Cruise Collection e la Moving Communication

Cruise Collection e la Moving Communication

ROMA – Gucci e Giorgio Armani hanno recentemente presentato le collezioni Cruise a Roma e a Tokyo secondo un registro di conduzione degli eventi molto diverso uno dall’altro, ma entrambi di grande successo.

Vorrei proporvi alcune riflessioni a margine delle recenti sfilate di Gucci e Giorgio Armani inerenti le collezioni definite Cruise/Resort 2020, dal momento che, a partire dall’analisi del come sono state configurate, è possibile farsi un’idea di come grandi marchi stanno co-evolvendo nell’era del mercato globale e dell’impetuosa crescita di Internet come media dominante.

Cosa sono le Cruise/Resort Collections?

Si può dire che questo modo di dare un nome all’abbigluamento da vacanza, si diffuse in Francia tra gli anni venti e trenta del novecento quando esplose la moda del sole, dell’abbronzatura, delle località marine che promettevano mondanità e presenza del bel mondo.

Fino a non troppo tempo fa, erano collezioni di ampiezza variabile, presentate qualche mese prima delle sfilate canoniche del famoso Grand tour della moda (New York, Londra, Milano, Parigi), create per soddisfare la domanda di novità di chi andava in villeggiatura estiva o poteva prendersi una vacanza in luoghi esotici nei mesi invernali e desiderava mettere in valigia abiti rivesti dall’aura della novità tipica della moda. La tattica Marketing mobilitata era dunque motivata da una opportunità commerciale che stilisti e manager ritenevano giustamente di aver individuato come risposta a ben delineati comportamenti e desideri di una clientela elitaria, le cui effervescenze non potevano più essere confinate nel timing tradizionale della moda impostosi a partire dalla svolta che diede Christian Dior all’epoca del New Look (due grandi sfilate per anno, Spring/Summer e Fall/Winter). Se siete a digiuno dei fondamentali della Storia della moda, vi ricordo che lo strabiliante successo del grande couturier, convinse/costrinse i colleghi a imitarne le procedure di razionalizzazione, in seguito codificate dal pret à porter.

Permettetemi una digressione. In realtà, anche ai tempi di C.Dior le presentazioni delle collezioni erano molto più moving rispetto al timing e ai luoghi che pensiamo fossero codificati. Per esempio, C.Dior presentava certamente il concept della sua collezione più importante in date prestabilite presso la propria Maison. Ma nel corso della sua carriera sfilò a New York, a Londra e chissà in quali altri posti. Cosa voglio dire? Le maison de couture prima, gli stilisti e i manager poi, hanno sempre presentato i propri abiti secondo un registro di opportunità strettamente legato alle caratteristiche specifiche di ciascun brand. Questo significa che a livello commerciale la modazione è molto più disordinata di quanto lasci intuire l’uso di concetti come codice o codifica. Tuttavia, da questo caos, nel tempo emergono messe in ordine o regolazioni fluttuanti, chiamatele pure come vi pare, che interpretate con l’insopprimibile nominalismo dal quale ci smarchiamo a fatica, etichettiamo e approcciamo come fosse realmente una codifica. Se è vero che prima c’è il disordine e poi una sorta di regolazione che ci fa pensare ad un fragile ordine emergente, allora come minimo dovremmo pensare e agire coscienti che i codici della moda sono deboli. Non si dovrebbero mai confondere i processi che la modazione non cessa di sviluppare con le etichette che utilizziamo con la speranza di renderli razionali.

Ritorniamo al nostro tema. Abbiamo parlato brevemente del perché sono nate le collezioni Cruise/Resort. Sottolineiamo ancora che all’inizio, il movente dei brand era essenzialmente commerciale e i luoghi più ambiti non potevano che essere le località esotiche prese d’assalto da vip, arricchiti, rentiers. Tra l’altro l’etichetta “Cruise” allude ai viaggi in crociera, e venne utilizzata perché questo modo di spendere il tempo libero, allora, era un privilegio riservato a pochi e non come oggi, grazie a navi da 3/4000 passeggeri, una esperienza turistica sempre più di massa.

Ora le domande sono: come mai la tarda post-modernità sembra aver rilanciato le collezioni Cruise/Resort? Il loro posizionamento strategico è rimasto quello del passato? Vale a dire: possiamo considerarle mere sfilate commerciali?

Le domande sono motivate dalla percezione diffusa, che mi parso utile trasformare in argomento d’indagine, di un maggiore impegno a tutti i livelli da parte dei brand in ciò che un tempo si definiva “la de-stagionalizzazione delle collezioni”: sia per le risorse investite in “capsule” non più tanto piccole e sia per l’enfasi e la determinazione con le quali vengono presentate anche ad un pubblico allargato (voglio dire che, in origine, la natura commerciale delle collezioni Cruise/Resort aveva come referenti i clienti privilegiati del brand, qualche vip, pochi giornalisti; oggi è cambiato tutto: molta stampa, tanti vip e influencers si aggiungono a cluster di clienti appartenenti ai luoghi caldi del business: più che in località esotiche le location per le sfilate sono scelte tra le città-mondo ovvero nei punti nodali del business. Non è certo per caso se si è diffusa in modo virale tra gli addetti ai lavori, una locuzione del giornalista Alexander Fury che suona più o meno così: le sfilate Cruise vanno dove ci sono i soldi).

Perché dunque questo genere di eventi sembrano diventati fondamentali quanto le famose sfilate del Gran tour della moda (New York, Londra, Milano, Parigi) o di quelle allestite nelle altre più importanti fiere del settore?

Bisogna tenere presente che la mappa della nuova geografia imposta dalla globalizzazione dei mercati non si presenta come una somma di territori omogenei. Non è uno spazio liscio che possiamo percorrere, considerando ogni orientamento e direzione, possibile o plausibile per i nostri obiettivi. Al netto delle diversità culturali e dell’alternarsi asimmetrico delle stagionalità, della meteorologia impazzita, elementi che evidentemente già in sé rappresentano un campo di problemi ricchi di insidie, l’immagine della mappa che ho utilizzato come metafora spaziale del mercato globale, è fatta di pezzi tenuti insieme da annodamenti sui quali si esercita la massima pressione dei brand. Possiamo considerare questi nodi con un’espressione cara agli specialisti del marketing strategico ovvero nei termini di mercati più promettenti, ricchi di possibili clienti. È in questi punti caldi del mercato che i brand investono risorse per presentarsi nel migliore dei modi, al di fuori della logica competitiva delle fashion week (sempre troppo affollate). Evidentemente, come è logico attendersi, in questi annodamenti che configureranno la mappatura della operatività concreta di ogni specifico brand, manager e stilisti attualmente agiscono mettendo in gioco i determinanti del paralinguaggio della moda cercando il massimo effetto: nuove collezioni (serie di abiti-look associati a  concetti e/o narrazioni), sfilate (trasfigurazione dell’abito concetto in pattern emozionale) e quote crescenti di doping comunicazionale.

Il programmato grande clamore mediatico che accompagna le presentazioni Cruise dei grandi brand, grazie a internet sempre più eventi globali, ci fa capire anche quanto, l’attuale disegno strategico sottostante al senso generale delle collezioni de-stagionalizzate, sia una reazione nei confronti del destabilizzante attacco al timing della moda dei quartieri alti, portato dai primi anni del nuovo millennio da due ingombranti protagonisti: a) il fastfashion (Zara, H & M, Mango…). L’arrivo nei negozi di “novità” praticamente ogni mese, ha intercettato la disposizione del cliente ingenuo ad accentuare l’infedeltà di marca e ha rinvigorito il sentimento di libertà espressiva del cliente evoluto. Su scala diversa il fast fashion ha prodotto una rottura nell’ordine programmato da decenni dai brand della moda, costringendoli a distribuire le novità secondo scansioni più articolate; b) i nuovi protagonisti della moda on line ovvero il pubblico dei social, i millennials e grazie ad essi l’aspettativa di un crescente aumento degli acquisti via internet, ovunque e non solo nelle aree investite dall’effetto sfilata. È chiaro che da a) e  b) discende la possibilità/necessità di utilizzare un numero di colpi creativi (o percepiti come tali) molto più numerosi rispetto il passato.

Le etichette verbali che conosciamo come Cruise/Resort collections (programmate di solito tra maggio-giugno) e le Pre-Fall collections (novembre-dicembre), possiamo considerarle come il tentativo di far emergere un “nuovo ordine” per stabilizzare i processi creativi e produttivi secondo ritmi utili per ripristinare la regolazione più efficiente per il business della moda-mondo che viaggia in parallelo con la crescita del business nel web.

Vorrei fosse chiaro che le ultime mie parole hanno una valenza olistica. Di fatto, se seguiamo le tracce individuali di ciascun brand, si può osservare che essi perseguano da decenni pratiche di auto legittimazione che disegnano traiettorie molto diversificate. Per esempio c’è molta differenza tra Marche come Vetement che disdegna ogni timing sottoposto a regolazione programmata e Chanel (nell’era di Lagerfeld) che presidia da protagonista assoluto sia le location improbabili e sia i timing con più tradizione. Tuttavia le convergenze più o meno consapevoli tra i brand più importanti, a livello di sistema, ovvero se osserviamo i risultati dell’insieme delle loro autonome scelte strategiche e tentiamo di classificarne gli effetti, le convergenze dicevo, portano a pensare che le Cruise/Resort collection e e Pre-Fall collection, attualmente funzionino come il supplemento di creatività e comunicazione in grado di completare il discorso dell’idea concettuale che sorregge la collezione presentato nelle fashion week canoniche (che per i grandi brand sono, lo ricordiamo, New York, Londra, Milano, Parigi), evidentemente divenuta troppo fragile.

Si delinea quindi un possibile nuovo modello standard di presentazioni strategiche a 4 tempi (invece dei tradizionali 2 tempi), con 4 culmini evenemenziali, nei quali le marche concentrano il loro potenziale economico e semantico orientando la significazione verso la dimensione pratica (abiti per vendere ) o concettuale ( abiti per primeggiare nel gioco delle tendenze), a seconda delle necessità del momento.

Due precisazioni: quando parlo di “modello” intendo riferirmi a una utile approssimazione alla realtà: lo ripeto, oggi, ogni brand grande e potente quanto lo richiede la guerra della moda su scala mondo, interpreta il proprio ruolo seguendo percorsi autonomi. Se volete, a livello di ciò che chiamiamo realtà, ogni brand decide di sfilare dove e quando ai manager e stilisti pare più opportuno. Da questo punto di vista a volte ci sembra che le deviazioni (da un modello standard, qualsiasi forma o definizione diate di esso) siano diventate la norma. Tuttavia se possiamo parlare di deviazioni da qualche parte un modello deve pur esserci.

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Gucci Cruise 2020
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Giorgio Armani Cruise 2020

Le Cruise/Resort Collections di Gucci e Giorgio Armani 2020

Come complemento della breve disamina sulle collezioni fuori stagione, vorrei proporvi l’interpretazione che di esse hanno recentemente presentato Gucci guidato dalla coppia Bizzarri/Alessandro Michele, il brand più di successo dell’ultimo quinquennio, e Giorgio Armani uno degli ultimi monumenti della moda novecentesca, capace nell’arco di quasi mezzo secolo di rinnovarsi senza darlo troppo a vedere, quindi vissuto da molti come un brand caratterizzato da un illuminato conservatorismo estetico, ma che in realtà ad uno sguardo attento ai fatti sostanziali appare come un brand che, a suo modo, non ha mai mancato l’appuntamento con i cambiamenti decisivi. Se Gucci sta imponendo un nuovo paradigma di stile che enfatizza la prevalenza del disordine (percepito) fornendone simulacri-moda di prodigioso impatto tra i millennials, Giorgio Armani per contro, è l’agguerrito tribuno di una eleganza che agisce e parla a difesa dell’ordine sostanziale e armonioso degli eventi, delle forme e dei valori con i quali la moda stabilizza il ritmo dei cambiamenti del gusto.

La sfilata della collezione Cruise 2020 di Giorgio Armani, la prima del suo brand, è stata progettata secondo un registro operativo bimodale: 1) per enfatizzare la riapertura dopo una significativa ristrutturazione, della famosa Armani/Ginza Tower, una stupenda creatura architettonica concepita da Massimiliano e Doriana Fuksas tra il 2005-2007 per celebrare il ventennale della presenza del brand in Giappone; 2) allineare le “nuove” collezioni della marca alle pratiche degli altri brand, nel preciso momento in cui le Cruise/Report stanno diventando un naturale prolungamento del timing standard della moda: Giorgio Armani è, tra le altre cose, un imprenditore prudente; difficilmente rischia, preferisce agire solo quando percepisce che i costi dell’inazione supererebbero quelli di un adeguamento a scelte oramai evidenti nei loro effetti, anche se queste all’inizio non lo convincevano. Ecco un abbozzo di spiegazione del perché la sua prima Cruise arriva una decina di anni in ritardo rispetto a concorrenti più intraprendenti. C’è però da aggiungere che la sua interpretazione del salto innovativo, al netto dei ritardi, quando arriva, di solito è esemplare cioè coerente con il suo grande Stile, pertinente e ben calibrata. Per quanto riguarda il primo punto, bisogna aggiungere che l’Armani Ginza Tower è una delle più efficaci interpretazioni dei famosi flagshipstore creati tra la fine degli anni novanta e la prima decade del terzo millennio grazie alla collaborazione tra stilisti e archistars. L’alleanza tra architettura e maestri dello stile di vita ha cambiato la percezione della valenza della moda che conta nelle città più importanti al mondo, anche se per molti “critici” rappresentava solo un ulteriore indizio della bulimia da “immagine” che aveva colpito la moda post-moderna. L’Armani/Ginza è un edificio di 12 piani, alto più di 50 metri, con oltre 7000 m2 di superficie destinata a commercio e servizi, diviso in ambienti arredati con un dominante bianco e color oro, sovrastati da soffitti neri, è divenuto presto un acclamato luogo di attrazione turistica. Quando arriva la sera e soprattutto di notte l’edificio si trasfigura in un’enorme pattern visivo di rara bellezza. Le pareti esterne severamente nere mettono in evidenza i lunghissimi steli metallici che seguono verso l’alto lo sviluppo delle linee irregolari tipiche delle forme naturali, i quali  opportunamente illuminati ci donano l’illusione di vedere gigantesche canne di bambù (le foglie sono una genialata che aggiunge spaziali note musicali alla struttura) . A mio avviso, a Tokyo, solo l’Epicentro di Prada, può reggere il confronto con l’Armani Ginza/Tower. Insomma, l’esclusiva tribù del lusso della capitale e i turisti evoluti lo avevano subito eletto come uno dei totem urbanistici di riferimento per dare un in-più-di-senso ai rituali di consumo. Queste notazioni sull’importanza simbolica della struttura, mi inducono a pensare che la presentazione della Cruise collection 2020 a Tokyo sia stata motivata soprattutto per focalizzare la riapertura della Armani Ginza Tower dopo una ristrutturazione. Quanto sia oggi cambiata, rispetto la breve descrizione proposta sopra, mi è impossibile saperlo dal momento che non ho trovato immagini plausibili da nessuna parte ( dopo ulteriori controlli protratti nell’arco di due settimane, ho potuto appurare che nel sito www.Armani,con, dopo una decina di giorni dall’inaugurazione erano state inserite alcune immagini). Sembra che sia stata ampliata la Hall d’ingresso per rendere l’ambiente più frequentabile da turisti o da persone attratte dal mondo Armani ma ancora indecise se trasformarsi in consumatori oppure godersi l’appagante armonia che contraddistingue da sempre i luoghi del mondo Armani. Naturalmente una grande Hall lascia intuire spazi multifunzione utili per futuri eventi e sfilate.

Per quanto riguarda la specifica sfilata Cruise in oggetto, ampiamente comunicata tramite la stampa anche in Italia, Giorgio Armani ha scelto però una location estremamente più evocativa. Tokyo è una metropoli ricca di musei di ogni tipo, tra i quali spicca per autorevolezza il National Museum (Tokyo Kokuristsu Hakubutsukan), fondato nel 1872, ricchissimo di collezioni di oggetti d’arte giapponesi e orientali. Indubbiamente una delle location più prestigiose e improbabili per una sfilata di moda. Dalle informazioni diffuse dalla stampa, sappiamo che si è trattato di un evento per circa 700 ospiti; oltre 100 i look esibiti lungo le pedane che attraversavano le sale dedicate. Dagli scarni video postati in internet si può immaginare che i dispositivi utilizzati per la spettacolarizzazione della promenade di modelli e modelle, sia stata ridotta ai minimi termini se non addirittura assente (come succedeva alle presentazioni couture nelle vecchie maison de mode ai tempi di Chanel, Balenciaga, Dior).

Stranamente, benché Giorgio Armani sia stato uno tra i primi a diffondere le proprie sfilate attraverso cassette VHS prima, CD poi, via internet oggi (potete trovarne tantissime su YouTube), la sfilata integrale al Tokyo National Museum non è stata trasmessa in streaming e non è stata reperibile come sintesi per parecchi giorni. Nemmeno sul sito ufficiale del brand. Dopo circa una settimana sono apparse delle brevi sequenze video. Bisogna aggiungere che www.Armani.com sembra costruito essenzialmente per stimolare l’e-commerce (a tal riguardo, per quel che posso capire, uno dei più efficaci, tra l’altro). A parte ovviamente lo spazio virtuale dedicato alla presentazione dell’Armani Silos, ovvero la struttura museale che esibisce le creazioni dello stilista dagli anni ottanta a oggi, oltre alle programmate mostre temporanee. A mio avviso, trovo che Il mondo simbolico Armani così museificato sia certo in sintonia con la febbre da severo rigore e purezza d’immagine cara allo stilista, ma al tempo stesso non serva praticamente a nulla per comunicare qualcosa di pregnante al pubblico tipico del web che non vive internet solo per fare acquisti o annullarsi in una sorta di vetrinizzazione del brand, ma cerca stimolazioni più intriganti. Comunque, per tornare alla valorizzazione della sfilata Cruise post evento, ho trovato solo sintesi di circa un minuto su You Tube e normali/banali fotografie di look. Da un lato quindi si può dire che la sfilata Cruise 2020 è stata un evento nel senso dell’accadimento dedicato solo a un pubblico privilegiato, cioè qualcosa di esclusivo, effervescente quanto basta per garantirne la notiziabilità, subito riassorbito dalla vischiosità della modazione quotidiana. La sua forma/funzione mi fa pensare a un bilanciamento tra notiziabilità, relazioni pubbliche, da un lato; e dall’altro lato la necessità di focalizzare l’attenzione sulla ristrutturazione Ginza e sui look con i quali fare mercato. Si può dire che Giorgio Armani non abbia voluto seguire le tracce di molti brand famosi che da una decina di anni a questa parte hanno trasformato le sfilate Cruise in eventi spettacolari il cui clamore, agli occhi di un pubblico allargato, trascende la collezione in sé, generando, grazie a internet, un Fall out di radiazioni semantiche di interesse diffuso a lungo raggio.

Perché la sfilata Cruise in oggetto è apparsa in tono minore nella circolazione post-evento, malgrado le possibilità offerte da media come il web? Di solito l’esclusività del rituale non esclude la sua messa in onda ( come succede tra l’altro per le sfilate standard, regolarmente trasmesse o riportate integralmente in internet). A tal riguardo posso solo avanzare ipotesi dal momento che comunicare con l’ufficio stampa di Giorgio Armani, se non si appartiene a colossi dell’informazione tipo Condè Nast è tempo sprecato. Infatti, la mia percezione è che il brand Giorgio Armani interagisca con l’Internauta curioso, grosso modo come succede nel mondo off line ovvero rende difficile il lavoro di chi non appartiene al cluster di giornalisti già accreditati (quelli che non danno problemi dal momento che funzionano come un amplificatore del proprio vangelo estetico e aziendale che lo stilista con coerenza, nel tempo, ha frapposto tra sé e il resto del mondo). Quindi se non siete dei consumatori e quindi non cercate oggetti-per-il-corpo da acquistare, la metacomunicazione che vi arriva dal mondo on line Giorgio Armani preposto all’interazione con pubblici che non siano clienti è desolante: fatevi i fatti vostri, non siamo interessati a scambiare chiacchiere con nessuno. Ovviamente nessuno vi esprimerà mai direttamente questi contenuti, ma l’impossibilità di ricevere risposte adeguate a richieste non conformi al business, unitamente alla segregazione di tutto ciò che il brand ritiene di celare alla pubblica visione e/o analisi, è costruita benissimo.

D’altronde tutti sanno che se c’è una cosa che Giorgio Armani detesta di più della sfilata evento intrisa di provocazioni e, per dirla con il vecchio Michail Michajlovic Bacthin, bizzardamente carnevalesca fino alla trasgressione, è ciò che chiama la “moda parlata” ovvero chi cerca con un linguaggio e conoscenze spesso approssimative, di fare critica e quindi fatalmente formulare dei giudizi arbitrari. Tutte queste parole, per esprimervi un concetto in realtà molto semplice: Giorgio Armani privilegia l’asimmetria comunicativa corroborata da una tattica che potremmo definire l’indiscrezione ad opzioni: cioè poche interviste, rilasciate quando proprio non ne può più o semplicemente lo ritiene opportuno, solo a persone selezionate (preferibilmente compiacenti). Questo stile di comunicazione regale è stato costantemente alimentato da una pletora di giornaliste coccodè delle quali la bravissima Natalia Aspesi è stata la chioccia, generando nello stilista aspettative di totale sottomissione al suo vangelo. Non è certo per caso se con il giornalismo anglosassone  questo stile regale della comunicazione ha provocato qualche volta clamorosi fraintendimenti.

Quindi, per farla breve, non mi ha sorpreso tanto la difficoltà di raccogliere le informazioni diffuse sulla sfilata Armani/Cruise, bensì la significazione che discendeva proprio a partire dalla loro rarità  (se nei primi giorni dopo la sfilata è stato così difficile vedere immagini di come è stata ristrutturata la Torre Ginza, se non è stata prevista la visione integrale post evento della sfilata, una ragione deve pur esserci)

Avrete capito spero, basta che colleghiate quanto ho detto sull’origine delle sfilate Cruise con le tattiche comunicazionali attivate per la presentazione in oggetto, avrete capito spero che il mio punto di vista sulla sfilata Cruise/Resort di Giorgio Armani privilegia la possibilità di leggerla come il riconoscimento del nuovo paradigma moda che vede spalmata la creatività praticamente tutto l’anno, ma nello stesso tempo rifletta una sorta di monito del grande stilista che ci allerta sui rischi del disordine come conseguenza indiretta agli sforzi di adattamento alla globalizzazione e al web.

A me pare che con le sue scelte Giorgio Armani abbia voluto differenziare la collezione che regolarmente presenta a Milano durante la fashion week in quanto rappresentativa dei concetti estetici della stagione che animano il suo stile, rispetto ad altre presentazioni legate a logiche situazionali di natura diversa: celebrazioni, eventi, inaugurazioni… o semplicemente adeguamenti a logiche di mercato (vi ricordo ancora una volta che le Cruise nascono con questa ambizione).

Forse è per questo motivo che possiamo trovare praticamente e per intero tutte le sue sfilate milanesi su You tube, ma non la sfilata Cruise di Shangai (solo sintesi).

Tra l’altro vi ricordo ancora che gli streaming in diretta delle sfilate Emporio Armani e della prima linea del pret à porter dello stilista, sono regolarmente programmati durante la fashion week di Milano.

Comprenderete dunque il perché, ho ritenuto un indizio interessante la scelta di non far vedere integralmente la Cruise: il mio esercizio di creatività primario sfila a Milano; il resto sono declinazioni che seguono un percorso diverso e devono avere un impatto diverso – sembra suggerire Giorgio Armani – altrimenti facciamo confusione.

È solo una congettura evidentemente. Può darsi benissimo che dopo aver visto le immagini della sfilata al Museo Nazionale di Tokyo, Giorgio Armani non le abbia ritenute idonee al web per la povertà degli effetti visivi di un rituale che doveva essere, per rispettare il genius loci del luogo, particolarmente rigoroso cioè concentrato sui look. Può darsi che lo stilista abbia deliberatamente scelto una tattica di esclusiva dedizione al pubblico di privilegiati presenti alla sfilata (evitare che essa possa essere rivista da chiunque è ovviamente un rafforzamento del sentimento di esclusività). In definitiva, la lezione che Giorgio Armani potrebbe aver voluto metacomunicarci suonerebbe così: se si rispetta l’ordine delle cose, si può riempire di contenuti pregnanti qualsiasi evento senza intaccare l’ordine fondamentale della moda. Seguendo questa linea di pensiero, la Cruise in Tokyo è stata un occasione per ribadire via concetti (senza intaccare l’evento specifico) lo stretto legame che unisce l’estetica giapponese alla sensibilità di Giorgio Armani. Infatti, al posto della spettacolarizzazione in formato doping comunicazionale, lo stilista ha scelto di comunicarla al pubblico allargato essenzialmente lungo il sentiero stretto della narrazione autobiografica: con un articolo editato da la Repubblica il 17 maggio 2019, ha riconosciuto pubblicamente il suo amore per l’estetica classica giapponese. Cito testualmente:  “Nel corso degli anni sono arrivato alla conclusione che, se non fossi italiano, potrei essere giapponese. Per questa forte affinità che si basa sulla disciplina, sul rigore, sulla coerenza. Per questi valori che si avvicinano al mio pensiero, al mio modo di vivere e alla mia estetica, e che si traducono in richiami continui ed evidenti a questo Paese in tutto il mio lavoro, dalla moda al design”.

È lecito dunque attendersi che le idee regolative o se volete le assunzioni etiche, improntate a rigore e coerenza, enfatizzate nell’articolo, entrino in gioco anche a livello di strategie comunicazionali. Di conseguenza, la necessità di presentare abiti ad hoc e/o celebrare eventi commerciali, culturali in modo conforme alla situazione del momento, sembra suggerire Giorgio Armani, non significa automaticamente arrendersi alle pratiche che disordinano il sistema, così come corre il rischio di farlo chi usa, senza la necessaria calibratura, in ogni circostanza sempre e solo tecniche di estrema spettacolarizzazione multimediale che a lungo andare trasformano l’immagine olistica della moda in una permanente confusione di emozioni estreme che dissipano i valori centrali della moda cioè la tacita promessa che ogni stilista fa con il suo pubblico, relativa a una messa in ordine del gusto secondo scansioni (variazioni) che tutelino la bellezza armonica, razionale, coerente con le proporzioni del corpo e con la sua lunga storia.

La riflessione su come è stata presentata la Cruise, il suo senso emergente, a me pare confermi questa lettura: secondo Giorgio Armani si dovrebbe trovare il modo di rispettare un ordine nelle cose della moda scandito da due collezioni annuali che presentano le idee creative della stagione, seguite certo da altre presentazioni di novità che però non devono interferire con il primo livello logico del messaggio, altrimenti si rischia il caos creativo; e allora addio coerenza, storia, ordine…

Tuttavia, questa presa di posizione del più autorevole stilista e designer italiano, forse è una conferma dei numerosi indizi che ci fanno capire quanto il vecchio ordine della moda stia divenendo una finzione. Faccio un solo esempio: Prada negli i primi di maggio ha celebrato la propria Cruise a New York, mentre all’inizio di giugno ha presentato con grande sfilata a Shangai la collezione che per intenderci chiamerò “concettuale”. A Milano (tappa del tradizionale gran tour della Moda) verrà riservato un evento più limitato. Possiamo immaginare dunque un rovesciamento di valenza: quella che per decenni è stata la sfilata più importante dell’anno (Milano) si ridimensiona a favore delle presentazioni che seguono “la logica del momento”, organizzate nelle città-mondo o in località di prestigio, al di fuori di calendari condivisi.

Si tratta di tattiche situazionali oppure sono segnali di cambiamento di paradigma?

Prima di esporvi il mio punto di vista, devo presentarvi la sfilata Cruise di Gucci, realizzata a Roma presso i Musei Capitolini.

Da quando Alessandro Michele è divenuto il direttore artistico di Gucci le sfilate del brand così come i look delle collezioni, hanno perso il mood glamour sofisticato che ne dominava gli effetti fin dai tempi del quasi dimenticato Tom Ford.

Bisogna riconoscere però che i suoi eventi hanno molto guadagnato in audience e in valenza strategica. Indubbiamente Alessandro Michele ha conquistato un larghissimo seguito di fans, con i quali anche grazie alle sue sfilate mantiene un costante dialogo. Come ci riesce? In primo luogo dobbiamo ammettere che le sue strane contaminazioni di frammenti di stile, funzionano benissimo: le disordinate sintesi formali che dal 2014 propone, possono non piacere ai cultori della bellezza armoniosa, ma sono pertinenti ed efficaci per la quota crescente di modanti che antepone la percezione di contemporaneità al “bello” sottoposto a regole codificate (quindi, ai loro occhi, prevedibile e noioso). Lo stupefacente successo di Gucci è un fatto oramai certificato da bilanci in continua crescita. Quindi il disordine creativo di Alessandro Michele si è rivelato utile e profittevole. Ma il suo successo dipende solo dagli abiti che ha disegnato? Certamente no! Gli abiti da soli non vanno da nessuna parte. Ho dedicato tempo fa uno script dedicato allo strano modo di interpretare la bellezza dello stilista romano, al quale rinvio il lettore curioso di saperne di più (1). In quelle pagine sostenni che Alessandro Michele fosse lo stilista che meglio ha saputo interpretare e interagire con la specificità del web (e quindi con i fin troppo celebrati millennials). Molti suoi colleghi vivono internet essenzialmente come una opportunità di business (e-commerce), e configurano il proprio sito come se fosse una boutique virtuale, nella quale “internauta modello” (cioè quello che intuitivamente ci suggerisce il sito a partire da come è fatto e funziona) è chiaramente un cliente. È chiaro che nessun brand di livello spende risorse per fare inutili siti vetrina come in passato. Tutti ci infilano le proprie iniziative culturali, protocolli etici, promesse di sostenibilità, un mare di video e immagini.

Gucci però lo fa in modo molto diverso da tutti. Se andate sul sito ufficiale del brand e cercate Stories, potete capire benissimo a cosa alludo. Ogni atto evenemenziale e creativo di Alessandro Michele oltre a essere subito o quasi on line, si trova diluito in una sorta di intertesto che funziona come la messa a fuoco del laboratorio di stile e pensiero che fa da sfondo alle collezioni.

Il modello di riferimento sono i social: una serie infinita di post presentano i protagonisti del mondo creativo Gucci come gli utenti di Facebook documentano con immagini e brevi testi i momenti salienti della propria esistenza. Ovviamente i concept delle collezioni (vengono definiti “codici”) e i video delle sfilate integrali, hanno il compito di creare la rete che tiene insieme un notevole ed eterogeneo numero di suggestioni culturali nelle quali apparentemente non c’è differenza gerarchica: frattali di cultura alta dialogano benissimo con espressioni dell’estetica popolare; più il contrasto è straziante per il gusto codificato, meglio funziona l’effetto Camp del quale Alessandro Michele è un sublime profeta.

La sfilata Gucci Cruise 2020, è una conferma dello stile imposto dallo stilista e, diversamente dalle scelte di Giorgio Armani, la potete trovare facilmente nel sito aziendale, dall’inizio alla fine.

Quindi, aldilà delle ovvie contrastanti “visioni” tra i due grandi interpreti della moda a livello delle forme dell’abito, registriamo differenze sostanziali nel processo di trasduzione che trasforma la collezione in un fascio di significazioni che hanno come compito primario il sostentamento della fitness del brand. Mentre Giorgio Armani sembra fare il possibile per demarcare l’evento sfilata Cruise, da altre sfilate, probabilmente per dare ad essa il reverente decoro che a suo avviso è richiesto dall’importanza simbolica del Museo Nazionale di Tokyo, Alessandro Michele non ha alcuna remora nel compenetrare i determinanti del suo evento ( abiti indossati, apparato di luci, pubblico selezionato, che si confondono con le opere del Museo di Roma), con le vestigia del passato come in qualsiasi altra sfilata primaria.

In tal modo la sfilata Cruise di Armani è intenzionalmente un evento per pochi ( di conseguenza più facilmente notiziabile nel senso pre=web del concetto: per una ovvia legge della comunicazione più un evento è celato agli occhi del pubblico, più è notiziabile cioè maggiore risulta l’importanza dei media tradizionali che recitano il ruolo di testimoni oculari). Per contro la strategia di Gucci sembra privilegiare l’immediatezza degli effetti e il rapporto diretto con un fruitore considerato sia come ricevente che come possibile emittente (dunque, a mio avviso, Gucci ha più potenziale virale rispetto ad altri player). Attenzione, non sto dicendo che Gucci trascuri le pratiche tradizionali di interazione con il giornalista ordinario (e il suo ruolo di testimone oculare); voglio solo sottolineare che la protesi web che ha configurato non è solo una “sintesi aggiuntiva” bensì il cuneo attraverso il quale crea lo spazio per legittimare il suo “mondo possibile”. Per Gucci il web non è un mezzo o un media tra gli altri, bensì una estensione del reale.

Chiamiamola pure una finzione o un trucco. Ma ciò non toglie che a livello di costruzione di un immaginario brandizzato, la finzione funzioni con un’efficacia sorprendente.

Per contro, Giorgio Armani sembra privilegiare i confini tra gli stati e/o fasi della modazione che coinvolgono il suo brand.

La sua recente sfilata alla Fashion week di Milano (primavera-estate 2020) è stata diffusa in streaming in tempo reale; come abbiamo visto, quella a Shangai ha avuto una regolazione diversa. Mi sono chiesto: cosa potrebbe significare? Ho avanzato l’ipotesi che con la sua autorevolezza il grande stilista/designer voglia difendere l’idea di una moda che parta sempre dall’ordine razionale del (mutamento) del gusto per arrivare a un suo punto di equilibrio.

Per contro Gucci, sembra accettare il disordine del mondo nei confronti del quale si può agire con innesti di creatività estrema, come se, pur aumentandone la complessità o il caos, le sintesi emergenti proposte, alla fine, non potessero che ricreare un nuovo livello di ordine provvisorio, instabile, incoerente (la prossima collezione cambierà tutto), ammantato però di un forte sentimento di libertà.

Come rinforzo alla mia ipotesi, considerate ora la lettura che vi ho proposto relativa alla correlazione tra forme e oggetti della moda esibito nei rispettivi siti aziendali per l’e-commerce, e i supplementi cognitivi offerti al pubblico per dare ad essi una maggiore comprensione del senso di un determinato stile.

Per Giorgio Armani il supplemento è l’Armani Silos ovvero la museificazione delle forme. L’idea è che per capire i valori dello stile Armani il concetto di forma esemplare sia centrale: rigore, armonia, coerenza etc..

La metacomunicazione che ne traggo è quella di una moda basata soprattutto su forme (dell’abito) esemplari.

In Gucci,  per come ho letto tra le righe il materiale postato in Stories, il concetto di forma è secondario rispetto a ciò che potremmo chiamare l’immaginazione creatrice.

Sembra chiaro che Giorgio Armani privilegi una moda nella quale domina il concetto di forma, dal momento che ad essa si applicano più facilmente le regole razionali e funzionali che demarcano l’ordine dal disordine.

Alessandro Michele per contro sembra attratto dalla moda come dispositivo di induzione passionale, nel quale l’idea di una forma esemplare funziona in negativo o se volete perde la solidità dei suoi contorni per far emergere l’aspetto ornamentale, decorativo di un abito-superficie.

Se le mie congetture sulle due sfilate reggono, allora ci troviamo di fronte a due autorevoli modi di fare comunicazione olistica.

Quello di Giorgio Armani lo definirei “cognitivo” (cioè ci forza a riconoscere e a rispettare, regole dalle quali discende la percezione di ordine e un sentimento reverente e rispettoso dello stile estetico del brand).

A questo punto Gucci non può che essere definito “affettivo o passionale” nel senso che le sue trasformazioni dell’oggetto moda in cultura della moda non sembrano avere un fondamento razionale e cognitivo ma “immaginativo”: contaminazioni, anacronismi, rottura delle regole…

Gucci Cruise 2020
Gucci Cruise 2020

Cruise
Gucci Cruise 2020

L’ipotesi che mi è parso utile sottoporre alla vostra attenzione, mette in rilievo un nuovo campo comunicazionale, sul quale il confronto tra brand diverrà sempre più strenuo e rischioso.

Provvisoriamente vi propongo di definirlo il campo della Moving Communication.

Sia che partiamo dall’ordine (Armani) che dal disordine (Gucci), la nuova geografia del mercato e internet sta obbligando i brand della moda a destreggiarsi con tecniche di ingaggio dei propri pubblici provviste di una regolazione molto diversa rispetto il recente passato.

Abbiamo visto che le collezioni Cruise oltre ad alterare il timing novecentesco delle collezioni, da pseudoeventi acchiappa turista, si sono trasformate in spettacolari tattiche antifragilità utilizzate dai brand per adattare la propria fitness ai continui cambiamenti di scenario di una moda che si muove intorno al pianeta, molto più in fretta di quanto il normale consumatore possa averne piena coscienza.

I cambiamenti repentini di scenario significano per il brand dosi crescenti di rischio dovuti a interferenze culturali, ecologiche, geografiche che minano le certezze dei concept utilizzati per dare senso sia alle collezioni, sia alle narrazioni che ne estendono l’impatto.

Con internet ogni atto moda di un brand, in ogni parte del pianeta, può essere immediatamente un fatto (a rischio di negatività) che interferisce con l’immaginario di marca.

Se un tempo poteva aver senso parlare di un piano di comunicazione strategica, oggi ritengo più utile passare all’idea che in un mondo complesso risulti più efficace concepire la comunicazione come una serie continua di regolazioni.

Credere ed agire in funzione di un piano prestabilito ammanto di certezze, come se il mondo fosse fermo, è una totale idiozia purtroppo molto più diffusa di quanto si possa immaginare, soprattutto nelle aziende moda di taglio medio-piccolo, ovvero proprio quelle che non possono permettersi errori macroscopici, pena l’estinzione.

Come mai, visto che il mondo moda è quello che è, stentiamo ad allontanarci da questa idiozia legata a una visione Marketing obsoleta?

Io credo che entrino in gioco una sorta di estensione dei cosiddetti unconscious biases, che, nel nostro caso, funzionano così: troppe informazioni da gestire e su cui ragionare, provocano una sorta di fuga/rifugio in modelli che semplificano la realtà; credere che a questo punto il modello sia un analogon della realtà che ci interessa, ci dá fiducia e forza.

Il corollario di questa credenza è la cecità verso tutto ciò che lo contraddice.

Quindi l’unconscious bias, pensatelo alla stregua di un robusto pregiudizio, è un trucco del nostro cervello per resistere a situazioni di complessità crescente.

Intendiamoci, quando non sappiamo che pesci prendere per via della superfetazione di elementi che ci rendono praticamente impossibile ogni previsione, appellarsi a un bias, non è affatto scontato sia un errore, A patto però che riconosciamo il pregiudizio per quello che è ovvero un probabile errore o problema da tenere costantemente sotto controllo.

In altre parole dobbiamo distinguere tra seguire coscientemente qualcosa che riteniamo essere un probabile bias, da l’unconscious bias cioè una credenza che si impone dandoci l’illusione di una certezza, a questo punto, senza anticorpi.

La modazione (il processo della moda) nella sua attuale fase Estremistan non tollera certezze e trasforma facilmente i bias in idiozie molto costose.

Vi ho proposto la locuzione Moving Communication come riferimento al campo della comunicazione della moda sottoposto agli effetti della aumentata complessità di scenari che necessitano più di regolazioni che di regole o modelli calati dall’alto.

Moving Communication non vuole essere un concetto operativo. Dal mio punto di vista è solo (per ora) un espediente didattico funzionale per stimolare la vostra sensibilità nei confronti delle differenze e specificità che ogni brand a suo modo ci rende visibili, in un mondo nel quale l’incertezza è la situazione decisionale più probabile.

La breve analisi delle sfilate Cruise 2020 di Giorgio Armani e Gucci, a mio avviso sono esempi di Moving Communication.

A tal riguardo, ho ritenuto di poter attribuire a Giorgio Armani una tattica prudente e rispettosa del contesto evenemenziale scelto per la sua prima collezione Cruise. Ho immaginato che tale scelta fosse in qualche modo connessa con i suoi biases che difendono una visione ordinata della moda.

La visione della moda di Alessandro Michele è il rovescio di quella di Armani. Il mondo ideale dello stilista romano antepone alla razionalità il sentimento di libertà espressiva; all’approccio formale preferisce l’immaginazione creativa; alla sfera autonoma della moda oppone, serie di oggetti-per-il-corpo che cercano di fondersi con campi emotivi che trascendono lo specifico della moda. Queste contaminazioni o sconfinamenti in territori semantici rischiosi richiedono una buona dose di audacia, che unita alla sfrontatezza, trasmettono “messaggi” dalla vischiosità apprezzata dai social. Traiamo una ulteriore lezione dalla sfilata Cruise 2020 di Gucci: oltre all’amore per la lunga Storia di Roma (così come Giorgio Armani prepara l’atterraggio della sua Cruise dichiarando la sua adesione al gusto del Giappone classico), alcuni capi della collezione mostrano ciò che Alessandro Michele chiama i “codici” della sua immaginazione creativa. Io ho sempre pensato che un codice fosse un insieme di norme o regole. Evidentemente suona bizzarro che lo stilista che dichiara la sua fede nella libertà e agisce di conserva negando le regole condivise, definisca codici le radici della sua creatività. Io le chiamerei matrici originarie, cioè un insieme arbitrario di elementi tratti da fonti storiche ai quali lo stilista si abbevera in ogni suo ricominciamento (ogni collezione che crea). Se leggo la Cruise 2020 correttamente allora questa matrice si compone di tre elementi fondamentali: dialogo con l’antico un po’ alla Aby Warburg (nel senso che dell’antico è interessato alle figure portatrici di sopravvivenza della forza vitale, passionale che scombina l’inerzia del mondo ordinato, incuneandovi il desiderio, l’eccesso); gli anni settanta del novecento come immenso serbatoio di segni, idee, forme che lo stilista attribuisce al desiderio di libertà (nella collezione in oggetto sono per esempio i calzoni a zampe di elefante ; e infine un riferimento alla contemporaneità, che in questa collezione è raffigurata con le scritte “My body, my choise” e “Legge 194” riportate da alcuni capi, in difesa della legge sull’aborto, attualmente contestata sia negli Stati Uniti che nel nostro Paese (due mercati fondamentali per Gucci).

Anche se tutti gli stilisti hanno preso l’abitudine di embricare nelle collezioni propensioni, ricordi personali, suggestioni culturali, preferenze personali,  ed è almeno dalle famose T-Shirt di Vivienne Westwood nell’era Punk che troviamo sugli abiti riferimenti che potremmo vagamente definire “politici”, non c’è dubbio che negli ultimi anni questa propensione si sia accentuata e abbia polarizzato i protagonisti del settore.

La mia idea è che se osserviamo questo sviluppo attraverso le lenti della Moving Communication, tutto diviene più chiaro.

Se ė vero che la doppia azione operata dal mercato globale e da Internet, ha rotto l’incantesimo di una moda arroccata nei suoi rituali che prevedevano un motore a due tempi del cambiamento programmato, spingendo di forza i brand verso un maggiore attivismo, allora dovrebbe essere evidente il cambiamento di passo delle tecniche e delle tattiche comunicazionali.

Un tempo il Brand Activism era poco più delle “promozioni” effettuate in precisi periodi della stagione. Si pensava che l’aspetto prestazionale del prodotto fosse sufficiente per mantenere il contatto con i clienti. Aggiungiamoci pure qualche evento Charity e poco altro ancora.

Oggi fare marketing in questo modo significa non produrre più senso utile per il brand. I Millennials (qualunque sia la definizione che date di essi) hanno grandi aspettative sulle attività simboliche e pratiche dei Brand.

Vivono in un mondo di problemi continuamente drammatizzati da inarrestabili ondate informative, e non accettano più di rapportarsi a brand che non condividano un certo numero di principi etici.

Non si dovrebbe mai sottovalutare gli effetti dell’insicurezza dell’attuale nostro modo di vita sulla sensibilità dei millennials. Io credo che molti di loro, aderiscano alla logica del brand per essere rassicurati. Per molti giovani che investono il loro tempo nei social, aderire a un brand, in questa fase storica, significa liberarsi dall’insicurezza. Quindi molto spesso scelgono un brand non per valutazioni estetiche, ma per soddisfare un bisogno più profondo che io vedo correlato a campi emotivi più complicati rispetto a quelli sui quali agiva la moda nel passato. Probabilmente è anche per questo investimento emotivo che quando rimangono delusi reagiscono in modo sproporzionato all’effettiva consistenza dell’episodio scatenante.

Gucci, con Alessandro Michele ha stravolto i codici di valutazione dei look ma al tempo stesso bisogna riconoscere che le sue politiche di comunicazione hanno solide radici nel campo delle libertà sostanziali che appassiona l’immaginario dei Millennials.

L’obiettivo della marca sembra orientato a tessere una rete di comunicazione con i propri interlocutori con meno mediazioni possibili.

Ecco perché gli appuntamenti tradizionali del gran tour della moda cominciano ad essere vissuti come un limite. Dal momento che i contenuti critici avanzati dai cosiddetti esperti (giornalisti, buyer, studiosi…) risultano irrilevanti per la creazione di valore, conviene portare la strategia di auto legittimazione alle sue logiche conseguenze. Perché devo sfilare con tutti gli altri marchi? Che vantaggio ne traggo? Perché devo presentare le collezioni in date prestabilite, in fiere affollate? Non conviene affidarsi a eventi in luoghi senza nessuna interferenza di colleghi o di giornalisti, che nelle fiere tradizionali sarebbero costretti a limitare spazi editoriali e a fare paragoni o esprimere giudizi?

La disamina della veloce trasformazione delle sfilate Cruise/Resort da tattica commerciale in evento mediatico, ci ha dunque rivelato una evoluzione di più ampio raggio, che mette in tensione ciò che consideravamo l’ordine della moda, con le necessità o le opportunità create dal doppio taglio di un mercato sempre più articolato e di un web sempre più protagonista.

In prospettiva il messaggio di Gucci sembrerebbe essere: una grande marca deve agire (cioè organizzare eventi in totale autonomia e creare novità) là dove ha maggiori probabilità di intercettare il massimo di audience, dal momento che è l’effetto brand a creare la soglia di valore necessario per competere a livello globale.

Abbiamo anche visto come il più grande stilista italiano, pur arrivando ad adeguarsi, abbia voluto ricordare il rischio di una completa sregolazione dei ritmi (di cambiamento programmato) e di un cieco abbandono a logiche spettacolari: di fatto Giorgio Armani ha sostenuto le sfilate di Milano senza rinunciare ad essere protagonista con la sua Cruise a Tokyo; la prima ha avuto il supporto della diretta streaming, la seconda una più severa gestione mediatica. Ho creduto di poter riconoscere in questa scelta la difesa di una visione della moda impegnata a creare ordine. Per contro Gucci (e tanti altri brand protagonisti) sembra convinto che solo la capacità del brand di navigare disordinando il sistema, possa opporsi all’inevitabile entropia costitutiva del mondo così come è venuto a configurarsi nel terzo millennio.

Entrambi i brand tuttavia, non hanno potuto fare a meno di aumentare le frequenze dei loro interventi nel campo della modazione. Vi ho proposto di definire provvisoriamente Moving Communication lo scenario nel quale i brand per tenere insieme pezzi di mercato dissonanti, devono sottoporre gli elementi con i quali traducono le novità in atti concreti di comunicazione e i concept utilizzati per la modazione, a incessanti affinamenti (è la soluzione in stile Armani) o a bruschi salti creativi (Gucci).

L’aumento delle frequenze evenemenziali e delle delocalizzazioni culturali comportano rischi crescenti. Di conseguenza ogni singolo evento o esperienza deve essere sottoposto a modalità di controllo regolativo che urta con l’abitudine a concepire l’efficacia come il risultato di pianificazioni, progetti e modellizzazioni rigide.

La domanda ora potrebbe essere: relativamente alle finalità delle istanze narrative utilizzate dal brand per manipolare i propri pubblici, possiamo parlare ancora di “controllo dall’alto verso il basso”?

Ovviamente la risposta è no! La “causalità verso il basso”, cioè l’idea che con narrazioni in diversi standard, in ultima istanza, un brand investa ingenti risorse soprattutto per ottenere risultati concreti (chiamiamoli pure tentativi di condizionamento o manipolazione), in contesti di intervento altamente complessi, può essere efficace solo se si sincronizza con gli elementi che in un preciso momento e luogo, determinano il livello di attenzione e cambiamento, pertinenti alle politiche del brand.

La Moving Communication è dunque un modo di attualizzare nell’era della globalizzazione e di internet, ciò che Norbert Wiener (uno dei fondatori della Cibernetica: il primo grande tentativo di dare uno statuto scientifico alla Comunicazione), aveva concettualizzato con la parola Entrainement ovvero, per farla breve, un modo di gestire i processi di causazione basati su sintonie e sincronie.

In definitiva, vi ricordo che con Moving Communication ho tentato semplicemente di attivare la vostra attenzione sullo sforzo di autoadattamento con il quale i brand evolvono verso forme di organizzazione più elaborate. A questo livello di indagine la difficoltà non è legata alla natura dei fatti e dei concetti in gioco. Stiamo sempre parlando di abiti, sfilate e immagini. Ma sono le relazioni tra essi a subire una nuova regolazione, facendo intravedere “configurazioni del senso emergenti”. La sensibilità a queste regolazioni può produrre una cognizione più operativa sui fattori portanti che danno o limitano l’energia del brand. E concludo, ricordandovi ancora una volta che gli abiti (come materia trasformata in forme) non possono arrivare in alto fino in cielo. Se per contro riusciamo a trasformarli in brand possono provare a volare. Fino a dove, spero che ciascuno di voi possa scoprirlo presto da protagonista insieme all’azienda con la quale collaborerete.

cruise
Gucci Cruise 2020
Armani Cruise 2020
Armani Cruise 2020

Addenda:

Il testo è il resoconto di una lezione al Corso biennale “Tecnico superiore di processo e prodotto  del sistema Moda 4.0”, Fistic, sede di Carpi.

Ovviamente la lezione aveva come punto di partenza la ricerca di corrispondenze tra idee interpretative con i fatti concreti… fatti che in un’aula scolastica non possono che coincidere con il materiale visivo congruente con l’oggetto visibile grazie al web. A partire dalla visione dei fatti, abbiamo sviluppato argomenti immaginati corrispondere al “come”  una collezione è stata trasfigurata in contenuti narrativi, con l’ambizione a scorgere in essi “tracce” del presente della moda in processo.

Dal momento che ci trovavamo in pieno periodo Cruise, mi è parso scontato partire dagli eventi di più facile notiziabilitá e attrattiva, sia per gli studenti che per il lettore evoluto (cioè quello che usa internet ogni tanto anche per confrontarsi con testi più articolati dei cinguettii di Twitter).

Lamberto Cantoni
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10 Responses to "Cruise Collection e la Moving Communication"

  1. james   25 Giugno 2019 at 16:50

    Vorrei chiedere all’autore se quando esce a cena indossa una toga come quella della foto Gucci, oppure veste come il modello di Armani? il moving mi va bene, va bene anche la sfilata nei musei, ma alla fine come ci vestiamo veramente? i toga party io li facevo quando andavo all’università e con gli amici ci ubriacavamo come bestie. Ma bastava mettersi addosso un lenzuolo, mica lo volevamo firmato! Possibile che i millesimati o i millennials siano tutti così squilibrati da regalare fatturati da paura al freackettone stilista di Gucci? L’articolo mi ha incuriosito e sono andato a guardarmi la sfilata su YouTube: persino le povere statue neoclassiche devono aver preso paura.

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  2. vince   26 Giugno 2019 at 08:48

    Ho letto velocemente e ci sta che non abbia capito tutto. Mi è venuto un dubbio: le tanto strombazzate fiere servono ancora? Non so se io spederei tutti quei soldi per fare sfilate in giorni affollati da fashion show di altri brand. Sembra facile pensarla così, ma anche agire in solitaria non è poi così semplice. Chi garantisce la copertura dei media? Certo che con Internet si risolvono molti problemi, ma siamo sicuri che non sia intasato quanto gli spazi che Parigi, Milano dedicano alle sfilate? Voglio dire un?altra cosa. Diciamo che nomi come Gucci e Armani hanno la possibilità di fare quello che vogliono. Ma i piccoli brand possono muoversi autonomamente a 360 gradi? La moving comunicazione ha l’aria di essere una faccenda molto costosa. Per me è una conseguenza della scelta di fare moda con le regole delolo showbusiness.

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    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   30 Giugno 2019 at 10:50

      L’utilità delle grandi fiere della moda è fuori discussione, ma dobbiamo considerare la strenua competizione che presuppongono. In altre parole si fanno la guerra e sono incalzate da altre agguerritissime località che tentano di eroderne il prestigio. Nel corso del novecento le fashion week che rappresentavano uno dei motori fondamentali della modazione erano sostanzialmente 4: New York, Londra, Parigi, Milano. Il valore aggiunto che attribuivano ai brand che riuscivano ad interpretarne le opportunità, difficilmente poteva essere creato con altre tattiche. Nel terzo millennio il contesto è cambiato. I super brand non amano l’eccessivo affollamento di sfilate ed eventi. Sottoposti ai vincoli della globalizzazione e sorretti dal web sempre più spesso scelgono tattiche di autolegittimazione che comportano scelte di località e timing a loro volta legati a un insieme di fattori strettamente contingenti, funzionali ai loro piani di sviluppo. Come ho tentato di argomentare, l’assetto Moving è la risposta dei grandi brand a un’ordine della moda che nella tarda post modernità può essere solo fluttuante e provvisorio. Le fashion week più brandizzate stanno cercando di reagire. Una possibile risposta competitiva assa attraverso il coinvolgimento della città/metropoli che le ospita. Dal mio osservatorio posso ipotizzare che vinceranno le fashion week che sapranno diventare almeno per i giorni della manifestazione, l’espressione più efficace e autorevole del modo di vivere di una specifica città-mondo (accoglienza, partecipazione pubblica, cultura, economia, spazi prestigiosi, autorità partecipative…).

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  3. sofia   27 Giugno 2019 at 14:41

    Nell’immaginario mondiale la Cruise Collection è associata a sfilate che prendono forma in straordinarie località turistiche e che portano in passerella capi immersi in una cornice di lusso estremo come nel caso di Dior che nel 2020 ha presentato la sua collezione a Marrakech piuttosto che lo show di Chanel avvenuto a Parigi, il primo dopo la morte di Kaiser Karl. Personalmente il Brand che attraverso la sua collezione Resort ha suscitato in me il più alto grado di mesmerizing ( termine usato da Anna Piaggi che significa ipnotizzare, magnetizzare, suggestionare) è stato Moschino, che sotto la guida dell’estroso Jeremy Scott ha saputo far regnare sulla passerella allestita negli Universal Studios di Hollywood un’oscurità ironica definita Spooky Couture. L’ultimo show di Moschino ha riferimenti a serie TV e a film come Dracula, La Mummia, Frankestein ed altre ancora che hanno fatto in modo di immergere gli spettatori in un’ atmosfera da notte di Halloween. Il designer americano è riuscito a stupire cavalcando l’onda del DNA del Brand dallo stile ironico che ama unire chic e kitsch il quale porta il consumatore a vivere un processo di regressione che secondo gli psicoanalisti conduce a rivivere percezioni piacevoli già vissute in precedenza, nella fase dell’infanzia.

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  4. DENISE   27 Giugno 2019 at 14:42

    L’idea che la collezione cruise/ resort sia destinata a quella cerchia privilegiata di vacanzieri è ormai un’ idea appartenente al passato. Veritiero è che i flussi turistici sono aumentati esponenzialmente, i prodotti considerati di “mezza stagione” sono più versatili e più comprabili da parte del consumatore.
    Se prima le sfilate resort erano delle presentazioni dove il luogo non segnava in modo emblematico il fatturato, nell’era 4.0 ci troviamo davanti a dei mega eventi. I brand hanno sete di visibilità.
    Nel 2014, secondo BOF, Il 70% del fatturato del pret a porter di un brand veniva presentato dalle pre collezioni, nel 2018 questo dato è arrivato all 80%.
    I grandi brand sono vittime dello slogan “GO BIG OR GO HOME”, è una corsa continua ad accaparrarsi il più gran numero di visualizzazioni. Nell’articolo vengono presi in considerazioni e messi a confronto due colossi made in Italy, Armani negli anni 70 è stato il pioniere dell’industrializzazione del prodotto moda mentre Alessandro Michele è stato colui che ha creato una nuova figura del direttore creativo. Se pensiamo ai loro modelli, oserei dire che sono opposti, dalla creazione fino alla comunicazione.
    Questo si evidenzia anche nelle scelte stilistiche riguardanti le loro sfilate. Alessandro Michele con Gucci assettato di millenials comunica con il loro stesso linguaggio, probabilmente se non esisterebbero i social non creerebbe tutto questo mormorio ogni volta che entra in passerella. Tutti sintonizzati sui propri smartphone ad aspettare la diretta dell’evento, un evento che se ne sentirà parlare per i giorni seguenti attraverso le condivisioni degli utenti, Gucci ha un’anima esibizionista. Armani invece è più conservatore, ha un target più adulto.Sempre stato corretto con il suo heritage, fedele al suo essere così semplice ma cosi studiato.
    Credo che questa sfilata abbia confermato le due differenti ideologie.

    Rispondi
    • Antonio Bramclet
      Antonio   29 Giugno 2019 at 09:16

      Sono d’accordo con l’opinione di Denise scritta benissimo. In parole concise ha toccato i temi principali senza esasperare i confronti tra le due strategie.

      Rispondi
  5. Martina   27 Giugno 2019 at 23:29

    Nel contemporaneo panorama culturale all’interno del quale il sistema moda é inserito, l’importanza sempre più evidente e pregnante che le pre collezioni (siano esse cruise o pre-fall) rivestono in termini di comunicazione, con tutte le sue inevitabili ricadute, é ormai noto a molti.
    Le due diverse modalità di presentazione dei due brand in questione, un Armani forte di rigore e fiducia conservatrice nell’evento primario sfilata, ed un Gucci che fa della sua immaginazione creativa il suo tratto distintivo e caratteristico, evidenziano non solo due diverse concezioni della moda e quindi del prodotto, ma anche due divergenti modalità di affrontare l’evidente cambiamento della comunicazione che l’era di internet ha inevitabilmente generato.
    Al di là della dicotomia tra chi predilige l’ordine e chi invece si affida al disordine sottopostaci dall’autore, mi ha colpita la scelta della location da parte di Gucci in termini logistici, riguardanti l’invasione dello spazio museale, avendo collocato il pubblico direttamente attorno alle statue. Personalmente questo stravolgimento, che ritengo poco rispettoso, è un fenomeno preoccupante. Da una breve ricerca ho poi scoperto che la concessione della sede è il risultato di un impegno a favore di un’opera di mecenatismo alla Rupe Tropea; iniziativa già effettuata da altri Brand e del fashion quali Bulgari per la scalinata di Trinità dei Monti e Fendi per la fontana di Trevi.
    La locuzione a cui la moving communication risponde per definizione,ovvero come un insieme di fatti, modelli e parametri in movimento, dovrebbe indurci a ripensare quanto l’influenza dei nuovi sistemi di comunicazione interferiscano ed influenzino il nostro sistema percettivo. Preferiamo credere ad un mondo irreale ma sicuro, precostituito e manipolato, rispetto ad uno scenario insicuro e di cui non ne conosciamo i contorni.
    La moda gioca su questo sottile confine, intercettando e facendo leva su tutto ciò che di più prezioso possediamo:le nostre emozioni, riuscendo abilmente a confezionarci a soggetto.
    Mi chiedo se riusciremo a mantenere un’originalità ed un atteggiamento di mutua razionalità per lasciarci affascinare con il corretto spirito critico.

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto   29 Giugno 2019 at 09:02

      Apprezzo il tuo punto di vista. Tuttavia non sarei così unilaterale nel giudicare le sponsorizzazioni che i brand effettuano per contribuire a restaurare il nostro patrimonio culturale. So benissimo che, tra le altre cose, sono praticamente investimenti in meta-comunicazione. Ma non possiamo negare che la conseguenza indiretta di un interesse di parte, può essere estremamente virtuosa. Certo io brand ti garantisco le risorse necessarie per preservare un bene pubblico, tu istituzione mi dai la possibilità di farlo sapere in giro e mi permetti di sfilare in una location molto ambita. Questo genere di brand activism dovrebbe essere stimolato. E naturalmente sottoposto a controlli razionali cioè conformi all’efficienza/efficacia dell’investimento.

      Rispondi
  6. maurizio   28 Giugno 2019 at 11:08

    Internet ha cambiato tutto. Cos’altro c’è da dire? chi si adatta e cambia avrà un futuro. Chi guarda solo al passato si estinguerà. Se moving communication significa questo sono d’accordo.

    Rispondi
  7. valeria   30 Giugno 2019 at 13:04

    Come é per ogni passo di danza, anche un abito che sfila racconta una storia. Non é il colore, o la stoffa, o il modello, ma é la storia che ci trasmette che colpisce il nostro animo. Il racconto invisibile che l’abito ci propone ci coinvolge fino al punto di sentirci protagonisti: ecco che l’abito sembra così raccontare anche la “nostra storia”. Se non proviamo questa sensazione ogni abito che sfila ci parla solo di “tecnica”, non ha cioè un’anima.
    Armani ci ha visti nella nostra parte più nascosta: il desiderio di coerenza, la ricerca di regole, la stabilità della tradizione sapendo che ogni “rivoluzione”, ogni cambiamento si fa con “i passi delle allodole”. Questi desideri a volte li celiamo anche a noi stessi, o li riveliamo solo a poche persone (poche “presenze” alla sfilata).
    In Gucci cogliamo invece la nostra volontà di rompere con la tradizione (sempre presente) per dare spazio al nostro desiderio di libertà, intesa come forza vitale di una creatività senza limiti. Il desiderio di rottura, di spingerci oltre, di andare dove ci conduce la fantasia.
    Mi sembrano due facce della stessa medaglia.
    Tutti questi desideri, seppur contrastanti, sono racchiusi in noi, perché questo periodo storico in cui ogni cosa é veloce, in continuo mutamento ci fa vivere in contraddizione con noi stessi.
    E ci sentiamo soli.
    Egli stilisti hanno sfilato soli.
    Ma la condivisione non più solitudine.

    Rispondi

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