le ha riportate entrambe alla mente, ricordandomi perché il mondo abbia tanto amato la sua moda. Per mezzo di un viaggio attraverso le sue molteplici interpretazioni di camicia (rigorosamente bianca), la Fondazione Gianfranco Ferré ha riportato alla luce l’heritage del marchio, sfruttando come forza motrice l’abbagliante bellezza dei pezzi cult dello stilista. I capolavori esposti si contraddistinguono per la pregevole fattura, ai limiti del maniacale, posta a servizio di una qualità impeccabile e di uno stile che, a mio parere, ha una solida componente avanguardista. C’è la precisione ereditata dagli studi in Architettura e l’intimità sussurrata dal perché di ogni piega, di ogni plissé, di ogni volant. C’è la necessità, quasi fisica, di un rapporto con la materia. La camicia bianca era il complemento fondamentale dello stile Ferré, iconico come un affascinante atlante bianco, su cui viaggiare con fantasia e rigore, poesia e logica, e, soprattutto, su cui lavorare secondo le più lontane geometrie, si tratti sia di combinazione di volumi e che di sperimentazione di forme. La creatività di Ferré era profondamente permeata dalle sollecitazioni culturali del suo tempo, epoca “apice” del Made in Italy, in cui la raffinatezza e la cura del dettaglio fungevano da monito per ogni stilista che si rispettasse, una sorta di dimensione amanuense dedita alla tecnica eccellente che con gli anni è stata, in vari modi, sperperata. Ammetto di aver fatto tutte queste considerazioni a posteriori, dopo cioè aver osservato con meraviglia (e non intendo lo stupore, ma la meraviglia vera) il concentrato di maestria che avevo di fronte agli occhi, ad opera di uno dei padri fondatori della moda italiana a cui, fino a quel momento, non avevo mai conferito la giusta importanza. Mi sono chiesta il perché. Come mai un universo estetico così toccante non ha avuto la meritata risonanza? Chi ha voluto che alle nuove generazioni moda non fosse raccontata la sua favola? È come se la pregevolezza di Gianfranco Ferré fosse stata stritolata da logiche amare che da sempre regolano il sistema. Non che finora mi sia crogiolata nell’illusione che la meritocrazia fosse parametro di riferimento in questo mondo, sia chiaro. Ma una considerazione del genere a me ha lasciato comunque l’amaro in bocca. “La camicia secondo me” è dunque la silenziosa testimonianza di uno stilista che ha reso ricca la moda senza pretendere indietro nulla, un omaggio in punta di piedi che non lascia spazio a superflui convenevoli. È il primo vero tentativo della Fondazione a tutela di quella cultura progettuale cardine della filosofia di Gianfranco Ferré, preziosa gemma da tramandare.
“È fin troppo facile raccontare la mia camicia bianca. È fin troppo facile dichiarare un amore che si snoda come un filo rosso lungo tutto il mio percorso creativo. Un segno -forse “il” segno- del mio stile, che dichiara una costante ricerca di novità ed un non meno costante amore per la tradizione” illuminava il couturier.

Greta del Popolo

LA CAMICIA BIANCA DI GIANFRANCO FERRE’:
LA TESTIMONIANZA DEL MADE IN ITALY

Testo di GRETA DEL POPOLO

Ci sono capi basici in ogni guardaroba che rappresentano la classicità e l’eleganza per la loro semplicità. La camicia bianca, che nel corso dei secoli ha mantenuto la sua forma e le sue caratteristiche principali, è una di questi. Gianfranco Ferrè ci mostra come un capo che ormai è diventato una commodity dell’abbigliamento possa essere reinterpretato e rimodellato. Attraverso un percorso che mostra la realizzazione delle camicie dal bozzetto al prodotto finito, vediamo la concretizzazione del made in Italy. La camicia prende vita, si anima, acquista personalità. L’architettura creativa di Ferrè stravolge le linee classiche che vengono ristrutturate e ricomposte attraverso lo scrupoloso studio dei dettagli e della vestibilità.
La mostra ci propone una finestra che mostra non solo la figura di Ferrè in tutta la sua genialità, ma la grande potenzialità di quel Made in Italy che ha fatto grande la moda italiana e che ha bisogno di ritrovare la sua strada.

Maria SolovyevaIL DESERTO BIANCO (inglese)

Testo di MARIA SOLOVYEVA (Мария Соловьева)

It was, taking 15min from Firenze Santa Maria Novella by train, then, through the cobweb of narrow and gloomy side-streets, to the centre of local china-town, Prato, our journey was over and we’ve finally reached the exhibition dedicated to one of the most fabulous designer in the world, the real architect houte cuture, Gianfranco Ferre’.
If u’ve ever seen masterpiece of Antonioni “Il deserto rosso”, you’d probably remember the phrase spoken by the heroine of Monica Vitti that was opened up with the following words “io non riesco a guardare lungo il mare…Se no, tutto quello che succede a terra non mi interessa piu’ “.
Precisely in this case i’d use this quotation easily remade following our subject: “Io non riesco a guardare a lungo i capolavori di Ferre’…Se no tutto quello che succede in fashion non mi interessa più”. Cause his heritage, his inspiration which he richly divided with us, are much more then millions of adorable fashion items that we could see in the books and his fashion shows. It’s even much more then those hundred of incredible white shirts represented in the exhibition. It is an one-way-ticket to the inevitable lightness of high fashion, pure and glorious, ruled by the strong hand of maestro.
Could we understand this just watching the exhibition given by Texture museum, so far away from the center of Florence? Could we know something about him, walking along the black walls following by searchlight?..Doubtfully, i guess.
But the only thing i’m quite sure about is that genius of Ferre’ was able to prevail even in such a misfortunate conditions (provided him by his mostly beloved country). In every single corner of this exhibition (and, frankly speaking, there were just a few), in every single glance that u could give around, in any single detail, in the fashion shows recorded and projected there, you could notice a magic touch of the master.
There are no words to describe how painful was to observe the greeting that his motherland payed to her glorious sun (cause, believe me, it’s quite impossible even to imagine to see Gianfranco Ferre’ exhibition in Prato), but there are also no words to express the everlasting power of a true talent which was even more obvious placed in such a conditions.

MARGHERITA BALDILA CAMICIA BIANCA SECONDO ME

Testo di MARGHERITA BALDI

Il Museo del Tessuto di Prato presenta un omaggio a Gianfranco Ferré, con un’esposizione mirata alla dedizione dello stilista nel realizzare le caratteristiche camicie bianche: uniche, di una perizia sartoriale precisa ed innovativa.
La mostra si apre con le immagini di alcune camicie, realizzate con la tecnica del negativo. Questo permette di esaminare i capi in modo analitico, vedendo cuciture ed effetti che la voluminosità delle forme conferiscono alle soluzioni. Il viaggio attraverso il mondo della camicia continua con una sala interamente dedicata: ai lati bozzetti e riviste in cui le creazioni di Ferré sono comparse; al centro, su busti di manichini sopraelevati, ventisette camicie dello stilista, in ordine di apparizione nelle sfilate. Per concludere, un video delle precedenti soluzioni per come venivano presentate in passerella.
A mio avviso, l’idea della fotografia x-ray è stata molto azzeccata, questa tecnica ha dato uno spunto per una nuova visione della moda, fatta non solo di abiti “belli”, ma studiati in modo preciso nella tecnica; così la componente razionale del processo creativo acquista un nuovo valore. Ferré unì infatti le sue conoscenze acquisite negli studi da architetto, riportando questa materia apparentemente distaccata, proprio nel mondo della moda; unendo arte e scienza, emotività e razionalità, in un binomio uniforme e completo in ogni sua parte.
La stanza principale della mostra è caratterizzata da una luce gialla soffusa, intensa solo sulle camicie presentate, che a mio avviso è venuta meno all’obiettivo della visione chiara delle soluzioni proposta nelle immagini precedenti. È come entrare in un sogno, quello apparentemente irrazionale di Ferré, quando ai lati della sala ne vediamo invece lo studio approfondito. L’esposizione poteva essere molto più chiara ed approfondita, fare due stanze su di uno stilista che ha dato tanto alla moda, rivoluzionando un capo che può sembrare assolutamente semplice come la camicia, sembra quasi di sminuire l’importanza del made in Italy. Due righe nel flyer in cui si parla brevemente di qualche camicia, mentre una descrizione a lato sarebbe stata più opportuna e chiara, per dare modo al visitatore di capire la storia di ogni capo e le fonti di ispirazione per la sua realizzazione.
Nonostante tutto vale la pena fare un salto alla mostra, sebbene sia totalmente visitabile attraverso il sito Internet dedicato, punto a suo favore perché ricco di documenti aggiuntivi, foto e video, completezza che però è mancata all’esposizione.

Informazioni
ferre.museodeltessuto.it

Orario
martedì – giovedì: 10 – 15
venerdì e sabato: 10 – 19
domenica: 15 – 19
Aperture straordinarie per gruppi su prenotazione

Costo ingresso
Ingresso intero: 8 euro
Ingresso ridotto: 6 euro
Ridotto speciale: 5 Euro (convenzione soci COOP)
Visite guidate ogni domenica alle ore 16.30 al costo di 6 €

Catalogo: Skira

Lamberto Cantoni
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20 Responses to "La camicia bianca secondo Ferré"

  1. Lamberto Cantoni   13 Marzo 2014 at 09:02

    Vorrei dire a Ruggero che condivido la sua impressione sulla mancanza di un finale celebrativo. Ma io pensavo piuttosto ad una presentazione di alcuni look integrali. E’ vero che gli organizzatori in qualche modo ci hanno restituito la completezza del gioco di moda previsto da Ferre’ attraverso i video delle sfilate. Tuttavia la qualità delle proiezioni l’ho trovata precaria.
    Cosa ha impedito l’arrivo di alcuni degli abiti che a suo tempo lo stilista regalo’ a Pitti?
    Possibile che tra i 300 capi donati non ci fossero dei buon esempi di integrazione tra camicia e gli altri elementi di un fashion frame?
    Qualcuno di voi potrà suggerirmi che la visione olistica del look potevamo ammirarla nelle foto di moda. E’ vero. Ma perché non presentarle in un formato piu coinvolgente? Almeno quelle piu rappresentative. Per esempio alcuni scatti di Michel Compte, Roversi, Steven Maisel…
    Forse gli organizzatori pensavano che esibendo look integrali e spettacolari foto si sarebbe indebolita l’idea centrale della mostra basata sulla lettura privilegiata della camicia.
    Ci può stare. E’ una scelta piena di buon senso.
    Eppure, io sono dell’idea che in questo momento, fosse importante osare comunicare la completezza della visione sulla moda di Ferre’ anche rischiando la spettacolarità che gli organizzatori, per ragioni non sempre chiare, hanno voluto limitare.

    Rispondi
  2. Bramclet   20 Marzo 2014 at 20:33

    Valesani n.1. E’ l’articolo più breve ma c’è tutto l’essenziale. Premetto che non ho visto la mostra. Pero’ mi piace leggere di moda se chi scrive ha la freschezza di chi la guarda senza paraocchi.
    Ho notato che nessuno si e’ posto questo problema…non e’ che a tradire Ferre’ siano state per prime le donne, non piu attratte dalla bellezza ordinata dei suoi look? Ho letto gliinterventi e guardato le immagini anche di Fallai. Elegantissime, tante belle parole, ma oggi le donne in vista si vestono così?
    Io penso di no e allora ecco spiegato il perché della crisi del marchio o della scarsa attenzione verso il fotografo.

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni   23 Marzo 2014 at 09:10

      Il Ferre’ che la mostra di Prato ci ha permesso di apprezzare, presuppone la capacita’ e la voglia di capire cosa significa riflettere sulla storia della moda (contemporanea). E’ vero che anche il mercato fa storia. Ma per fortuna esistono valori che trascendono i pur importanti riferimenti alla efficacia economica delle forme della moda.
      Il compito di una mostra e’ raccogliere e presentare una serie di oggetti a tema, per farci riflettere sulla valenza attribuibile ad un creativo, in relazione ad una sua collocazione in un mondo di fatti che definirei culturali.
      In un certo senso e’ cio’ che puo’ offrire la lezione di Ferre’ per i nostri problemi adesso e in vista del futuro della moda, a rappresentare i contenuti emergenti del progetto espositivo in questione.
      Nel caso di Ferre’ ci troviamo di fronte ad un grande creativo capace di diffondere le sue forme moda in tutto il mondo. E’ vero, come tu fai notare in modo forse brutale, che nell’ultima fase della sua carriera il mercato non lo premiava piu’ come in precedenza. Ma questo significa che la sua lezione e’ superata? Significa forse che i valori imbricati nelle sue pratiche creative si sono dissolti?
      Ammettiamo pure che, per usare il tuo linguaggio, le donne oggi non amino piu’ l’eleganza rigorosa di Ferre’, ma questo ci autorizza a stabilire un rapporto di causa/effetto tra i valori estetici ed etici promossi dallo stilista e l’insuccesso?
      Non pensi che nel processo della moda, in vista dell’efficacia economica, intervengano altri fattori, rispetto la dimensione estetica?
      Per esempio, se la strategia finanziaria che controlla la circolazione di un brand e’ fallimentare e dunque mancano le risorse per presentare, comunicare, promuovere una collezione, che possibilità ha uno stilista di difendere il suo lavoro?
      Comunque hai posto una questione intrigante. Non c’e’ dubbio che tra il pubblico l’immagine di Ferre’ abbia subito un feroce ridimensionamento. Ma devi considerare che lo stilista e’ scomparso nel 2007. Chi ne ha preso il posto ha lavorato in uno dei momenti piu’ drammatici della storia del brand. Tra l’altro il giornalismo anglo-americano, dominante in un mondo globalizzato, e’ sempre piu’ aggressivo nei confronti della moda italiana. Non e’ una novità: difendono una visione della moda che premia brand, stili, creatività che immaginano riflettere una loro identità nazionale.
      Ma se lo fanno significa che la moda italiana viene considerata in qualche modo competitiva. Mi preoccupa di piu’ l’incapacità tutta italiana di riorganizzarsi, di fare auto-critica, di cambiare, di presentarsi come un reale sistema moda.

      Rispondi
    • Silvia Valesani
      Silvia Valesani   25 Marzo 2014 at 16:43

      Innanzitutto la ringrazio per il complimento, mi ha fatto un gran piacere. In merito alla sua perplessità, sicuramente comprensibile e fondata, ci sarebbe da aprire un capitolo sulla dialettica tra moda creativa e relativa vestibilità. Personalmente mi capita spesso di apprezzare, alle volte anche adorare, creazioni che vedo sfilare in passerella nonostante io sia pienamente consapevole del fatto che non coincidano con ciò che preferisco avere nel mio guardaroba. Dunque è probabile che la questione da lei sollevata sia comunque motivazione parziale della decadenza di Ferrè, ma c’è da tenere ben presenti anche una serie di concause inevitabilmente legate alle gerarchie (malsane) del fashion system.

      Rispondi
  3. Bramclet   23 Marzo 2014 at 12:27

    Ma a noi cosa ce ne frega delle giornaliste english o di nuovayork? Spetta a noi per primi dire le cose che si debbono dire. Certo che se Ferre’ aveva dei problemi nel comunicare la colpa e’ sua. Cosa c’entrano le giornaliste se le donne lo considerano fuori moda!

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni   27 Marzo 2014 at 11:27

      Bramclet, hai una visione della “modazione” un po’ troppo romantica. Nessun creativo può restare a lungo in auge senza la complicità o la collaborazione di intermediari culturali tra i quali dobbiamo annoverare i giornalisti delle testate piu vendute.
      E’ ingenuo da parte tua sostenere la teoria dell’occhio innocente delle consumatrici, come se tutte fossero in grado di prendere decisioni libere da ogni contaminazione. Non e’ questa la realtà. La moda reale e’ un “oggetto dinamico” nel quale prendono posto forme, parole, eventi… Ma anche investimenti, tattiche, strategie. Credo che la durata di ciò che banalmente definiamo un profittevole successo dipenda più dall’orchestrazione degli elementi che ho citato, e non dal dominio di uno di essi.
      Ora, c’è qualcosa nell’orchestrazione del brand Ferre’ che non ha funzionato. La perdita di una quota di interesse femminile e’ prima un effetto e non la causa.
      Aggiungiamo anche che poco prima della meta’ degli anni novanta il giornalismo anglosassone, mediamente molto piu preparato sulle specificità della moda rispetto al nostro, ha cominciato ad attaccare il mito della moda italiana e a non fare più sconti. In particolare hanno messo il dito su una creatività poco reattiva, molto ancorata a modelli troppo standardizzabili. Per esempio, Suzy Menkes, autorevolissima giornalista americana, attacco’ frontalmente Ferre’ (il quale rispose non invitandola più alle sfilate Dior); Milano viene regolarmente attaccata con argomenti come: “non si da spazio ai giovani”. Potrei continuare a lungo.
      Bene, io non credo che questa autorevole e potente espressione del giornalistese abbia tutte le ragioni. Ma credo anche che uno dei nostri errori e’ di averne sottovalutato la portata e le implicazioni giuste che certamente aveva.

      Rispondi
  4. Frida   28 Marzo 2014 at 14:41

    Scusate se intervengo, ma mi interessa questo dibattito, anche perche’ voglio andare a vedere la mosta. Sulle camicie di Ferre’ la penso come Maria Soloyeva; bellissima sua citazione di Antonioni, uno dei miei registi preferiti.
    A Silvia vorrei chiedere cosa vuole dire con ‘dialettica tra moda creativa e relativa vestibilita’.
    Vuole dire che o l’una ol’altra?

    Rispondi
    • Adri91   28 Marzo 2014 at 17:57

      Frida mandami un sms quando vai voglio vederla anch’io. I like Maria: more heart, less words. Non pensavo che Ferre’ facesse camicie così belle. Voglio la Picaresque, sembra attualissima. Ma perché invece che far disegnare gli abiti ad altri stilisti non ripropongono fedelmente i veri capolavori di un maestro? Che non conoscevo bene, grazie Giulia e Irene. Così ci sarebbe piu’ spazio vero per giovani.

      Rispondi
    • Silvia Valesani
      Silvia Valesani   31 Marzo 2014 at 17:47

      Ciao Frida, intendevo dire che si tratta di una relazione biunivoca sempre più controversa al punto che, sì, secondo me arriveremo ad un momento in cui il panorama stilistico saturo costringerà l’una (la moda creativa “atuttiicosti”) ad offuscare, se non proprio escludere, l’altra.

      Rispondi
      • Frida   31 Marzo 2014 at 18:15

        Ciao Silvia, sono d’accordo. Ma secondo te quando la moda creativa “atuttiicosti” avrà vinto saremo piu felici? Mi piace comprare abiti un po’ pazzi. Ma se tutte vestissimo da pazze, avremmo ancora la sensazione di poterci vestire da pazze?

        Rispondi
  5. Silvia Valesani
    Silvia Valesani   1 Aprile 2014 at 17:06

    Probabilmente no, dove c’è conformismo non c’è pazzia.

    Rispondi
  6. Federica B.   1 Aprile 2014 at 19:15

    Moda e architettura. Un binomio fondamentale per la creatività di Gianfranco Ferré fin da quando posò la matita sul foglio per dare vita a un abito. Non a caso era chiamato “stilista architetto”, non solo perché nel 1969 si era laureato in architettura al Politecnico di Milano ma anche perché fare moda per lui era molto simile a costruire una struttura, con tanto di progetto, intriso di poesia e immaginazione, come lui stesso dichiarò.
    Come molti dei miei colleghi ho visitato la mostra organizzata dalla Fondazione Museo del Tessuto di Prato e dalla Fondazione Gianfranco Ferré curata da Daniela Degl’Innocenti, dedicata al talento di una delle figure più significative della moda internazionale.
    Sono d’accordo con quello che scrivono i miei colleghi in modo esaustivo, aggiungerei solo alcune mie suggestioni.
    Concepita con l’intento di mettere in luce la poetica sartoriale e creativa dello stilista, la mostra conduce il visitatore, attraverso diverse tipologie di lettura, alla scoperta della camicia bianca, vero e proprio paradigma dello stile Ferré, evidenziandone gli elementi progettuali più innovativi e le infinite, affascinanti interpretazioni.
    Il percorso espositivo gioca con la suggestione e la valorizzazione di elementi diversi: capi, disegni, dettagli tecnici, bozzetti, fotografie, immagini pubblicitarie e redazionali, video e istallazioni.
    Il cuore della mostra vive nel centro della grande sala, dove le ventisette camicie bianche, piccolo esercito di capolavori sartoriali, testimoniano vent’anni di genialità creativa e progettuale.
    Sono stata molto attratta dai disegni originali che illustrano la incredibile capacità di dare vita ad ogni creazione, sintetizzando tutti gli elementi necessari alla realizzazione del modello: silhouettes, volumi, dettagli, leggerezza o corposità della materia, sono già descritti nel tratto più o meno marcato, elegante e velocissimo.
    Interessante è anche la possibilità di acquistare un libro-catalogo edito da Skira con il quale è possibile documentarsi ulteriormente per interpretare al meglio la mostra.
    In conclusione mi ha dato l’idea di un corner della moda trattato in modo molto accurato.

    Rispondi
  7. Chiara Tintisona   3 Aprile 2014 at 00:17

    ..purtroppo non ho avuto il piacere di visitare la mostra pratese, ma ho sempre provato interesse per lo stilista Gianfranco Ferrè. La voglia di combinare l’architettura con la moda, ha suscitato curiosità ed interrogativi, subito messi a tacere, grazie alle opere uniche dello stilista legnanese.
    Dalle foto si evince la volontà del direttore artistico della mostra di comunicare una certa linearità ed espressività delle camicie. Il gioco di luce chiaro/scuro, esalta le linee e la luminosità dei capi bianchi illuminati da neon con sfondo buio, mentre la fascia di ferri, caratteristica del manichino, da una certa continuità al lavoro di Ferrè.
    Trovo molto interessante la vestibilità delle camicie che avvolgono il corpo quasi avvolgendolo con sinuosità interrotta da un austero e squadrato collo.
    E’ proprio questo mix di contrasti, progettazione, stile, programmazione e qualità che ha reso lo stilista uno dei maggiori stilisti al mondo. Peccato solo per la gestione del marchio che non ha saputo render onore all’architetto legnanese.
    P.s. I numerosi commenti letti sul sito medesimo, ha suscitato in me un certo interesse tanto da invogliarmi a visitare la mostra dedicata a Gianfranco Ferrè.

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  8. Ginevra Carotti   7 Aprile 2014 at 21:10

    Il “gigante” dalla folta barba che non amava seguire le tendenze, ma piuttosto preferiva lasciare un’impronta tutta sua, dominata dai colori brillanti, tessuti preziosi, propose abiti marcati da un’eleganza fuori dal tempo.
    La camicia bianca, capo che più basic non si può, per Ferrè diventa una struttura che deve coprire superfici del corpo. La stessa camicia bianca è stata protagonista della mostra, declinata in ventisette modelli, i così detti “silenziosi angeli” avevano ognuno il suo fascino.
    Personalmente la mostra mi è piaciuta molto, anche perché grazie alla disposizione lineare delle camice in un unica stanza semi buia trafitta da un raggio di luce, ovvero il bianco delle camicie; mi ha fatto assaporare il mood dello stile Ferrè di cui tanto mi avevano parlato.
    Mi ricordo ancora, quando piccola, mia nonna mi portava nella parte dell’armadio “giovane” e mi faceva vedere appesi e tenuti con estrema cura i tailleur e gli abiti di Ferrè, definito da lei stessa “Il Magnifico”… ed in effetti è magnifico è lo stile che proponeva lui, un’eleganza che mi rimanda a quelle delle ballerine classiche, con quei voilant e quei tessuti così leggeri che faceva sembrare la moda un leggero vento di primavera.
    Il modello che più ha catturato la mia attenzione è stato Picaresque della collezione donna prêt-à-porter Autunno-Inverno 2001, una camicia bianca insolita, quasi un ossimoro poiché il candido colore è nettamente in contrasto con il provocatorio corpetto. Proprio questo contrasto conferisce alla camicia un allure tutto particolare, in perfetto stile Ferrè che proponeva sulle passerelle abiti di un eleganza astorica.
    Leggendo una delle tante interviste dello stilista mi ha colpito una sua frase, che vorrei riportare: “vedere un mio vestito che copre diverse superfici con diverse facce e diverse anime e vive nel tempo perché spesso è ancora bello e la gente lo sa utilizzare, è una grossa soddisfazione. Non mi fa certo sentire un architetto mancato”.
    Credo che queste poche righe bastino a spiegare la singolare visione che questo uomo aveva sulla moda; il suo obiettivo era quello di fare abiti che si potessero utilizzare nel tempo, ecco perché prima parlavo di eleganza astorica; le sue creazioni possono essere riportate in qualsiasi periodo storico e non risulteranno mai essere fuori moda, anzi comunicheranno sempre qualcosa di diverso a seconda di chi le indossa.

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  9. Sara Cecconi   8 Aprile 2014 at 10:38

    A meno di setti anni dalla sua morte, Prato racconta la storia di Ferrè mettendo sotto i riflettori il capo icona della sua produzione; 27 camicie selezionate tra le più straordinarie, create in venti anni di attività.
    La camicia bianca, capo risolutore di tanti look e che tutte noi ne abbiamo almeno una nel guardaroba.
    Bella mostra! Concepita con l’intento di mettere in luce la poetica sartoriale e creativa dello stilista.
    Mi è piaciuta moltissimo l’esposizione, i giochi di luce e le ombre contornate da disegni tecnici, bozzetti e pagine di riviste internazionali che erano stati pubblicati.
    Per quanto riguarda la locazione non sono d’accordo sul fatto che la sede non fosse adatta o all’altezza, ma ritengo invece che meglio location non poteva essere scelta per la sua storia importante. Polo culturale molto attivo non solo nel distretto toscano, ma anche a livello nazionale, tanto da ricevere sovvenzioni anche dal Ministero della Cultura. Ex fabbrica Campolmi, situata all’interno delle cerchia di mura medioevali della città; è un’area impegnata nella produzione tessile da oltre 800 anni, che oggi conta circa 7000 aziende ed esporta in tutto il mercato filati, tessuti e macchinari altamente innovativi.
    Proprio per questo adattissimo a trasmettere al visitatore come Ferrè viveva un rapporto continuo tra forma, volume e tessuto e capire quale è stato il suo percorso: dall’idea, al progetto e al manufatto.
    Finalmente si torna a parlare di moda, moda italiana. Dal saper fare italiano al vero made in Italy.
    Penso che il valore aggiunto alle sue creazioni sia il colore; la scelta è fondamentale per dare forme, linee ai suoi abiti, vedi ” La camicia bianca”.
    Sicuramente essendo laureato in architettura, gli è rimasta l’impronta dei suoi studi, utilizzando la sua progettualità non per costruire strutture solite , ma creazioni armoniche che esprimono la loro storia.
    Ferrè non è uno stilista che ho avuto l’opportunità di conoscere, ma con l’occasione di essere andata a vedere la mostra e documentandomi, ho percepito un notevole interesse.
    Il suo stile mi piace, lo trovo essenziale e sempre attuale e quando ho appreso la notizia che l’azienda ha ufficialmente disinvestito completamente in Italia, devo dire che mi è venuto un pò di amaro in bocca; significa non solo un dramma per tutti i lavoratori del gruppo prossimi al licenziamento, ma anche una gravissima perdita per il patrimonio storico, culturale artigianale e sartoriale dell’Italia.
    Concludo con una frase rimasta nel cuore e negli occhi; l’ironica affermazione che a caratteri cubitali faceva da sfondo all’ultima sua sfilata collezione donna.
    “Je ne sarais personne, mais personne ne sera jamais comme moi”
    “Io non sarò nessuno, ma nessuno sarà mai come me”

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    • Lamberto Cantoni   12 Aprile 2014 at 08:38

      Si Sara, ma dobbiamo dirla tutta la verità.
      E’ vero che il territorio del distretto ind. di Prato e’ impegnato nel tessile da 800 anni; ma e’ anche vero che oggi e’ stato disintegrato dalla globalizzazione. Le 7000 aziende che citi, per la stragrande maggioranza credo sia un affronto all’intelligenza l’uso di questa parola ( non perdo tempo a parlare del distretto “cinese”), se esistono ancora non rappresentano (per ora) un modello vincente per il futuro.
      Preferisco non esprimermi sulla sede espositiva: i recuperi non mi hanno mai commosso se fatti in stile burocratico-museale.
      Quindi, sostanzialmente, dal mio punto di vista, abbiamo portato Ferre’, grandissimo creativo e brand bollito, ad esibirsi in un museo organizzato come una scuola professionale anni 80 in un territorio che nel “simbolico” rappresenta ciò che le aziende della moda non devono più essere per avere un futuro.
      Non mi sembra una genialata.
      Termino con dirti che tutto quello che hai scritto mi e’ piaciuto; sul Ferre’ creativo siamo d’accordo. Sulla sematica che una mostra, aldilà delle buone intenzioni degli organizzatori, meta-comunica, evidentemente, no, non sono d’accordo con la tua strenua difesa di un passato nostalgico e morto.
      Io preferisco guardare al passato alla luce dei problemi di oggi; al di fuori cioè da auto celebrazioni, museificazioni che suonano come un tentativo di autoassoluzione.

      Rispondi
  10. Federica Crosato   21 Aprile 2014 at 12:27

    Come Mina riporta nel titolo del proprio articolo, si parla di “ventisette sculture bianche”. La prima parte della mostra raccontava il processo e tutto quello che sta dietro alla realizzazione di un capo d’ abbigliamento; la seconda parte che si trovava al piano superiore era dedicata a Ferrè. E’ questa infatti che animava la mia curiosità nel vedere come fosse stata gestita la sua concezione circa la camicia bianca. Il risultato è un’ immensa stanza dall’alto soffitto, colorata di nero e illuminata solo dai ventisette capolavori di una vita. Il percorso anno per anno delle sculture di Ferrè, riuscivano a trasmettere una sensazione di grandezza e inspiegabile bellezza. La maniacale attenzione nella realizzazione di ogni camicia ha portato alla luce la perfezione fatta concreta.
    Dovrebbero essere molto più numerosi tributi come questi a grandi personalità alle quali non basterebbe un solo grado di attenzione!

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  11. Luisa Covini   27 Aprile 2014 at 22:30

    Prima di tutto ci tengo a sottolineare quanto già detto dal professor Cantoni: concordo con lui nel far notare che non è piacevole dover passare dal bar e dal bookshop per arrivare all’effettiva mostra. “Non è piacevole” non è neanche la definizione più appropriata. È di cattivo gusto. Una disposizione mal pensata degli spazi. Il museo in sè per sè è bello, ma un’entrata e un percorso iniziale del genere sono un errore. Sminuiscono quanto sta dentro al museo, il lavoro che vi sta dietro, la ricerca, le mostre… E poi è un luogo dove si parla di tessuto, di stilisti, di moda, di arte e di attenzione ai dettagli. Si potrebbe dire che così si interrompe, o quantomeno, disturba la magia, la meraviglia. Arrivati alla mostra, ecco però l’effetto “uao”. E ci scordiamo facilmente per un po’ da dove siamo entrati. Per fortuna. La mostra di Ferrè al Museo del Tessuto di Prato è breve, essenziale. Ma less is more. E in questo caso per davvero. È la prima retrospettiva sul grande stilista italiano, è a Prato!, ed è di effetto. “La camicia bianca secondo me” è un vero e proprio omaggio al lavoro di Gianfranco Ferrè, che fin dagli esordi si è fatto portavoce di un dialogo continuo tra architettura e moda. Non a caso i ventisette capi esposti sono presentati come delle sculture. La focalizzazione su questo singolo capo icona come mezzo per raccontare la storia e l’importanza dello stilista è stata una scelta molto intelligente. La camicia bianca rappresenta perfettamente la sintesi tra i contenuti di struttura architettonica, la parte di ragionamento e di razionalità, assieme a quella di fuga sfrenata nell’immaginazione e nella fantasia: i due elementi di contrapposizione che caratterizzano lo stile di Ferrè. Stile che, in sintesi, viene raccontato tutto attraverso “un singolo capo”, ottenendo come risultato che la mostra non sia noiosa, lunga, “pedagogica” o ridontante. Inoltre si può apprezzare l’iter della camicia bianca, in quanto sono esposti anche i bozzetti, oltre ai magazine con shooting fotografici, redazionali, immagini pubbliciatarie… Le vetrine che contengono il materiale “aggiuntivo” non vanno però a disturbare l’occhio che ammira la mostra nella sua interezza: le camicie all’interno dello spazio espositivo appaiono quasi come un piccolo esercito di capolavori sartoriali. E pure una celebrazione del Made in Italy, se si vuole. Si dovrebbe parlare di più di questo Made in Italy. Si dovrebbe parlare di più di Gianfranco Ferrè.

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    • Lamberto Cantoni   15 Maggio 2014 at 07:48

      Sono d’accordo con la tua lucida analisi. Mi e’ piaciuto molto ciò che definisci “effetto uao”: non ha la seriosita’ da dottrina, ma esprime benissimo le intenzioni degli allestitori e dei curatori della mostra.
      Le tua parole finali sono coinvolgenti. Purtroppo il mio spirito scettico e critico mi rende immune a questi appelli.
      Io penso invece che nel nostro Paese si parli troppo di Made in Italy…. Per non fare nulla.
      Ovviamente nel caso di Ferre’ hai completamente ragione: intanto cominciamo a parlarne.

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  12. Martina Brocchi   18 Maggio 2014 at 16:17

    La camicia bianca, un capo basico ed elegante; in nessun guardaroba manca tale semplicità, perfetta per ogni occasione, mai fuori moda e sempre elegante. Ferrè ci mostra come un capo così semplice possa essere rimodellato e un po’ sconvolto, come possa diventare elaborato e un po’ curioso. La camicia acquista personalità, sembra prender vita, lo stilista si diverte a dare buffe e insolite interpretazioni a ad un capo così basico; ne possiamo ammirare la trasformazione che parte dall’iniziale bozzetto alla creazione finita. In tal modo non ci perdiamo un solo passaggio di quella che è stata la realizzazione di 27 camicie “secondo Ferrè”. Possiamo ammirare il made in Italy e notare come le forme geometriche vengano studiate e modificate per dar vita a forme insolite e affascinanti. La genialità dello stilista è messa a nudo, senza tralasciare un solo dettaglio della progettazione volendo evidenziare un ibrido perfetto fra architettura e moda.

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