Oggi è la Giornata Mondiale delle Emoji: dove vanno a finire le parole?

Oggi è la Giornata Mondiale delle Emoji: dove vanno a finire le parole?

MONDO – Il 17 Luglio di ogni anno ricorre la Giornata Mondiale delle Emoji. Se ci si sofferma a riflettere e ci si guarda indietro, è incredibile constatare come sia cambiato il nostro modo di comunicare e come le emoji siano entrate letteralmente a far parte del nostro linguaggio comune. Si è passati dal percepirne l’eccentricità, al giudicare come inespressivi coloro che scelgono di non farne uso nei loro discorsi, con il rischio di venire travisati o bollati come retrogradi. Che sia espressione di un passaggio generale dalla sostanza del linguaggio alla semplificazione dell’immagine? Ripercorriamo insieme l’origine e la storia delle fortunate e simpatiche emoji.

Interessante, a tratti inconcepibile, ma ad oggi ne esistono più di tremila; sono le emoji, dei veri e propri pittogrammi utilizzati per le chat di messaggistica e per i social network, come accompagnamento e/o introduzione di maggior emozionalità nei discorsi scritti.

Hanno acquisito nel tempo grande rilievo, tale da vedersi dedicare una Giornata Mondiale, che ricorre oggi, 17 Luglio, nel 2021 ventiduesimo anno dalla loro invenzione.

Era infatti il 1999, quando la prima emoji, prodigiosa invenzione che ci avrebbe resi probabilmente ancora più dipendenti dalla messaggistica istantanea a discapito delle care vecchie chiamate a voce, è approdata nel mondo.

Ma chi ha davvero dato il via a questa rivoluzione digitale? Alla base di tutto c’è il disegnatore giapponese Shigetaka Kurita, ritenuto l’inventore dei pittogrammi divenuti in tutto il mondo di uso comune. Ventidue anni fa, infatti, Kurita pone in essere un insieme di ben 176 emoji, al quale più di un’istituzione ha dedicato studi, mostre o esposizioni virtuali.

A cavallo fra il 2016 e il 2017, il Museum of Modern Art di New York  ha esposto al pubblico le emoji originali ideate da Kurita, mentre nel biennio 2019-2020 il Museo Nazionale del Cinema di Torino, nell’ambito della mostra #FacceEmozioni, 1500-2020, dalla Fisiognomica alle Emoji, apriva alla riflessione sull’importanza del riconoscimento facciale e della tecnologia grafica, partendo da Aristotele per arrivare alla sintesi grafica delle emoji.

La nascita delle emoji

Il 17 luglio è la Giornata Mondiale delle Emoji, da non confondere con le emoticon, che quest’anno compiono tredici anni di vita, una vita iniziata nel 2008 in Europa e negli USA a partire da un aggiornamento iPhone.

Per quanto riguarda le emoji, è stato comunque il colosso Apple a donargli l’immortalità e il potere assoluto sui nostri processi comunicativi, tanto da renderle simboli dei nostri stati d’animo, dei nostri pensieri, a volte del nostro stesso modo di essere.

Come già anticipato, la loro fortunata storia inizia nel 1999: il loro tratto semplice, praticamente disegnato con pochi pixel e monocromatico, prende vita in Giappone per diffondersi casualmente negli USA e in Europa, quando la Apple intraprende la realizzazione di una versione più avanzata dei pittogrammi giapponesi, con l’intento di diffondere una cultura delle emoji già ampiamente presente.

Una cosa è certa: l’introduzione delle emoji è una delle rivoluzioni più interessanti che si siano mai verificate nell’ambito della comunicazione digitale e della generazione smartphone.

Storia ed evoluzione

Magari, se avessero avuto l’opportunità, le primitive emoji giapponesi avrebbero capitanato lo stesso cambiamento linguistico che hanno avviato le emoji di Apple, chi può dirlo?

Quello che sappiamo è che dal momento in cui le emoji sono state rese disponibili su iPhone, per poi venire introdotte step by step anche su Android, sono diventate un surrogato quasi obbligato dei nostri discorsi.

La vera svolta evolutiva per le emoji, in Europa specialmente, è arrivata quando Whatsapp ha pensato bene di iniziare ad utilizzarle all’interno della sua offerta, per poi introdurne di proprie, allargandone capillarmente la diffusione.

Nel tempo si sono susseguiti diversi tentativi e novità nell’ambito emoji, come le twemoji di Twitter o le nuove grafiche per emoji progettate da Google per Android, per riproporne una variazione dell’originale.

I tentativi di reinterpretazione troppo audaci non hanno riscosso particolare successo: per il popolo dell’era virtuale, le uniche vere emoji sono quelle della versione originale diffusa da Apple.

 

Le emoji come incursione culturale

La designer Angela Guzman e l’illustratore Raymond Sepulveda sono le due personalità a cui si deve il merito della diffusione delle emoji da parte di Apple. All’epoca, come raccontano anche i due disegnatori, non erano considerate neanche lontanamente un’idea di primo piano per l’azienda; nessuno avrebbe mai immaginato il successo e l’importanza che avrebbero acquisito nei nostri processi mentali.

La ragione della fortuna delle emoji va probabilmente ricercata nella loro immediatezza e comunicabilità di stampo generale: in ogni parte del mondo si parla una lingua differente, ma le immagini, soprattutto quelle che esprimono emozioni o reazioni, quelle sono universali.

In un mondo come quello delle chat, basato sull’incomprensione e sull’incomunicabilità, probabilmente le emoji hanno rispecchiato e rispecchiano la necessità di un linguaggio internazionale, capace di rendere più “umana” la conversazione scritta e di creare un ponte fra i popoli.

La nascita di un nuovo tipo di linguaggio

Tendenzialmente, le emoji sono come un qualsiasi altro prodotto lanciato sul mercato: molto dipende dalla risposta del consumatore e dall’uso che essi decidono di farne nel tempo. Se inizialmente sono nate con un ruolo marginale, si sono man mano evolute in un vero e proprio linguaggio grafico, per iniziare poi una vita al servizio degli utenti, i quali se ne servono e gli donano loro stessi i più inaspettati significati.

Da meri e artificiali disegnini, le emoji hanno in questo modo preso vita: si pensi, ad esempio, alle emoji della melanzana o dell’albicocca, a cui gli utenti hanno universalmente affibbiato significati a doppio senso, molto più funzionali di quanto sarebbe stato per un’ipotetica emoji più esplicita dal punto di vista sessuale.

Come ha lasciato intendere anche la Guzman, ad oggi il cambiamento grafico non detta legge sul cambiamento di pensiero, ma è probabilmente il contrario: è l’interpretazione e la proiezione mentale di massa, a guidare le riflessioni dei designer.

Chi di noi non ha esitato nel dare una definizione univoca all’emoji con le mani giunte? C’è chi l’ha interpretata come un “per favore”, chi la utilizza per dare una vena di eleganza mistica ad un “grazie”, chi ha sfondato ogni dubbio identificandola come un gesto di preghiera.

Forse non tutti lo sanno, ma nel backstage del design virtuale, questo interrogativo ha aperto un vero e proprio dibattito. Perché le emoji, a quanto pare, negli anni evolvono, arricchendosi di significato e fornendo loro stesse, materiale per nuovi linguaggi universali.

Le emoji: un’immagine per ogni cosa

Il consorzio Unicode è oggi responsabile del vaglio e della selezione delle nuove emoji, a cui negli ultimi anni è stata affidata anche tutta l’attività d’inclusività etnica e di genere nel linguaggio grafico universale.

Mentre il design tecnico e digitale dei nostri smartphone spinge sempre di più verso il minimal e il monocromatismo, la tridimensionalità e l’espressività delle emoji sono probabilmente l’unica àncora di vitalità presente sui nostri schermi. Che sia questa una delle ragioni per cui vi siamo così legati?

Certo è, che le nostre frenetiche vite contengono tante, forse troppe informazioni da comunicare, ed essendo diventata la tecnologia l’unico mezzo con cui siamo portati a farlo, senza le emoji ad oggi sarebbe impossibile catturare velocemente ogni emozione.

Nella concezione sociale, le emoji sono ancora “un gioco da ragazzi”. Ma è davvero così? Lanciando uno sguardo al passato, il discorso diventa tutt’altro che banale: la loro importanza è probabilmente destinata ad aumentare, a consolidarsi e quindi ad incanalarsi in dei veri e propri segnali obbligatori, per una conversazione che possa dirsi riuscita al 100%.

Saranno un’icona nell’arte, nell’entertainment, nel commercio al dettaglio. Saranno dei veri e propri sostituti esemplificativi delle nostre parole.

E la vera rivoluzione sarà: riuscire a comunicare un’emozione senza bisogno di utilizzare un’emoji.

Che fine hanno fatto le parole?

Un’emoji per ridere a crepapelle con le lacrime agli occhi. Un’emoji per mostrare affetto, stima, approvazione o qualsivoglia emozione positiva, con un semplice cuore. Un’emoji per comunicare rabbia, sdegno o disapprovazione.

Grazie alle immagini prodotte dai nostri smartphone, comunicare e parlare diviene più semplice, più sbrigativo, più immediato. E se per le generazioni precedenti le emoji sono un suppellettile utile a rafforzare un discorso, l’illustrazione finale di un testo come in un libro, i nativi digitali comunicano soprattutto e quasi esclusivamente così, tramite app, ma soprattutto a suon di emoji.

Niente più impegno sintattico, riflessione critica, niente errori, virgole, punti, virgolette, parentesi. Parlare e scrivere è fuori moda: più sintetici si è, meglio è, anche nelle emozioni.

Non c’è tempo per spiegare e per spiegarsi, per i messaggi lunghi come lettere scritte, per quelle parole, che ormai appartengono alla generazione del calamaio.

Probabilmente, senza l’emoji opportuna, rischiamo anche di percepire come “troppo fredde”, distaccate, poco interessate, le parole di un interlocutore. Nessuno ha più tempo per leggere, né tantomeno per interpretare.

Ma le emozioni e i concetti, acquistano realmente più concretezza se veicolate da un’immagine? Oppure, si rischia semplicemente di perdere la volontà e quindi la capacità di spiegarne il significato profondo? Siamo sicuri che tutto, ma proprio tutto, sia universalmente traducibile in un disegno?

Se è vero che un silenzio dice più di mille parole, forse dice anche molto più di un’emoji.

Ironia della sorte, non esiste una risposta universale. L’unica certezza sembra essere quella di un futuro dalla comunicazione lapidaria, di sintesi emotiva, che depaupererà il pensiero culturale e il linguaggio, conducendo forse, chissà, ad una vera e propria nostalgia per le parole.

Michela Ludovici

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