Si chiama Natick il nuovo progetto di Microsoft per portare i server sul fondo del mare. L’idea nasce come risposta ecosostenibile alla necessità di stoccare quantità sempre più ingenti di dati in strutture fisiche adeguatamente capienti, facilmente accessibili, a ridotto consumo energetico e soprattutto a basso impatto ambientale.
Il nocciolo della questione è che l’uso estensivo che tutti noi facciamo quotidianamente della tecnologia è sempre più basato su soluzioni di cloud computing, cioè su infrastrutture di rete che ci consentono di attingere a moli impressionanti di informazioni (e applicazioni) che di fatto non risiedono sul nostro computer ma sono immagazzinate, elaborate, e processate altrove. E’ la “nuvola” a cui ci connettiamo ogni giorno quando inviamo mail, effettuiamo ricerche, ascoltiamo musica in streaming, concludiamo acquisti online, scambiamo messaggi foto documenti e ogni altro genere di materiali via chat, IM o social network; ogni qualvolta insomma utilizziamo un computer ma soprattutto quella sorta di propaggini mobili che sono ormai a tutti gli effetti i nostri smartphone, tablet e notebooks.
“Il Cloud Computing” spiega Microsoft, “continua a crescere di importanza sia come motore della crescita economica che come fattore di rischio per il consumo delle risorse globali del pianeta.”
I data center su cui la nuvola si regge hanno infatti altissimi costi di raffreddamento. Garantirne l’operatività e mantenerli funzionanti significa tenere costantemente sotto controllo l’elevata propensione dei server al surriscaldamento; questo implica grandi consumi di elettricità, che se proveniente dalle tradizionali fonti basate sulla combustione fossile contribuisce a sua volta al surriscaldamento globale del pianeta.
La sfida di Microsoft è proprio questa: rompere questo circolo vizioso utilizzando per il raffreddamento energie rinnovabili basate sullo sfruttamento delle onde e delle correnti oceaniche, nonché beneficiando di un ambiente naturalmente provvisto di basse temperature. Collocare i server – o server farm, come si dice in gergo tecnico per indicare i data center (letteralmente “fattorie di server” e centri di elaborazione dati) – sui fondali marini risponde esattamente a queste esigenze.
Ma non è tutto. Natick, si legge sul mini-sito realizzato appositamente dall’azienda di Redmont per divulgare i dettagli del progetto, guarda a un futuro del cloud computing in cui non solo i data center siano gestibili a costi ridotti e a basso impatto ambientale ma anche a un futuro di servizi sempre più efficienti ed evoluti.
La visione di Microsoft è infatti precisamente quella di “data center off-shore incapsulati in container subacquei” che opportunamente dislocati – ma soprattutto dislocabili ad hoc – “lungo le coste in prossimità dei maggiori agglomerati urbani (dove circa il 50% della società risiede)” riducano sensibilmente i tempi di latenza, cioè di erogazione, dei servizi. Un futuro di crescente interattività insomma a cui Microsoft guarda fin d’ora portando connessione e infrastrutture il più vicino possibile agli utenti.
I data center Natick, conferma Ben Cutler, uno dei cinque ingegneri e ricercatori al lavoro sul progetto, potranno operare “at scale anywhere in the world” e “from decision to power on within 90 days”, vale a dire all’occorrenza, in forma scalare e commisurata alle esigenze, in qualunque area del mondo e nel giro di non più di tre mesi.
Obiettivi ambiziosi e affascinanti, che ne farebbero la soluzione ottimale per qualunque esigenza di mercato, dalla rapida copertura di zone colpite da catastrofi ambientali al cablaggio di aree ad alti picchi di connettività in concomitanza con particolari eventi, sportivi e non, quali le Olimpiadi o la Coppa del Mondo solo per citarne alcuni.
Va precisato però che al momento il progetto è ancora allo stadio sperimentale. Avanzato sì ma pur sempre sperimentale. E non si sa di preciso quando queste soluzioni potranno fare il loro ingresso sul mercato.
Per ora sappiamo soltanto che il primo prototipo di data center subacqueo, la Leona Philipot – così chiamata dal nome di un noto personaggio del videogioco per Xbox Halo – è appena riemerso dalle acque e dopo ben 105 giorni di test sui fondali marini al largo delle coste californiane gode di ottima salute. E in linea con la sua anima green “…sea life in the local vicinity quickly adapted to the presence of the vessel”.
Si attendono nelle prossime settimane i risultati definitivi dei controlli ma se tutto andrà come dovrebbe un nuovo prototipo, di dimensioni 3 volte maggiori, sarà messo subito in cantiere e potrebbe essere a sua volta testato già nell’arco del 2016.
L’obiettivo a breve termine è ridurre i tempi di realizzazione dagli attuali 2 anni del prototipo Leona Philipot ai 3 mesi ipotizzati per la produzione a regime, oltre a garantire durata e prestazioni nel tempo di 2-5 anni in attività subacquea e fino a 20 anni quanto a ciclo di vita complessivo del prodotto.
Incoraggianti prospettive per il pianeta insomma, se è vero che – come ci ricorda Microsoft citando Marshal Mc Luhan – “There are no passengers on spaceship earth. We are all crew”.
Ma anche sfida impegnativa perché, va detto, quanto a data center evoluti ed ecosostenibili basati su energie pulite, i principali competitors di Microsoft non stanno certo a guardare: Facebook fa da tempo base a Lulea, Svezia, in prossimità del Circolo Polare Artico; Google utilizza dal 2009 data center mobili su chiatte galleggianti al largo delle coste californiane e ne ha recentemente alloggiato uno ad Hamina, Finlandia, recuperando una vecchia cartiera del 1950 e utilizzando per il raffreddamento le acque gelide del Mare del Nord; mentre Amazon punta su server farm dislocate un po’ ovunque sul pianeta, principalmente in zone aride e desertiche, alimentandole con sofisticati sistemi ad energia eolica e pannelli solari. Ma questo è già materiale per un’altra storia.
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