Il mio Vermeer
Parecchi anni or sono vidi per la prima volta la Ragazza con l’orecchino di Vermeer al Mauritsihuis. Il quadro si trovava in una sala con il pavimento e le parti basse delle murature laterali in legno. Il resto delle pareti della grande stanza era ricoperto in un tessuto verde olivastro, sul quale le cornici dorate dei dipinti emergevano dolcemente, senza alcun strillo. Trovai l’ambientazione molto il sintonia con la morbida bellezza del famoso quadro di Vermeer, già in quei giorni considerato una delle opere pittoriche più amate dal pubblico. Devo aggiungere pero’ che le mie preferenze erano catalizzate da un’altra opera del misterioso pittore fiammingo. In realtà fremevo dal desiderio di studiarmi La veduta di Delft.

Nella mia immaginazione l’avevo eletta a capolavoro assoluto. Avendola vista solo in fotografia, temevo che non reggesse la prova di realtà.
Probabilmente la mia ossessione aveva a che fare in parte con l’impronta sensibile lasciatami dalla lettura della Recherche di Proust. Nel volume La Prigioniera l’autore narra della morte dello scrittore Babette, avvenuta in circostanze dovrei dire struggenti anche se attraversate dal senso del ridicolo. La storia è questa. Allo scrittore, in precarie condizioni fisiche, arriva la notizia che una mostra esibisce la famosa Veduta. Aveva già visto più volte in passato il quadro del quale pensava di conoscere tutto, ma dopo la lettura di un articolo scritto da un critico d’arte, gli era venuto il dubbio che gli fosse sfuggito un particolare decisivo. Leggermente a destra rispetto il centro del quadro non ricordava la presenza una piccola ala di muro gialla; apparentemente una inezia, senza la quale l’effetto estetico della Veduta, secondo il giornalista, sarebbe stato diverso. Decide quindi di sbarazzarsi di ogni prudenza raccomanda dai medici e dopo aver mangiato patate bollite si reca a vedere con i suoi occhi l’effetto pittorico scotomizzato dai suoi ripetuti amorosi sguardi del passato, alla ricerca dell’effetto pittorico forse decisivo per la piena comprensione del capolavoro. La rilettura dell’opera conferma le sue intuizioni ma, dopo aver registrato l’ennesima conferma della prodigiosa maestria del pittore preferito, colto da un malore, crolla al suolo e muore.

Qual’e’ il significato di questa narrazione nella narrazione? Lo scrive benissimo Proust/Babette: “E’ così che avrei dovuto scrivere… i miei ultimi libri sono troppo secchi, ci voleva più colore, bisognava rendere più preziosa la frase, come questa piccola ala di muro giallo”. Insomma, Proust con la storia di Babette ci fa capire qualcosa del suo stile letterario. Come Vermeer impreziosisce la pittura, orchestrandone in modo mirabile i dettagli, così dovrebbe fare lo scrittore con le parole e le frasi.
Ma il mio desiderio di ammirare la Veduta, non dipendeva solo dal ricordo proustiano. Probabilmente ero molto più influenzato dalle bellissime pagine scritte da Sir.Gombrich sulla pittura olandese del seicento, contenute nella sua “Storia dell’arte” (Einaudi) e in altre raccolte di saggi, fondamentali per insegnarmi a riconoscere i particolari effetti attraversi i quali una banale veduta poteva trasformarsi in un innovativo modello di bellezza. Inoltre, in quei giorni pensavo che la mirabile precisione con cui Vermeer e altri pittori olandesi restituivano ai propri committenti, minuziose descrizioni di ogni aspetto della natura e della vita quotidiana, fossero una sorta di trasduzione (nel linguaggio pittorico) del celebre detto di Spinosa, Deus sive Natura.
Anche se sapevo, avendo letto il libro di Svetlana Alpers, “Arte del descrivere. Scienza e Pittura nel seicento olandese” (Boringhieri, 1984), che la propensione a dipingere la realtà così come ci appare ai nostri occhi poteva essere spiegata con la centralità della vista come strumento di conoscenza nella cultura olandese del seicento, contro le pretese filosofiche di ricondurre tutto al pensiero, alla scrittura (atteggiamento che caratterizzava, secondo l’autrice, la pittura italiana), la contrapposizione tra arte descrittiva e arte narrativa non mi convinceva fino in fondo. Consideravo le ipotesi interpretative della Alpers intelligenti e di grande interesse; ma al tempo stesso trovavo, per esempio, nella Veduta ben altro di una dominante volontà di descrivere, immaginata come un potere sul mondo.
La veduta di Delft, incredibilmente precisa e al tempo stesso carica di emozioni, rappresentava ai miei occhi, il modo in cui i pittori come Vermeer contribuirono a diffondere una nuova sensibilità verso la bellezza del mondo, non distante dalle parole con cui Spinoza cercava di unificare il concetto di divinità con tutto ciò che ci circonda.
La ragazza con il tortellino
Oggi, la Veduta di Delft non è più il quadro icona di Vermeer. Presso il largo pubblico il suo posto è stato preso dalla Ragazza con l’orecchino.
La mostra di Bologna, rappresenta una conferma del trend del gusto che da almeno vent’anni ha trasformato il magistrale ritratto (o tronia) di un’avvenente ragazza, in una specie di Gioconda del nostro tempo. Un mese prima dell’apertura dell’esposizione già 130.000 persone avevano prenotato la visita (mai successo in una città come Bologna). L’attenzione dei media locali è stata a dir poco, avvolgente. Per mesi il quadro di Vermeer è stato raccontato ed è divenuto ricettacolo di narrazioni spesso lontane dalla teoria di interventi critici di solito programmati per informare lo sguardo di chi poi diverrà il pubblico dell’evento.

L’Assessore alla Cultura della città, sentendosi frustrato da una mostra che, organizzata da “privati”, da sola, stava attirando più gente e consensi di tutta la sua programmazione annuale, qualche mese fa tentò di delegittimarla con argomenti risibili. Anche la burocrazia museale più conservatrice ovviamente partecipò al tiro a bersaglio contro la mostra, con il risultato prevedibilissimo di accrescere la curiosità e le adesioni al progetto. Al punto che, se vi fate un giro per la città, potrete trovare facilmente l’effigie della Ragazza di Vermeer nei luoghi più insospettati. Per esempio, qualche settima fa, mentre sorseggiavo un bicchiere di vino in un noto locale bolognese mi sono accorto di essere guardato dal basso: al posto della tradizionale tovaglietta, stampata su cartaccia di quart’ordine, la Ragazza mi stava osservando un po’ intristita. Forse perché al posto dell’orecchino di perla l’avevano costretta a indossare un tortellino. Nello stesso giorno, poco distante dal locale della Ragazza con il tortellino, mi sono imbattuto in un altro segno della tradizionale ospitalità bolognese: appiccicata alla vetrina di un boutique gastronomica, la stessa Ragazza mi stava osservando con un fetta di mortadella al posto del tortellino, pardon, dell’orecchino. Anche in questo caso, il creativo non voleva lasciarci dubbi di sorta, giustapponendo alla surreale decorazione un esilarante La ragazza con l’orecchino di mortadella.
Siamo tutti d’accordo nel classificare come deplorevolmente kitsch queste espressioni della notorietà di un’immagine. Ma al tempo stesso ci raccontano benissimo cosa significa essere un’icona nella nostra società liquida.
Perché La ragazza con l’orecchino di perla è divenuta una icona? Per la sua fotogenia, o per meglio dire, per la sua modagenia, credo. Si tratta di un’immagine di donna adattabile al gusto contemporaneo: lo sfondo del quadro completamente nero, enfatizza la bellezza giovanile del volto leggermente girato come se qualcuno o qualcosa avesse attirato la sua attenzione; l’espressione di dolce sorpresa, con una punta di sensualità, rivolta a chi la sta guardando è emotivamente coinvolgente.
Un indizio di quanto la Ragazza evocasse una bellezza moderna, l’ho trovato dopo pochi giorni in un’altra mostra, a Milano, dedicata a un grandissimo fotografo della moda, attivo soprattutto dal secondo dopoguerra all’inizio dei sessanta. Erwin Blumenfeld, ispirandosi al quadro di Vermeer compose una sorprendente copertina di Vogue (in quei giorni, per il fotografo citare l’arte era un modo per strappare la foto di moda alle banalizzazioni degli art director stupidi).
Insomma, si diventa delle icone soprattutto grazie all’uso della fotografia dell’industria editoriale, particolarmente sensibile a ciò che il pubblico non si stanca di rivedere. Non è un caso se, credo, la popolarità della Ragazza abbia avuto un’enfasi mondiale dopo l’uscita del film di Peter Webber interpretato da Scarlett Johansson, tratto dal romanzo best seller di Tracy Chevalier. Quante volte è stato replicato il quadro di Vermeer? Quante volte è stato citato? Più di qualsiasi altra opera d’arte, probabilmente. Non mi sorprende affatto dunque, che la gente abbia desiderio di vederlo e, soprattutto, sia convita di amarlo prima di averlo visto nelle sue dimensioni reali.
La mostra di Bologna
Se penso alle svariate decine di pagine dedicate a Vermeer, apparse su tutti i periodici che ho avuto negli ultimi mesi davanti agli occhi, mi pare di poter dire che il quadro icona ha vampirizzato quasi per intero il potenziale di comunicazione dell’evento.

D’altra parte, gli organizzatori hanno dato alla mostra un titolo che ha ricalcato quello dell’opera oggi più famosa del pittore di Delft, scegliendo di narrare la storia della pittura olandese a rovescio: da Vermeer a Rembrandt, quando in realtà dovrebbe essere l’inverso.
Gli organizzatori giustamente, per spostare alcune centinaia di migliaia di persone, hanno scelto di raccontare l’evento attraverso valori mitici e come abbiamo visto sopra, sono le icone che smuovono i desideri, i quali a loro volta vanno a caccia di miti. Ma, aldilà della bellezza del quadro di Vermeer, il valore materiale della mostra risiede soprattutto nella prestigiosa intertestualita’, presentata con altri grandi capolavori che coprono tutti i generi mirabilmente interpretati dai pittori del secolo d’oro della pittura olandese. Nature morte, ritratti, scene di vita quotidiana, paesaggi ci presentano esempi di magistrale esecuzione pittorica firmate da Jacob van Ruistal, Franz Hals, Rembrandt, Peter de Hooch, Emanuel de Witte, Jan Steen, Carel Fabritius.
Si può discutere sulle scelte del marketing evenemenziale degli organizzatori, ma non c’è dubbio che raramente ho visto a Bologna una mostra di questa levatura.
Non ho dubbi sulla bellezza della Ragazza con l’orecchino di perla. Come tutti sono rimasto incantato dalla maestria di Vermeer e dalla forte emozione trasmessa dal ritratto. Posso aggiungere, che forse, non sono rimasto insensibile all’effetto fashion della ragazza. Tuttavia, il sentimento di una grazia un po’ beauty, non mi ha impedito di ammirare altri quadri, che dal punto di vista pittorico presentavano contenuti espressivi molto più difficili da rappresentare.
Per esempio, a distanza di qualche settimana, il quadro che mi è rimasto impresso non è quello di Vermeer bensì un’opera di Rembrandt dipinta nel 1667. Raffigura un vecchio che con faticosa naturalezza si sta sedendo e guarda il pittore con lo sguardo un po’ perso che hanno i bambini esausti, non ancora irrigiditi dalle buone maniere. L’espressività del volto, la sprezzatura della barba di qualche giorno, la trascuratezza degli abiti, impressi sulla tela grazie a tecniche pittoriche eterogenee, ne fanno un capolavoro degno di rivaleggiare con la morbida bellezza della Ragazza.

Ma, il nostro tempo ha insinuato nel sentimento del bello una tensione passionale che reagisce negativamente su tutto ciò che odora di vecchio. La bellezza dominante, la bellezza che sopra ho definito beauty, la bellezza che eccita il desiderio, ha bisogno di giovinezza. Mezzo secolo di moda, di industria dello spettacolo e di comunicazione passionale ha irrobustito le attese di un bello contiguo allo scatenamento di una emozione immediata che premia la giovinezza.
Certo, possiamo dire che i quadri di Rembrandt, di Peter de Hooch e degli altri artisti in mostra sono belli. Tuttavia sentiamo che questa parola per essi suona diversa dall’uso che ne facciamo per la Ragazza.
Nel vecchio ritratto da Rembrandt, non può esserci grazia e tantomeno sex appeal. Probabilmente dal punto di vista pittorico esprime una qualità assoluta, vicina alla perfezione. Ma non potrà mai essere un’icona del nostro tempo.
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