Il modo più semplice per imparare la cucina regionale italiana: Sara e Francesca

Il modo più semplice per imparare la cucina regionale italiana: Sara e Francesca

ITALIA – Il modo più semplice per imparare la cucina regionale italiana – Le migliori ricette della tradizione, gli strumenti, le tecniche e i segreti: il libro di Sara Gnoli e Francesca Magnanti, edito da Newton Compton. Una piccola Bibbia – nemmeno tanto piccola, in verità, se si considerano le oltre ottocento pagine – per chef professionisti e cuochi dilettanti, che racconta la cucina nella sua dimensione tecnica e in quella più creativa, con 500 ricette nelle quali il lettore può, di volta in volta, cimentarsi. Io, ne ho già sperimentata qualcuna senza combinare grossi pasticci.

Sara ama le biblioteche, come luoghi di silenzio e di condivisione in cui ha costruito, studiando, larga parte dei suoi sogni; Sara ascolta De Andrè, Pino Daniele e Niccolò Fabi; Sara legge il Cantico dei Cantici; ha un sorriso forte, un sorriso battagliero che invita all’apertura, e, in linea con la battaglia del suo sorriso, scrive: “Il cielo può essere nero quanto vuole, può piovere e far freddo, noi non abbiamo alcun modo di cambiare le cose. Il problema non è il problema, è il modo in cui lo affronti, il problema, il punto. E meno ho voglia di sorridere, e più sorrido. È, prima di tutto, un esercizio per la mente. Da esercizio diventa automatismo, da automatismo stile di vita. Ci si deve allenare, alla felicità. Che poi, quando arriva, si è pronti per scattare e prenderla tutta”. Ci si deve allenare alla felicità. Che poi, quando arriva, si è pronti per scattare e prenderla tutta. E in questo allenamento che prepara allo scatto, in questa scelta che quotidianamente si rinnova, rintracciamo la voglia di combattere e fare bene, per noi e per gli altri, qualunque sia il progetto nel quale abbiamo deciso di profondere le nostre energie migliori, le nostre virtù più alte. Proprio stamattina leggevo una citazione di George Bernard Shaw che dice:  “Ho scelto il senso della vita per me. Il senso della vita è la felicità. E la felicità è avere uno scopo alto, essere una forza della natura anziché un coacervo di lamentazioni per il fatto che la vita non si è posta, come suo scopo, la nostra felicità”.

Sara Gnoli è nata a Rimini, 37 anni fa, da una famiglia di albergatori e ristoratori. Un metro e settanta di determinazione, di “tigna”, come lei stessa usa dire, si occupa di consulenza per bar, hotel e ristoranti; insegna tecniche di cucina professionale in strutture private e parastatali; scrive per riviste enogastronomiche e conduce programmi radiofonici dedicati alla cucina. Il libro che ha scritto insieme a Francesca Magnanti è “una guida che unisce il sapere tecnico e la competenza di una chef al sapere pratico e alla voglia continua di imparare di una cuoca dilettante” si legge nell’ introduzione.

Francesca lavora da anni nell’ambito dell’editoria e della comunicazione. Appassionata di cucina, viaggi e letteratura, cerca, da sempre, di coniugare questi interessi declinandoli nella ricerca di nuovi piatti da assaggiare e realizzare. Libri, ricette e città del mondo possono immaginarsi come i vertici di un triangolo ideale i cui lati sono invece la curiosità, la scoperta e la conoscenza: per mezzo di ciascuno di essi, spingiamo noi stessi oltre il limite dei fatti già noti, spostando l’orizzonte delle nostre conquiste un po’ più in là, un po’ più avanti, e perciò “addestrandoci” alla capacità di osare, di ficcare il naso dentro un manoscritto, di valicare la soglia della porta di casa, dando forma ai sogni e lasciando che siano loro a determinarci come persone.

Sara e Francesca accompagnano il lettore in un percorso che comincia raccontando la cucina come il cuore della casa, il “fiume maggiore” – se così si può dire – in cui si raccolgono tutti gli affluenti, e che si compone di strumenti tecnici, disposizioni precise, trucchi intelligenti e principi fondamentali, che vanno necessariamente appresi e sopra i quali è possibile edificare la parte creativa, quella che ha a che fare col gusto, col sapore, con la fantasia che l’arte della cucina, al pari di qualunque forma d’arte, richiede. Un itinerario completo, dunque, che passa dai sistemi di cottura agli utensili, dalle preparazioni di base alle regole del galateo, spiegati con semplicità e dovizia di particolari. Pagina dopo pagina, lo chef-lettore approda in ciascuna delle venti regioni italiane, ognuna con i suoi piatti, ognuna con le sue specialità, così che una napoletana come me possa cucinare gli gnocchetti al taleggio piemontesi, ad esempio, o un sardo mangiare la sbrisolona a casa propria, senza doversi spostare in Lombardia. Perché cucinare serve anche a questo: ad accorciare le distanze fisiche, a farci tutti più vicini, a dispetto di ogni lontananza imposta dalle mappe della geografia. Non per forza gli aerei e i treni avvicinano, non per forza le lettere, le parole scritte, le telefonate. Qualche volta può bastare una ricetta, un piatto fumante servito in tavola, nel clima di calore e premura che una pentola sul fuoco è così brava a ricreare, per sentire nuovamente accanto quel figlio ormai cresciuto che abita lontano, quell’amore grande partito per lavoro, oppure un nonno, una mamma, che non ci sono più ma che ci hanno lasciato in consegna un’eredità importante: l’eredità delle cose che rimangono.

“La cucina è ancora il posto dove trovo tutte le risposte, anche quando non conosco tutte le domande. Nel cuore della notte, con addosso gli odori del mio mondo, divento dolce nonostante il male, e ricordo solo le cose belle. Credo sia un grande regalo che il mio mestiere mi fa, quello della dimenticanza. Di notte, a fuochi spenti, ricordo solo i sorrisi, la forza, la speranza, i progetti, gli abbracci e le certezze, il profumo di buono della vita e dei sogni che diventano azioni e fatti. Ricordo solo il buono, e profuma come pane appena sfornato. E allora dormo serena”. Scriveva questo Sara, il 28 gennaio scorso, alle due di notte. Ed è con queste sue parole, con questo inno d’amore al suo lavoro, che le risponde, le risponde sempre, persino quando non conosce le domande, che oggi ho la possibilità di porre, a lei e a Francesca, qualcuna delle mie.

cucina
Sara Gnoli e Francesca Magnanti

“Alle mani di mio nonno” – dice la dedica – “che mi hanno insegnato il valore del tempo, della cura, delle piccole cose”. Partiamo da qui, Sara. Partiamo da tuo nonno, dalle sue mani, dalle cose che ti ha insegnato…

SARA: Antonia, inizio col dire che le mani sono per me lo specchio dell’anima di una persona, molto più che gli occhi. Le mani raccontano la fatica, la bellezza, i sacrifici, le carezze, il tempo che passa, gli errori, la forza, il coraggio e, in definitiva, con quanto amore hai attraversato il tuo tempo. Le mani di mio nonno erano mani tozze e rudi, di chi molto ha dato. Mani di contadino, anche se contadino non era, mani dalla dita corte per meglio afferrare la vita. Mani che mi hanno accarezzata mille volte col pensiero, anche quando austere e severe. Mani che mi hanno insegnato la via, senza mai ripararmi dai sassi sul sentiero, ma sempre pronte ad accogliermi nei miei infiniti ritorni. Mani a cui sono grata, infine, per avermi stretta più forte quando più ne ho avuto bisogno, e senza le quali io non sarei nulla di quanto sono, e non saprei nulla di quanto so dell’amore che si da e non chiede, e sempre resta.

Anche tu, Francesca, hai dedicato questo libro a una persona che ti è particolarmente cara. Si dice che le cose più importanti, nella vita, non siano cose, ed è bello notare quanto questo sia vero per molti, quanto l’amore, in ogni sua forma, rappresenti il motore di ogni nostra azione, l’energia e lo scopo di tutte le imprese in cui ci cimentiamo…

FRANCESCA: Io credo che ogni sentimento che proviamo ci renda delle persone migliori. L’amore, in particolar modo, come l’empatia e la cura, sono fondamentali sia se rivolte verso il prossimo, sia in tuto quello che facciamo. In cucina per me è la stessa cosa: preparare del cibo per le persone care è un atto di amore vero e proprio, è come un abbraccio, è nutrimento per il corpo e per lo spirito. In fondo, anche Dante Alighieri conclude la sua opera con “L’amor che move il sole e le altre stelle”… e di certo lui non sbagliava!

La tua “partner in crime” è Francesca Magnanti. Come vi siete conosciute e quando avete scelto di abbracciare, insieme, l’avventura di un libro di cucina che raccontasse i segreti di ben 500 ricette regionali italiane?

SARA: Io a Francesca ci siamo conosciute, o meglio “riconosciute”, ad un corso di cucina, in cui io ero docente e lei acuta e talentuosissima allieva. Abbiamo capito di poter essere complementari, di poter e voler dare il nostro contributo al mondo della cucina, che entrambe amiamo seppur da due punti di vista del tutto diversi, quello del professionista e quello dell’amatore, armonizzandone i contenuti. Dopo un intenso anno di confronto, prove, ricette, risate, notti in bianco e molto lavoro, è nato questo libro, che è un manuale di tecniche di cucina ed un ricettario insieme, per raccontare la nostra idea di cucina, al servizio di tutti quelli che la amano.

In letteratura esistono numerosi riferimenti al cibo. Marcel Proust, ad esempio, diceva: “Portai alle labbra un cucchiaino di tè in cui avevo inzuppato un pezzetto di madeleine. Ma, nel momento stesso in cui quel sorso misto a briciole toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario”. Non a caso, oggi, nell’immaginario comune, le madeleine sono spesso associate al celebre scrittore. Quali autori ti hanno ispirato, e quali opere continuano a ispirarti, in questa appassionata ricerca di specialità culinarie sempre nuove?

FRANCESCA: Non c’è un autore specifico che mi abbia ispirata nella ricerca di nuove specialità culinarie. Amo leggere molti libri, non solo di ricette, ma che parlino di cucina in generale. È la voglia e la curiosità di scoprire e imparare sempre cose nuove; di migliorare il mio modo di approcciarmi alle materie prime e agli ingredienti e di elaborarli, sia per me che per le persone per cui cucino. Mi piace leggere libri d’inchiesta sull’alimentazione, su come viene prodotto il cibo che portiamo in tavola, sugli allevamenti intensivi, gli OGM e i super-alimenti. E cercare di prendere spunto per creare una mia cucina quanto più possibile biologica e sostenibile, sperimentando ricette bilanciate e sane.

L’introduzione al libro parla di una cucina a “nostra misura”, in cui tanto uno chef professionista quanto un amatore possa muoversi con agevolezza, con facilità. Leggendola, ho pensato che in ogni cosa della vita dovremmo cercare la “nostra misura”, che sia grande ed espansa oppure intima, riservata. Vale nel lavoro, immagino, nel rapporto con se stessi e con l’altro, persino nell’amore…

SARA: È bella la lettura che ne fai, molto. La misura è qualcosa che mi ha sempre affascinata, che molto ha a che fare con il concetto di equilibrio secondo me, quindi di armonia, per conseguenza di bellezza. Credo che dovremmo cercare sempre la “nostra misura” del mondo, ciò che ci compone, il suono vero delle nostre parole, la ragione ultima del nostro fare. Per me la cucina, il mio lavoro, che è anche e soprattutto quello che sono, oltre quello che faccio, é la misura del mio mondo. Grazie alla cucina ho trovato il mio posto, I miei affetti, la mia capacità di donare al mondo, la dimensione intima e profonda del mio tempo. Anche il tempo ha una sua misura, Antonia. Così precisa, così sicura. Perché questo tempo sia sufficiente, è necessario far battere il proprio cuore dentro al proprio tempo, quello giusto per noi, nella misura esatta di ciò che siamo. Che tutte le cose belle hanno un tempo, una misura e forse anche uno spazio giusto, e dentro quella misura, quel tempo e quello spazio acquisiscono forse il valore del per sempre. Per quanto riguarda l’amore, che non riesco a raccontare se non dentro alla cucina, credo che capiti raramente di trovare la nostra misura dentro altre mani, altri occhi. Ma quando capita, ed è naturale come respirare, mangiare, ridere e cucinare, allora abbiamo ricevuto tutto ciò che ci serve davvero, e tutto ciò di cui aver cura.

So che ami viaggiare e nella triangolazione “cucina, libri, viaggi” riesci ad armonizzare tutti i tuoi interessi, i tuoi talenti. Se è vero che la cucina accorcia le distanze, e ci consente di macinare chilometri nello spazio di un cucchiaio e nel tempo che la mano impiega per portarlo alla bocca, accompagnami in uno dei tuoi viaggi e raccontami il sapore più particolare nel quale ti sia capitato di imbatterti fino ad ora…

FRANCESCA: Io amo moltissimo viaggiare, e probabilmente allo stesso modo mangiare. Perciò, quando sono all’estero, l’unica cosa che non faccio è cercare un ristorante italiano. Mi piace assaggiare di tutto, dai cibi di strada alle preparazioni più complesse e ricercate. I sapori che mi hanno più stupita, forse perché più lontani dal mio modo di cucinare, sono stati quelli orientali. In Giappone, ad esempio, ho scoperto la cura dei particolari e delle piccole cose: nei locali tipici, piccoli come una cucina di casa, una ciotola ricolma di ramen saporito e fumante; oppure, alle 5.30 di mattina, dopo aver assistito all’asta dei tonni di Tokyo, sedere a uno stretto bancone e osservare le mani veloci e sapienti di un cuoco che prepara del sushi che profuma di mare. Per non parlare poi della Thailandia, dell’odore forte e piccante della frutta che matura sui carretti al sole, del lemongrass e del coriandolo. È come una foto stampata nella mente in cui si mescolano sapori, odori e ricordi che non potrò scordare mai.

Devo ammetterlo: dopo aver letto la giusta disposizione degli alimenti nel frigorifero, e osservato l’immagine correlata, sono corsa in cucina per controllare di aver fatto bene, e che tutto fosse come avrebbe dovuto essere. Ci sono moltissime cose da sapere, da imparare, più di quante si creda. Brasare, lessare, glassare, saltare e grigliare, ad esempio, sono i primi metodi di cottura che mi vengono in mente, ma potremmo seguitare a citarne ancora moltissimi altri. Tu come hai cominciato? Chi sono stati i tuoi maestri, a parte tuo nonno?

SARA: Sono figlia e nipote di cuoche. Tra i miei primi ricordi, le cucine dell’albergo di famiglia, sul cui tavolo di inox ho fatto le mie prime torte, su cui mi sono seduta piangente per farmi mettere un cerotto alle ginocchia, dove mi sono arrampicata grazie ad una sedia per aiutare, nel maldestro modo di una bimba, a guarnire i piatti in uscita per il servizio. Mi volevano avvocato, io così versata allo studio dei classici. Invece sono partita, ancora piccina, alla volta delle cucine del mondo. Maestri ne ho avuti tanti, e tanti ancora ne ho, ed a tutti dedico giornalmente un pensiero e la mia gratitudine, perché ognuno mi ha insegnato qualcosa di fondamentale: una tecnica, una ricetta o la dose giusta di coraggio per stare in questo mondo. Ma se faccio la cuoca, è perché ho vissuto l’amore attraverso la cucina da sempre, perché l’odore di ragù vuol dire nonna e quello di vaniglia mamma, non riesco a separare l’idea che cucinare sia un gesto di amore, e, sinceramente, non vedo alcun buon motivo per farlo.

Si dice che chi ti ama ti chiede se hai mangiato. A me lo chiede sempre la mia mamma, non importa che io abbia, ormai, 32 anni. Il cibo resta la sua principale preoccupazione, insieme a “copriti, prendi freddo” o “stai attenta, non farmi stare in pensiero”. A te succede di chiedere alle persone che ami: “Hai mangiato?”; trovi, in questa domanda, il senso dell’accudimento, della cura dell’altro?

FRANCESCA: Sì, questa domanda ricorre spesso anche nella mia vita, perché anche se si è adulti il cibo rappresenta per tutti una sorta di conforto, per se stessi e per chi si ama. Essere “sazi” ha sempre significato, nella storia, stare bene, essere in salute e in un certo senso appagati. C’è cura nel preparare del cibo, c’è amore nel vedere qualcuno mangiarlo e soddisfazione quando chi mangia è felice.

L’altro giorno ho fatto il pane. Sembrerà cosa da poco, ma non l’avevo mai sperimentata. Era domenica e, come tutte le domeniche, il pranzo diventa un piccolo rito di felicità, la sua preparazione soprattutto, che ha a che fare con l’unione, la condivisione, la cura di cui parla tuo nonno. Mio papà cucina molto bene, io e mio fratello gli diciamo spesso che dovrebbe aprire una “risotteria”. Non so nemmeno se esista questo nome, ma lui è davvero superlativo quando si tratta di risotti. Anche la sua mamma, mia nonna, è bravissima in cucina, ha la capacità straordinaria di tirar fuori piatti squisiti partendo da ingredienti semplicissimi, ed è probabilmente vero che certe cose si passano, si ereditano, al pari del colore degli occhi o della forma delle labbra. Tornando al pane, è stato bellissimo Sara. Creare qualcosa dal nulla, lavorare sulla materia, come tu e Francesca scrivete nel libro, intervenire su di essa e trasformarla in qualcosa d’altro, di diverso. Il pane, soprattutto, che rimanda così tanto all’idea della vita, dell’essenzialità, a quelle cose belle calde e indispensabili di cui dovremmo sempre circondarci. A proposito di questo, esiste un piatto, una ricetta, una creazione che il tuo cuore ricorda con particolare affetto o, al contrario, con disappunto, con rammarico?

SARA: Che bello che tu abbia fatto il pane, Antonia. Il pane, il suo odore, la sensazione tattile del toccare questa massa elastica e morbida, che diventerà un dono di amore e di vita. Adoro la panificazione, da sempre, e di certo ad essa sono collegati alcuni dei miei primi tentativi di avvicinamento al mondo della cucina. Se debbo pensare ad una delle prime ricette che mi ha dato soddisfazione, è di certo stato un risotto, nello specifico quando, per la prima volta, riuscii ad eseguire correttamente il famoso risotto con foglia d’oro del grande Marchesi, un po’ come per un pianista riuscire ad eseguire bene un Chopin. La prima ricetta che ho amato, di mia produzione, fu sempre un primo piatto (in effetti la partita che più mi appassiona da sempre, quella dei primi) che proposi nel mio primo ristorante, un civeri di cinghiale che abbracciava un nido di tagliatelle ai tuorli, con un ristretto di frutti rossi e una spuma di salvia, ginepro e timo. Il bosco, per me. Di piatti che ricordi con rammarico non ne ho, ne ricordo alcuni che hanno richiesto uno studio più accurato, ed un tempo maggiore per ottenere un buon risultato, come alcuni dessert. Perché, come tutti i cuochi, i dolci mi piacciono molto, ma sempre più mangiarne che farne.

Lavori da molti anni nel settore della comunicazione. Che opinione hai dei programmi televisivi dedicati alla cucina – alcuni diventati anche format famosissimi, di tendenza – che stanno nascendo così numerosi, negli ultimi tempi, e che riescono a catalizzare l’attenzione di un pubblico trasversale per età, sesso, cultura?

FRANCESCA: La cucina è entrata con prepotenza nel mondo della televisione e ha avuto un grandissimo successo tra il pubblico di tutte le età, questo grazie anche alla personalizzazione che ne hanno fatto i personaggi famosi, al “lustro” che hanno dato a un mondo immenso e spesso poco conosciuto. Cucinare è diventato “di moda”. Non c’è un canale televisivo che non abbia almeno un programma di cucina, e anche le emittenti radiofoniche stanno seguendo lo stesso passo. Anche se c’è il rischio che il mondo culinario venga visto dal pubblico solo attraverso la lente dei grandi chef, e questo è limitante, io credo che il successo mediatico sia molto positivo e istruttivo e aiuti ad approcciarsi alla cucina in modo curioso, leggero, ironico e divertente.

In Grey’s Anatomy, la famosa serie televisiva americana di Shonda Rhimes, Derek Shepherd, il neurochirurgo capellone e affascinante, esegue un piccolo rito scaramantico prima di ogni intervento: indossa una cuffietta con sopra disegnati i ferry boat e poi dice “è un buon giorno per salvare delle vite”. Non so bene perché mi sia venuto in mente preparando le domande di questa intervista, ma mi chiedevo se anche tu avessi un tuo cerimoniale, una gestualità che ripeti prima della preparazione di un piatto, magari durante una cena importante…

SARA: Per me il rituale è sempre lo stesso, da vent’anni, e mi è necessario per riuscire ad entrare in cucina al massimo. Mi metto la divisa con grande attenzione, controllo che le maniche siano arrotolate con due mezzi giri ed assolutamente l’una pari all’altra. Poi mi lego i capelli, calzo il cappello e, mentre mi lavo accuratamente le mani, mi ripeto almeno tre volte il consiglio che diede Carducci ai suoi allievi, poco prima di un esame : “Ordine, chiarezza, semplicità”. Poi sorrido. E scendo in battaglia.

C’è un capitolo del libro “Il modo più facile di imparare la cucina regionale italiana” che si intitola: “Gli aiutanti in cucina”. Racconta delle spezie, degli aromi, che, a proposito di viaggi, tracciano la rotta dei paesi del mondo attraverso uno dei cinque sensi: l’olfatto, e non soltanto il gusto. Lo zenzero richiama i sapori orientali, ad esempio, e l’aneto quelli nordici, come tu e Sara ci spiegate. Personalmente, amo molto la cannella, la uso per i pancake, quando faccio colazione, o anche sulla frutta che mangio a merenda. Ne apprezzo il sapore, il profumo.  Ecco, se tu fossi una spezia, un aroma, quale saresti?

FRANCESCA: Se fossi un aroma sarei sicuramente quello dell’erba cipollina, un filo d’erba che regala un sapore unico, delicato e deciso allo stesso tempo. E che produce anche dei fiori bellissimi.

Ho letto che sei mamma di due bambini. Qual è il primo piatto che gli hai insegnato a fare e come se la cavano tra i fornelli?

SARA: Marzio ed Elena, i miei bambini, sono entrambi molto affascinati dal mio lavoro, anche se credo mi preferiscano in versione domestica, quando cuciniamo insieme. Marzio, che è un piccolo intellettuale, preferisce commentare il piatto finito piuttosto che cucinarlo, mentre Elena è una valente pasticcera.

Dire “buon appetito” è tra gli errori che il galateo segna in rosso, sebbene si tratti di un’abitudine comune, molto diffusa e difficile da sradicare. Perché l’etichetta vuole che non si auguri buon appetito ai commensali mentre si è a tavola?

FRANCESCA: Questa regola affonda le sue radici nell’aristocrazia, anche se il vero significato del divieto nel tempo si è un po’ perso. Per i nobili, infatti, il banchetto era un’occasione per conversare e stringere alleanze, non per abbuffarsi, cosa che invece avrebbero fatto le persone più povere, che vivevano quotidianamente nella penuria di cibo. Non era perciò appropriato, anzi quasi sconveniente, augurare più appetito di quello dovuto. Molto più consigliato augurare un più diplomatico “buon pranzo”.

Un’ultima domanda, Sara. Probabilmente te l’hanno fatta in tanti ma non posso esimermi. Sei una donna talentuosa, forte, poliedrica, eppure, in questa complessitàbella e sana, se dovessi associarti a una ricetta, sceglierei probabilmente qualcosa di semplice, qualcosa di genuino, la cui bontà arriva immediata, nella sua purezza. Tu, per te stessa, quale piatto sceglieresti? In quale ti sentiresti rappresentata?

SARA: Antonia, mi cogli impreparata invece. Ti rispondo con alcuni pareri, tra amici, colleghi, ed affetti, perché io proprio non riesco a trovare in me una risposta : le mie amiche dicono un tiramisù oppure un babà, per via della dolcezza, ma anche della forza del liquore e del caffè. Mio figlio dice pasta, patate e provola, perché è un piatto che ti fa sentire a casa. Mia figlia dice una carbonara, perché è buona ed ha molti sapori insieme (ma io credo che sia perché è il suo piatto favorito). I colleghi dicono una cacio e pepe, forte e decisa, ma anche molto difficile da realizzare bene. Io forse azzardo un Savarin, dolce di origine nordica, trasferito al Sud e trasformato in babà, dalla lunga lavorazione. Sapore netto, reso più docile da crema a frutta, da servire anche flambato. Semplice, e come tutte le cose semplici con diversi gradi di difficoltà.

Ancora una domanda, Francesca: c’è, e se sì qual è, un piatto che ti lega, nei ricordi, alla tua infanzia o a un momento che custodisci con affetto speciale?

FRANCESCA: Di piatti che mi legano a momenti felici della mia infanzia ce ne sono molti, ma uno in particolare lo custodisco con grande affetto. È la ricetta delle melanzane ripiene che preparavo insieme a mia nonna. D’estate, in vacanza dalla scuola, raccoglievamo delle melanzane violette lunghe dal suo orto, le tagliavamo a metà nel senso della lunghezza, e le scavavamo leggermente. Poi le riempivamo abbondantemente con una farcia fatta con la mollica del pane ammorbidita, del prezzemolo tritato, la polpa della melanzana scavata, spezie e un uovo per amalgamare. E sedevamo nella sua cucina, mentre cuocevano in un tegame. E il sapore delle melanzane ripiene per me è indissolubilmente legato alla serenità della mia infanzia.

Antonia Storace

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