Edward Hopper e la genialità della solitudine

Edward Hopper e la genialità della solitudine

ROMA – Non sono un seguace dell’artista Edward Hopper, né un esperto di arte. Eppure i suoi quadri esposti al Vittoriano (lo saranno fino a Febbraio) mi hanno spinto a parlarne. Le pagine di MyWhere hanno lo scopo di raccontare emozioni e posso assicurarvi che Hopper, assieme ai temi che la sua arte e la sua personalità sollevano, sono in grado di emozionare profondamente.

Bene o male tutti sanno che Hopper è stato influenzato in una prima fase dalla Francia e da Parigi (visitate due volte) e dal loro dinamismo in campo culturale rappresentato da pittori impressionisti del calibro di Degas. Ma Hopper non frequenta i salotti o gli atelier e preferisce lasciarsi trasportare dal flusso di persone comuni, irrequiete e amanti del piacere che animano le strade della capitale francese. Tornato a New York Hopper proverà la strada del successo esponendo in piccole gallerie quadri spiccatamente impressionisti e ancora legati ai viaggi nel vecchio Continente. I quadri di questo periodo, che sono anche i primi esposti al Vittoriano, presentano tutte le caratteristiche di quella corrente artistica: contorni sfumati, colori freddi e pennellate cariche. A mio avviso, le migliori creazioni di quel periodo sono Le Bistro or the Wine Shop (1909) e Soir Bleu (1914), entrambi ricchi di quel senso di solitudine e attesa che costituiranno il tratto distintivo del pittore.

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Eppure ricordano già il passato, qualcun altro ha affrontato quei temi, qualcun altro ha già utilizzato quella tecnica. E in patria, dove il gusto artistico degli americani è ben diverso dai gusti europei, le esposizioni non ottengono il successo sperato.

Intorno agli anni ’20 Hopper capisce che solo liberandosi dalle nostalgie impressioniste sarebbe riuscito far breccia nel cuore degli statunitensi. Decide quindi di evolvere la tecnica e di prendere spunto dalla società e dai paesaggi del suo paese. Ancora non sa che nel giro di pochi anni sarebbe diventato un pittore di fama mondiale. Questo cambio di passo si percepisce con forza quando i quadri del periodo francese lasciano il passo a quelli del nuovo Hopper. Un trionfo di colori pastello sgargianti, vivi, e questa luce bianca e splendente che illumina ogni scena. Il cambiamento è stato così evidente che sono tornato indietro solo per godere ancora di un’altra investitura di luce.

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Fari solitari sulla scogliera che accecano anche in pieno giorno, scorci della costa americana o skyline dai colori così vivi da sembrare tridimensionali. Ed ecco che la tecnica affinata, finalmente personale, riesce a dar vita a paesaggi e personaggi tipici dell’America con una nitidezza impressionante.

Edward Hopper e la solitudine

Luce e nitidezza non mancano mai, neppure quando la tela cattura scene ambientate di notte come in The Girlie Show o in Office at Night.

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Ma nel cuore dell’osservatore non tarda a farsi largo un’altra sensazione preponderante: la solitudine. Nonostante il calore della luce, tutti i protagonisti messi in scena, siano essi in compagnia o in solitaria, sembrano terribilmente soli e assorti, con lo sguardo rivolto all’esterno della scena e rigorosamente in silenzio. E’ impossibile non notare l’inquietudine di uomini e donne spesso alle prese con azioni comuni e quotidiane, immersi nelle attività della metropoli o sospesi in ambienti di confine dove finisce la città e inizia una natura che Hopper dipinge più volte come un muro verde oscuro e impenetrabile.

L’ultimo quadro esposto è il magnifico Second Story Sunlight (tra l’altro uno degli ultimi che Hopper ha realizzato) e dove ancora una volta le due protagoniste, immerse in una luce abbagliante, guardano lontano come in attesa di una risposta o dell’arrivo di qualcosa o qualcuno.

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L’audioguida riportava la testimonianza di un amico di Hopper che chiedeva al pittore cosa avesse voluto rappresentare in Second Story Sunlight. Dopo alcune reticenze Hopper rispose: “Forse ho voluto rappresentare me stesso…”. Anche la corporatura palesemente maschile della ragazza bionda (giusta osservazione di un’amica) solleverebbe alcuni dubbi sul significato intrinseco dell’opera: la ragazza bionda potrebbe essere in realtà Hopper ormai anziano (il quadro è uno degli ultimi realizzati) che guarda fuori dalla vetrata del suo grande studio di New York nell’attesa inquieta e solitaria, nella risposta ad un gravoso interrogativo.

È solo alla fine della mostra che ci si rende conto di quanto la carriera artistica di Hopper e la sua personalità coincidano con la solitudine, l’introversione, l’attesa. Proprio quei sentimenti che tanto ci spaventano e che tentiamo in tutti modi di sotterrare. Ma a chi non è mai capitato di guardare fuori dalla finestra, oltre i tetti delle case di fronte, sperando in una svolta, in un cambiamento. A chi non è mai successo di ammirare il mare al tramonto pensando a come è facile avvertire la solitudine e, soprattutto, a quanto potrebbe essere facile ritrovarsi da soli un giorno. A chi non è capitato di guardare in alto verso il cielo stellato e domandarsi quale sia lo scopo della vita e quale quello del genere umano. E a chi non è mai capitato di essere circondato da persone e sentirsi soli e distanti al tempo stesso.

Mentre si torna a casa dal Vittoriano, e non senza una punta di inquietudine per essere stati investiti da protagonisti e sentimenti che tanto ci assomigliano e spaventano, comincia a prendere piede una verità. Durante la mostra è come se Edward Hopper abbia camminato con noi tenendoci una mano sulla spalla, sussurrandoci di osservare con attenzione perché non siamo gli unici a guardare fuori dalla finestra in attesa di una svolta. Lui per primo si è posto i nostri stessi dubbi per tutta la vita e così hanno fatto i protagonisti delle sue tele, riflesso dei personaggi che ha incontrato nella società americana e che si possono ritrovare nelle società di tutto il mondo. Liberi professionisti o operai, insegnanti o studenti, medici o artigiani, minatori o astronauti condividiamo tutti lo stesso peso nei momenti concessi alle riflessioni più profonde. Edward Hopper ci insegna proprio questo: anche la persona che ci sta accanto si è posta gli stessi interrogativi che a volte ci attanagliano. Forse non siamo così soli alla fine.

 

Testo di Valerio Pelliccia

Autore MyWhere

8 Responses to "Edward Hopper e la genialità della solitudine"

  1. Silvia   6 Dicembre 2016 at 09:57

    Valerio mi hai fatto venire voglia di andare a vedere la mostra e di scoprire questo artista così particolare e misterioso.
    Complimenti, articolo molto coinvolgente.

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    • Fabiola Cinque
      Fabiola Cinque   6 Dicembre 2016 at 10:46

      È vero, anche io ho letto l’articolo tutto d’un fiato e, nonostante amassi e seguissi Hopper da tempo, ho “rivisto” la mostra sotto un’altra angolazione attraverso le parole di Valerio.

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    • Valerio Pelliccia
      Valerio Pelliccia   6 Dicembre 2016 at 14:48

      E faresti bene ad andare te lo assicuro. Non ero sicuro che la mostra valesse il prezzo del biglietto (ben 14 euro!) ma sbagliavo, le emozioni non hanno prezzo.

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  2. Occhiverdi   6 Dicembre 2016 at 12:21

    Non conoscendo affatto Hopper, leggere l’articolo mi ha commossa e ho deciso che andrò a vederlo con mio marito

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  3. Veronique   6 Dicembre 2016 at 13:43

    Ho visitato la mostra di Hopper e leggere l’articolo è stato come rivivere attraverso le parole, le tante emozioni e i quesiti suscitati dai dipinti dell’artista, che tanto mi hanno affascinato.
    Lo consiglio vivamente.

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    • Valerio Pelliccia
      Valerio Pelliccia   6 Dicembre 2016 at 14:53

      Un personaggio, il buon vecchio Hopper, veramente affascinante hai detto bene. E forse c’è ancora molto da scoprire… Chissà gli altri quadri non esposti al vittoriano quali segreti possono nascondere

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  4. Lamberto Cantoni
    Lamberto   9 Dicembre 2016 at 13:44

    Una mostra da vedere introdotta da un bel articolo di Valerio.
    Amo Hopper soprattutto per il silenzio che circola tra i personaggi e gli gli spazi che configura.

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    • Valerio Pelliccia
      Valerio Pelliccia   9 Dicembre 2016 at 14:18

      Grazie Lamberto. Forse Hopper era “troppo” introverso e taciturno ma rappresenta alla perfezione lo stesso silenzio a cui l’uomo contemporaneo si sta disabituando. Putroppo si cerca ormai in tutti i modi di scongiurare il silenzio, anche a costo di parlare a vanvera

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