Senza: storia di un rifiuto, di Massimo Cracco

Senza: storia di un rifiuto, di Massimo Cracco

ITALIA- Senza è l’ultimo romanzo di Massimo Cracco, in concorso al premio letterario Comisso 2020.  Una storia particolare quella narrata, che inizia nel 1982 e termina ai giorni nostri. Il protagonista è un ragazzino di 13 anni di nome Paolo, il quale viene a conoscenza del caso di una donna dello Utah, Chloe Jennings, che si è sottoposta ad un intervento per farsi recidere il midollo spinale.

Paolo inizia a cercare una spiegazione per motivare la scelta di Chloe, ma finirà per intraprendere la sua stessa strada: liberarsi di quella parte del corpo che, secondo lui, lo tiene connesso al mondo.

Copertina del libro Senza

 

Io non voglio entrare in nessun gioco regolato da sconfitte e da vittorie, non sono adatto, la mia ripugnanza per le forme di agonismo mi esclude.

In Senza (Autori Riuniti), Paolo incarna quella parte dell’uomo che cerca di sottrarsi alle imposizioni, alle regole e al conformismo. Estraniarsi completamente dalla società è impossibile. E allora che fare? Per lui la soluzione migliore è stare seduto su una sedia a rotelle a guardare la vita, ridurre al minimo i contatti con gli altri. Paolo però vuole anche capire la Storia, i motivi alla base del nazismo, dei lager e delle atrocità commesse da Hitler, così inizia ad accumulare libri sull’argomento, a documentarsi, ignaro del fatto che sarà proprio questo suo interesse, negli anni avvenire, a renderlo il colpevole perfetto di una strage commessa da neonazisti.

L’OSSESSIONE

Palo cresce, e con lui l’ossessione per le gambe: gli arti lo collegano al mondo. Le gambe ti permettono di camminare, correre, di entrare in contatto con gli altri, ti espongono alla derisione e Paolo questo non lo vuole.

Studiare non fa per lui, e nemmeno lavorare:

Fantastico sulla pensione di mio padre e sulla sua longevità, spero di farmi mantenere almeno per i prossimi vent’anni, indisturbato e libero di inesistere.

Il paradosso raccontato in Senza è che questo ragazzo, ormai trentenne, fisicamente sano, ha tutte le carte in regola per condurre un’esistenza normale ma la rifiuta. Sa bene che la sua scelta, quella di perdere le gambe, sarà condannata dalla maggioranza e da chi non può usarle a causa di una malattia o di un incidente, eppure scende a compromessi pur di ottenere il tanto desiderato intervento.

Alla fine però Paolo si scontrerà con la realtà: nemmeno il fatto di vivere su una sedia a rotelle può esimerlo dai coinvolgimenti nelle vicende altrui. Al contrario, proprio questa sua ossessione per le carrozzine e per l’amputazione lo porterà ad essere indagato in ben due processi, e ad essere dapprima adulato e poi osteggiato.

LA TRASFORMAZIONE

La risolutezza a non voler vivere come tutti gli altri e la tendenza a starsene in disparte, la sua vocazione, subiranno un cambiamento estremo. Paolo desidera vendetta per i soprusi subìti, e passerà dall’essere vittima innocente a spacciatore cinico e calcolatore, rendendosi complice di rapimento e persino colpevole di tortura.

 

Insomma, il senso del libro è chiaro, come si legge anche nella sinossi:

Senza è la storia di un rifiuto, Senza è il Rifiuto della Storia rivendicato da un corpo, tuttavia l’uso frequente di parole ed espressioni volgari rendono la lettura faticosa, quasi oppressiva.  Credo che uno stile meno “carico” dal punto di vista lessicale sarebbe stato preferibile: in Senza infatti, ricorrono spesso termini ricercati che dimostrano notevole proprietà di linguaggio da parte dell’autore.

Massimo Cracco ha accettato di rispondere ad alcune domande per MyWhere.

Il protagonista di Senza compie il gesto estremo facendosi amputare le gambe. Chloe Jennings è affetta da B.I.I.D. , Paolo invece arriva alla sua decisione in maniera graduale, vuole rimanere a  “guardare la vita” da fermo e ridurre al minimo i contatti col mondo esterno. Quindi non si tratta di un disagio con il proprio corpo ma di un disagio nei rapporti con gli altri. E’ corretto?

E’ quasi corretto, ma con una importante sfumatura aggiuntiva. E’ vero, la fascinazione di Paolo per Chloe Jennings è primariamente giustificata da un motivo esistenziale però via via che lo interiorizza il corpo si fa carico del disagio e alla fine sono le gambe a offrire una risposta, e la risposta è la loro resa avvertita da Paolo; il raziocinio non arriva alla comprensione della Storia, delle sue illogicità, dunque, se è il corpo a offrire una risposta, il disagio di Paolo diventa anche fisico: a partire dal rifiuto del mondo si innesta quello delle gambe, il tema inizialmente è esistenziale poi si sposta sul corpo.

 Paolo parla in modo negativo del lavoro, di un sistema produttivo, soprattutto quello in cui è impiegato il padre, che sfrutta gli uomini, ma lui non prova vergogna nel farsi mantenere dal genitore. E’ una contraddizione. Perché non gli fa effetto?

Farsi mantenere dal padre significa non lavorare, non prestarsi a una forma di mercificazione. Qui il tema è quello della libertà personale, le ore occupate nel lavoro sono sottrattive rispetto alla realizzazione della propria individualità e, nell’aspirare alla pensione del padre, Paolo si svincola da questa logica aspirando al ruolo di inerte parassita: ogni aspirazione personale, purché non lesiva della vita altrui, non può passare da un giudizio di liceità (di fatto il padre non accetta di mantenere il figlio, di essere sfruttato, dunque è libero di scegliere e dunque l’idea di Paolo non è impositiva). Così anche Paolo non giudica sé stesso, la sua decisione è a-morale non immorale, quando una scelta privata non lede vite altrui è sempre lecita; in termini più generici auspico che si arrivi a una etica secolarizzata e laica che ci liberi dal ‘dogma valido per tutti’ al precetto ‘universale e immutabile’, l’etica deve cambiare con la cultura e con noi e l’etica del singolo deve primeggiare, pur nel rispetto degli altri; anche il lavoro è un dogma, il suo preteso ‘decoro’ una forzatura che serve a giustificarne la necessità, è a questa necessità che Paolo si vuole sottrarre.

Alla fine il protagonista scende a compromessi con un uomo che rappresenta un’istituzione con cui non vuole avere niente a che fare, pur di subire l’intervento tanto desiderato. Possiamo dire che si sia adeguato al celebre detto “Il fine giustifica i mezzi”?

 Sì, è così, sceglie il compromesso per raggiungere il sogno di tutta una vita. Dobbiamo metterci in questa prospettiva: ciascuno di noi accetta compromessi per ottenere qualcosa che sente imprescindibile dalla propria felicità e qui entriamo nel campo dell’evoluzionismo: la ricerca della ‘felicità’ (che è una parola suggestiva per dire ‘adattamento’) è una spinta potente sentita da tutti gli esseri viventi, un’urgenza primaria, e per ottenere qualcosa di imprescindibile si ripuò rinunciare a qualcosa, il fine giustifica i mezzi, giustifica il ‘come’; si può fare un paragone attingendo alle scienze naturali, il compromesso di Paolo somiglia a quello della specie acquatiche che, per sopravvivere in terra ferma, hanno trovato un adattamento rinunciando alle branchie (è un semplificazione ovviamente, qui non c’è una scelta ma un meccanismo indipendente): la perdita della gambe, per Paolo, è una risposta adattativa che, proprio poiché di primaria importanza, può ammettere la rinuncia a qualcos’altro.

 Sorge una domanda, un dubbio che ad un certo punto del romanzo s’insinua nello stesso protagonista: se non avesse letto l’articolo riguardante la Jennings, avrebbe concepito l’idea dell’amputazione? Dopo aver letto la storia risponderemmo che probabilmente avrebbe cercato un’altra via d’evasione, di scollegamento dal contatto con la società. E’ d’accordo?

Sì, sono s’accordo e contento che la sfumatura sia stata colta, se Paolo non avesse conosciuto la storia di Chloe Jennings forse avrebbe scelto altre strade per trovare il suo posto al mondo. Decidiamo ‘per’ qualcosa anche perché abbiamo esempi da seguire, le nostre scelte sono in gran parte ispirate e qui il tema diventa importante, è il tema della nostra presunta ‘autenticità’: scegliamo di studiare Filosofia perché crediamo che la vita di Sartre sia quella che vogliamo, studiamo Fisica perché affascinati dal pensiero di Newton o di Galileo, conosciamo la vita di altri uomini e ne siamo conquistati, oppure siamo attratti da nostro padre o da nostro nonno e ne scegliamo il mestiere per un processo di identificazione. Le nostre scelte difficilmente sono autentiche, sono sempre in qualche misura ispirate da riferimenti, anche impersonali, che troviamo venendo al mondo.

 Paolo si sente sconfitto, gli costa sforzo studiare e andare al lavoro, eppure ci riesce, si diploma e porta a casa uno stipendio. Ciò che lo domina è più una questione di mancanza di volontà o di paura di non riuscire a raggiungere gli obiettivi?

 La mancanza di volontà di Paolo non è scindibile dalla paura di non essere all’altezza, non vuole ‘fare’ per paura della competizione. E’ quel che succede oggi tra i giovani: nell’insegnamento della matematica ho conosciuto ragazzi brillanti che però rifiutavano la competizione per timore del fallimento, non studiavano alcuna materia per evitare di mettersi in gioco e dunque per sfuggire al giudizio, non era mancanza di volontà ma mancanza di coraggio e Paolo non vuole ‘fare’ anche perché ha paura. Oggi viviamo in una società altamente competitiva, il problema è diventato pressante, non è un caso che un numero sempre crescente di giovani si rivolgano allo psicoterapeuta.

 La scrittura è una forma di comunicazione. Cos’ha voluto comunicare e su cosa vorrebbe che il pubblico riflettesse dopo aver letto il suo libro?

Tra i temi che più mi sta a cuore c’è proprio quello dell’adattamento, quello di Paolo è un tentativo sproporzionato ma riconduce a quello meno evidente di ogni essere umano, gli uomini sono disadattati semplicemente perché ‘sono’; l’aspirazione alla mutilazione è il peculiare modo di adattarsi di Paolo, è macroscopico e mostruoso ma, pur invisibili, sono allo stesso modo sanguinose le nostre amputazioni finalizzate al quotidiano adattamento. Ci amputiamo nelle relazioni rinunciando a parti del nostro carattere per farle sopravvivere, e amputiamo possibilità in genere perché scegliere e scartare è sempre nel segno di un’esclusione. Il mondo rifiuta la risposta adattativa di Paolo perché censura la verità scomoda della quotidiana e sanguinosa battaglia della sopravvivenza, il disprezzo della società per l’aspirazione di Paolo è la prova che essa stessa è fatta di amputati e disadattati, in quel disprezzo c’è una rimozione.

 Quali ricerche ha dovuto compiere mentre si dedicava alla stesura del romanzo?

Molte e di svariata natura, prima di tutto ho cercato di approfondire la patologia di Chloe Jennings, mi sono documentato sulla B.I.I.D., mi interessava capire le risposte offerte dalla medicina per scoprire che, di fatto, risposte non ce ne sono; poi ho approfondito temi riguardanti le pratiche di anestesia, sui farmaci somministrati nella sedazione, il loro peculiare utilizzo; poi temi di natura legale e qui, oltre alle ricerche in rete, ho interpellato amici avvocati, le vicende giudiziarie di Paolo sono costellate di tecnicismi e passaggi che volevo esatti e coerenti; infine ho letto un paio di libri riguardanti le vicende di Ludwig (Gott mit Uns nel romanzo) che tra gli anni settanta e ottanta a Verona fecero parecchi morti. Ci sono altre piccole curiosità che saltano fuori dalle ricerche, per esempio il dott. Galli che pratica la chirurgia estetica pur essendo agente immobiliare è uscito da una notizia vera trovata in rete.

 Lei è anche un ghost writer. Cosa le piace di questo lavoro?

 Sviluppare temi o idee altrui è interessante, interessante il confronto con il committente e il lavoro di convergenza, proporre soluzioni. “Restare senza un lavoro non è per sempre” è nato come lavoro di ghost, mi venne commissionata la storia di un’agenzia per il lavoro, inizialmente mi chiesero una semplice cronaca basata sul loro archivio, proposi di scriverlo in forma di romanzo, con personaggi reali e personaggi di fantasia ma sempre inerenti il tema.

Mentre leggevo il suo romanzo mi sono chiesta come mai abbia usato frequentemente molti termini ed espressioni “coloriti” nei dialoghi e nella narrazione. Sarebbe stato possibile trasmettere quegli stessi pensieri e sentimenti in un altro modo?

Nei dialoghi cerco la lingua del quotidiano, quella più probabile, volevo personaggi autentici capaci di esprimere quello che pensano, dal mio punto di vista i personaggi di un romanzo esistono davvero, sono finzione letteraria ma esistono e il loro dialogare dev’essere in linea con il carattere, difficile immaginare Alberto che in un momento di collera se ne esca con un ‘accidenti!’. E poi Senza è scritto in prima persona e dunque non potevo raccontarlo diversamente dalla psicologia di Paolo, un disadattato border line non proprio sereno, la lingua non poteva che essere la sua lingua.

 

 

Rossella Belardi

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