ITALIA – Pubblichiamo una breve intervista a Carla Fracci apparsa sul volume L’opera in Italia, Cappelli Editore, 1991. Incontrammo la Fracci in casa sua a Milano. Il tema verteva sulle danze nelle opere liriche. Fu gentilissima e disponibile, dimostrandoci che non si balla solo con i piedi, ma soprattutto con la testa.
Con Mirella Freni, Carla Fracci divide il segreto della ricetta della primadonna. Almeno di quegli ingredienti acquisibili, non innati, il principale dei quali sembra essere la coerenza nella linea artistica, scelte sempre operate nell’ordine del buono e dell’adatto: fa solo ciò che può fare bene fino in fondo, senza avventure, in una parola con grande professionismo.
Probabilmente l’onorificenza più lusinghiera gliela hanno conferita i loggionisti della Scala chiamandola “la Callas delle punte”. Clives Barnes famoso critico americano di balletto l’ha definita “la Duse della danza” e la reincarnazione di Maria Taglioni, la superba danzatrice dell’ottocento.
Carla Fracci (che qui ricordiamo in occasione della cittadinanza onoraria conferitagli a Nepi) è senz’altro è stata la primadonna assoluta della danza italiana degli ultimi cinquant’anni.
Tutta nervi e ossa, deve moltissimo al suo senso del dramma e dell’elegia. Padrona di una gestualità finissima, curata al microscopio, con la quale è riuscita a creare un codice di comunicazione artistica ai massimi livelli del valore evocativo e della perfezione estetica: il suo gesto ha una tale incisività da far rimanere folgorati. Basta aver visto la Fracci una volta per rimanere soggiogati per sempre. Il miracolo poi sta nella naturalezza seducente frutto di un lungo studio, di faticoso impegno per trovare il gesto giusto che risponda all’impressione che fa la musica e che trova riposta dentro l’anima.
Solo da poco si è reinserito il balletto nelle opere liriche che lo prevedevano e così finalmente cominciamo a capire che non erano un di più appiccicato, ma avevano una portata drammaturgica nel contesto dell’opera stessa.
“Fu l’orecchio di un certo novecento ispirato ad una falsa idea di purezza a trovarsi in disaccordo con lo spettacolo coreografico inserito nel melodramma, per cui per anni si sono tagliati brani di musica (e di danza) bellissimi. Rossini, Donizetti, Verdi hanno scritto musiche per danza da eseguirsi all’interno nelle loro opere non solo per puro divertissement ma anche per un preciso discorso drammaturgico. Per il Guglielmo Tell esistono addirittura le annotazioni registiche e coreografiche fatte da Filippo Taglioni per la celeberrima Maria Taglioni alla prima rappresentazione. Verdi arriva ad incorporare strettamente la danza nello sviluppo dell’opera stessa: ben lo capì Visconti che nella sua Traviata fa sorgere spontanea la danza dagli ospiti della festa, senza intromissione esterna del corpo di ballo. Ecco, in quel momento non c’era distinzione tra il dramma e il momento danzante, lo svolgimento dell’azione fondeva insieme con naturalezza i due aspetti.
Pensate al Trovatore: in questo capolavoro l’unica cosa che è acefala, negli allestimenti moderni, è il ruolo degli zingari, ridotti solo ad un coro quasi folclorico. Manca totalmente la solarità, il fuoco fondamentale del mondo dei girovaghi che si esprime attraverso le travolgenti danze scritte da Verdi. Bisogna capire che le danze in un’opera sono state dall’autore stesso collocate in un preciso discorso, nascono come elemento incatenato alla storia per avere uno spazio di esibizione e tornare poi a ricollocarsi con naturalezza nell’azione drammatica, proprio come si comprende dalla scrittura musicale.
Penso che oggi non si possa più proporre un’opera che è nata con i balletti, e sono tante, anche per l’opera italiana, pensiamo ad Aida, Don Carlos, Macbeth, Otello, Vespri siciliani per fare un breve esempio, senza le danze previste, perché sono fondamentali per la resa musicale e spettacolare”. Carla Fracci.
Testo di Silvia Camerini Maj e Martino Ragusa
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