MILANO – Gli autoritratti di Muholi, fotografa e attivista LGBTQ sudafricana, sono in mostra al Mudec di Milano. Dal 31 marzo al 30 luglio.
Zanele Munoli nasce in Sudafrica agli inizi degli anni Settanta. Orfana precoce di padre, segue la madre a servizio in una famiglia. Tentando un’emancipazione dal regime di segregazione, fugge a Johannesburg. Qui inizia la ricerca di un suo percorso creativo. E diventa attivista di spicco del movimento LGBTQ, anche attraverso l’utilizzo della fotografia. Che affina costantemente, mixando tecniche tradizionali e più moderne. Rendicontando, con i suoi scatti, le violenze e i soprusi subiti dalla comunità nera e lgbtq.
Qualche anno dopo Muholi lascia l’Africa, ottenendo, successivamente, la cittadinanza artistica in Italia. Dove intraprende il suo percorso di autoguarigione artistico. Attraverso la macchina fotografica, che rivolge ora verso se stessa. Iniziando una lunga serie di autoritratti. In cui l’artista si riappropria, con tenacia e orgoglio, dell’identità del corpo nero e della sua stirpe.
La potenza e la verità delle sue fotografie incantano, immediatamente, il mondo. Presentando, però, istanze importanti. Muholi rivendica il rifiuto di ogni violenza e sopruso, il desiderio di integrazione, il diritto all’autodeterminazione, sia razziale che sessuale, il richiamo all’inclusività.
Le serie di ritratti di Muholi, esposti al Mudec di Milano, portano titoli, come sigilli, che diventano parte integrante dell’opera. E quasi tutti sono in lingua zulu, la lingua madre dell’artista. Un linguaggio ribadito come forma di riverenza orgogliosa e di rispetto all’idioma e, dunque, all’identità del suo popolo.
Le immagini, in bianco e nero, di Muholi rivelano anticonvenzionali scelte di post produzione. Così come coraggiosi punti di ripresa. Che mirano ad aumentare i contrasti e a sovvertire l’iconografia tradizionale del corpo nero.
La varietà dei ritratti è sorprendente. Si va dalle immagini scattate durante la chiusura in casa causata dal Covid. A quelle realizzate con i pettini delle acconciature africane. A quelle con le spille da balia (considerate dall’artista uno strumento per connettersi). A quelle con gli oggetti da lavoro (con riferimento al tema delle domestiche nere). A quelle con i guanti di lattice (simbolo delle pratiche mediche, cui la comunità queer spesso non ha accesso). A quelle, infine, con le fascette (che da strumento di riparazione diventano strumenti di costrizione usati dalla polizia).
Gli autoritratti di Muholi, tridimensionali nella propria plasticità, sono capaci di comunicare, con un’immediatezza e una franchezza dirompenti, un ipnotico caleidoscopio di potenti sensazioni. Creando uno stile unico e fortemente identitario.
Mudec
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