Il rivoluzionario esordio di Marco Bellocchio, “l’anti-borghese coi pugni in tasca”.
Dal 19 ottobre è disponibile il dvd delle edizioni Cineteca di Bologna completo di book con storyboard originali creati da Bellocchio per illustrare scena dopo scena il film e lunga chiacchierata tra il regista e il critico cinematografico Michel Ciment.
Sono passati cinquant’anni dall’esordio sovversivo e crudele del più anticonformista dei registi italiani. I pugni in tasca, già presentato in anteprima a Locarno, è stato proiettato nelle sale italiane nella versione restaurata dalla Cineteca di Bologna in collaborazione con Kavac Film. In concomitanza con l’uscita in sala, dal 19 ottobre è inoltre disponibile il dvd edito dalla Cineteca. Nel 1965 veniva proiettato per la prima volta il film, rigoroso dramma da camera intriso di cinismo e imbevuto del sadico impeto di ribellione nei confronti del comfort borghese del secondo Dopoguerra. Che Bellocchio fosse un geniale destabilizzatore dell’ordine costituito lo si era compreso già con la sua opera prima, e la conferma è arrivata due anni più tardi con La Cina è vicina, feroce atto d’accusa al socialismo quadripartito moderato. L’elemento cardine attraverso cui il cineasta assurge a giudice e censore dei malsani costumi è la famiglia, luogo primordiale di affermazione e negazione di sé, cellula fondante di ogni rispettabile società. Nel “carnage” domestico in cui affoga i suoi personaggi ne I pugni in tasca, così come sprofonda l’apparente tranquillità di una famiglia benestante ne La Cina è vicina, Bellocchio opera come l’entomologo che studia empiricamente le sue cavie sotto vetro. La macchina da presa stringe nelle inquadrature anguste una famiglia della Val Trebbia e la pedina, memore dei fasti neorealisti, in stretta continuità con le nouvelles vagues fiorite in Europa. La violenza che sarà presto padrona della scena è nel fuori campo, mentre in primo piano si agita l’analisi lucida, intimamente discreta e fortemente grottesca delle relazioni umane all’interno della famiglia. Il “pater familias”, in mancanza di una vera figura paterna, è Augusto, il maggiore dei figli e quello che aspira ad una vita di soddisfazioni economiche nella più borghese delle accezioni; Sandro è il figlio più piccolo, affetto da improvvisi attacchi epilettici e osservatore privilegiato del malumore serpeggiante; poi c’è Giulia, l’unica figlia; la madre, anestetizzata dalla cecità e dalla carenza di affetto e il figlio ritardato Leone, rappresentano la zavorra che si tirano dietro gli squallidi parenti. Tutti i personaggi che calcano la scena spoglia e disadorna della villa, che sa di legno e ceneri di camino, sono spigolosi, schizofrenici e iperattivi, contraltare della normalità domestica in cui, alla benevolenza del rito cristiano, corrisponde l’equilibrio e la rettitudine morale di madri e figli. Ma la pace non è qui contemplata perché sotto il vetrino del regista, a partire dal Dies Irae composto da Ennio Morricone, vi sono solo crudeltà bonarie che si trasformano lentamente in ferocia reale ed esibita con pathos. La casa diventa così l’inferno privato in cui deflagra una tragedia annunciata, luogo in cui si consumano incesti ideali e in cui si creano attrazioni macabre nei confronti di tutto ciò che è segnato da un tetro alone di morte. Basti pensare a Sandro che, poco dopo aver letto i necrologi alla madre, le agita i pugni davanti senza che lei possa vederlo, al pasto che si muta in guerra aperta tra bisticci leggeri che poi si trasformano in risse plateali o ancora alle manie suicide di Sandro che vorrebbe portare a morire con sé anche tutti gli altri. L’abitazione diventa quel luogo, di “sartriana” memoria, in cui non possono chiudersi gli affetti, a patto di non voler creare un terribile limbo purgatoriale. Marco Bellocchio racconta, ne I pugni in tasca, un mondo alla deriva attraverso le disavventure di una famiglia disfunzionale immersa nel caliginoso “borgo selvaggio” da cui non si può uscire moralmente indenni. Sandro e Augusto rappresentano dunque due estremi, l’uno è l’anti-eroe che elegge il tumulto a legge di vita, l’altro vorrebbe solo integrarsi nel mondo dei normali e avere una famiglia. Giulia, figura in cui si annida ancora un “fanciullino” a tratti morboso, sceglie la sua personale “rivoluzione” intrattenendo con Sandro un rapporto di odio amore che sfocia nell’incesto. Tutte le norme sono violate. Seguendo la lezione di Godard, secondo cui “è ora di smetterla di fare film che parlano di politica, è ora di fare film in modo politico”, Marco Bellocchio, ribelle “coi pugni in tasca”, scruta nel patologico quotidiano e fa scoprire agli Italiani “normali” che la malattia è anarchica, prolifera ovunque e senza una logica precisa.
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