ROMA – Vi abbiamo già parlato dello spettacolo Metamorfosi. Il viaggio e del perché riteniamo meritatissimi gli applausi che hanno scaldato lo Spazio Diamante nelle tre date in cartellone. Non potevamo quindi che cedere alla tentazione di avventurarci dietro le quinte per saperne di più. Abbiamo incontrato per voi il regista Raffaele Latagliata e l’attrice Agnese Fallongo. Continuate a leggere per scoprire cosa ci hanno raccontato…
Superato l’assedio di addetti ai lavori e affezionati, il primo a concederci qualche minuto e a soddisfare le nostre curiosità sul miracolo scenico di queste Metamorfosi è stato Raffaele Latagliata, regista dello spettacolo.
L’opera di Ovidio da cui è tratta la drammaturgia opera una dura selezione dall’enorme coacervo di miti classici raccolta del poema. In base a quali criteri si sono mossi gli autori e la regia per compiere la scelta?
Il nostro pensiero era quello di riuscire a conciliare due miti magari più noti, come Apollo e Dafne e Narciso ed Eco, con due un po’ meno conosciuti ma che fossero più teatralizzabili, come quello di Fetonte.
Proprio l’attenzione agli aspetti più scenicamente accattivanti, accanto alla solidità dei temi di fondo assicurati dalla potenza del mito e della tradizione, mi è sembrata centrale in questo spettacolo, insieme al forte valore simbolico conferito alla scenografia e agli oggetti presenti sul palcoscenico. Tutto, dai suoni alle luci, ci parla del viaggio di trasformazione presente nel titolo, invitandoci a sciogliere i vincoli e partire. In modo particolare le valigie, sinonimo di spostamento e di altrove quasi come il mare, diventano il carro del Sole durante l’ultima corsa di Fetonte. Non si tratta certamente di un caso, vero?
Non lo è, poiché l’idea è proprio quella di usare la valigia come elemento scenico che acquisisce un valore semantico sempre diverso: diventa carro, diventa gli alberi del bosco in cui viene inseguita Dafne e la fonte in cui si specchia Ovidio. La valigia rappresenta il simbolo del viaggio stesso per cui ci è sembrata una sorta di unità di misura per costruire i blocchi materiali e narrativi del nostro racconto.
L’utilizzo delle luci per accentuare il dinamismo dell’azione e circoscrivere cinematograficamente campi e primi piani è una caratteristica alquanto ricorrente nel teatro di questi anni, che non indulge verso la sperimentazione ardita anche quando si approccia a temi dal sapore del latino augusteo. Questa volta però potremmo dire che il parco luci si spinga verso un grado di consapevolezza piuttosto superiore alla media, sino a vivisezionare volti, forme e concetti sulla scena con estrema disinvoltura. Mi riferisco in modo particolare ad uno dei primi momenti dell’atto unico, in cui vari occhi di bue dalla sezione minuta tagliano rapidi come coltelli vari flash di vita dei personaggi in movimento.
È un po’ come il piano cinematografico. Si utilizzano le luci e le musiche evocando linguaggi prossimi a quelli del cinema. Avrà infatti notato che la musica si avvicina molto a quelle di un’ipotetica colonna sonora di un film, con lo scopo di restituire il forte potere emotivo che emanano le pagine di Ovidio. Per le luci vale sostanzialmente lo stesso discorso, ma applicato alle immagini, in modo tale che si riesca ad attualizzare il classico latino non con uno stravolgimento, ma con una restituzione della sua stessa forza poetica e lirica.
Alcuni arpeggi nelle musiche, come determinate pose iconiche degli attori potrebbero evocare suggestioni che restano nell’immaginario collettivo dopo un certo cinema di James Cameron. Sconfineremmo in eccessive banalizzazioni o si tratta effettivamente di citazioni intenzionali?
Una lieve citazione si può intravedere ma non mi soffermerei con troppa insistenza su questo aspetto. Del resto l’immagine di un amore sul mare è stata vivificata prepotentemente dal cinema hollywoodiano nei termini cui faceva riferimento e che tutti abbiamo ormai ben presenti da vent’anni. Ceice ed Alcione vengono trasformati in uccelli e la loro storia d’amore assume una forma ancora più pura e romantica di quando erano umani, ma si tratta di rimandi appartenenti prima di tutto alla poesia.
Sempre in relazione al messaggio ermetico che fa da sfondo allo spettacolo e che abbiamo riconosciuto nella valenza simbolica della scenografia, non possiamo evitare di estendere la chiave di lettura ai personaggi, che incarnano il carattere metanarrativo stesso del testo di Ovidio. Coerentemente con la struttura del racconto nel racconto, gli attori diventano continuamente altro dal loro primo ruolo drammatico: ora viaggiatori-narratori, ora dei, ninfe ed eroi raccontati nelle storie dei primi, infine cavalli forsennati al galoppo. Tentare di rendere teatralmente la struttura di un testo letterario complesso può rivelarsi un’operazione ad alto rischio, in questo caso però egregiamente riuscita. Come è stato possibile?
Nello spettacolo c’è un triplice registro: il primo è quello della narrazione in terza persona, a cui si giustappone presto il discorso diretto, ove i personaggi delle Metamorfosi sostituiscono letteralmente i viaggiatori per mare nel corpo degli attori e parlano di sé. Un terzo registro narrativo è infine quello in cui il personaggio utilizza la terza persona pur parlando in realtà di se stesso. Alla base di questo impianto drammaturgico c’è fondamentalmente il tentativo di conciliare questa originaria complessità letteraria con una necessaria e continuamente dinamica fruibilità per il pubblico di oggi.
Ricordiamo ancora che Metamorfosi. Il viaggio è una pièce nata per celebrare una ricorrenza, che ci porta molto indietro nel tempo: duemila anni ci separano infatti dalla data di morte del poeta latino. Eppure la prima al Teatro Caniglia di Sulmona è stata applaudita con calore il 10 marzo scorso. Un riscontro positivo che si conferma nell’atmosfera che si respira oggi allo Spazio Diamante e che riassume il successo di queste 3 date romane. C’è in cantiere una tournée?
La risposta del pubblico è effettivamente troppo positiva perché non si renda necessario un seguito alle date appena concluse.
Dopo il breve tempo che il regista ha potuto concederci, sottraendolo alle pressioni della macchina organizzativa, abbiamo potuto avvicinare anche uno dei protagonisti femminili del cast. L’attrice Agnese Fallongo ci ha svelato molti dettagli sulla gestazione di importanti produzioni come Metamorfosi, senza trascurare il sacrificio che comporta uno dei mestieri più belli del mondo quando si abbassano le luci della ribalta.
Come molte delle drammaturgie risultanti da un adattamento dai classici della tradizione letteraria, Metamorfosi. Il viaggio dimostra sin dalle prime battute di voler mantenere un solido legame con il testo, che in questo caso è un poema latino in esametri. Ciò implica una capitale importanza conferita alla parola e il compito principale di restituzione del valore di quest’ultima, dopo il lavoro degli autori, è puntualmente demandato agli attori. La scelta tecnica di fare a meno dell’amplificazione, almeno nelle date romane, ha reso questa operazione difficoltosa dal punto di vista vocale?
Io in genere aborro l’utilizzo del microfono, soprattutto nel caso della performance in uno spazio ridotto. Possono esserci però casi in cui essere amplificati è necessario. In quanto cantante sono anche attrice di musical e in questa forma di spettacolo troviamo solitamente la base musicale amplificata: questo impone logicamente l’uso del microfono per gli attori. Nello spettacolo sulle Metamorfosi la domanda è particolarmente pertinente, perché la musica era protagonista. Le partiture sono state composte appositamente per l’occasione da Patrizio Maria D’Artista, autore sulmonese anche produttore del progetto. Il ruolo delle musiche è realmente narrativo, perché ad esse si demanda il cambio degli nodi drammatici e dei quadri scenici. In questo spettacolo manca la danza, ma per il resto è estremamente dinamico e multidisciplinare fra recitativo, canto e musica. Per questi motivi infatti, nella prima data che abbiamo fatto a Sulmona c’è stato bisogno dell’amplificazione della voce che sarebbe stata altrimenti sovrastata dalla musica, soprattutto nei momenti topici. Resta il fatto, come ho già detto, che io preferisca la recitazione sostenuta dal solo diaframma, perché il teatro si è storicamente fatto sempre in questo modo e trovo che l’intercapedine meccanica dell’amplificazione alteri la voce, la renda più metallica e infici sulla verità del nostro lavoro. Dal punto di vista attoriale questo spettacolo è impegnativo, sia perché la recitazione va molto sostenuta vocalmente, sia perché il testo mantiene una grande fedeltà filologica a un’opera scritta duemila anni fa e che non era pensata per il teatro. Normalmente tendo a prediligere una recitazione di impronta più quotidiana e realista (Anna Magnani in questo senso è uno dei miei maggiori riferimenti) e Ovidio ha rappresentato certamente una sfida che credo però sia stata vinta. In genere sono diffidente anche verso la smania degli adattamenti dei classici, che può rasentare il grottesco, ma ben vengano le rivisitazioni nella misura in cui siano ben pensate e riescano a rendere fruibili e attuali grandi opere che potrebbero spaventare soprattutto i più giovani.
“Metamorfosi. Il viaggio” si muove su più registri narrativi che, costruendo il racconto nel racconto come nell’opera originale, moltiplicano di fatto le presenze sceniche dei 6 attori e accentuano l’atmosfera onirica della pièce. Il mondo antico getta le prime basi su quello che nel ‘900 diventerà lo studio psicanalitico del doppio (da Elena di Euripide al Sosia plautino, sino all’amore di Narciso per quello che vorrebbe altro da sé). Vivere questa schizofrenia dell’identità, particolarmente pronunciata nel lavoro del regista Latagliata, ha rappresentato uno sforzo attoriale diverso dal solito?
A me in realtà questo aspetto della recitazione diverte molto, a meno che non vada a scapito del momento di apertura emotiva del personaggio. In uno spettacolo ad esempio della durata di un’ora e mezza, il personaggio ha un excursus che prevede uno scarto emotivo che potrebbe dispiegarsi in un monologo che evidenzia un cambiamento o un’evoluzione. Nella maggior parte degli spettacoli l’interprete può concentrarsi sul proprio ruolo che è uno soltanto, mentre in Metamorfosi. Il viaggio ho trovato stimolante il passaggio del testimone narrativo tra personaggi che avevano il volto di medesimi attori. Si tratta in parte di un’operazione alla quale sono già abituata, in quanto come autrice di drammaturgie e monologhi teatrali amo costruire su di me delle performance che mi obblighino di spaziare tantissimo tra i registri interpretativi. L’importante in questi casi è che il variare della caratterizzazione non si risolva in un superficiale e macchiettistico esercizio di stile e che vi sia invece modo di penetrare emotivamente in ognuno dei diversi momenti che si vogliono rappresentare. Pur avendo in Metamorfosi la facoltà di muovermi tra i panni della narratrice, di Eco e di una delle ninfe che scherniscono Dafne, i passaggi in cui agli attori è lasciato libero il campo per un’apertura emotiva sono limitati e il mio ruolo è tra quelli che godono di maggiore libertà. La produzione è infatti strutturata come un meccanismo interno di un orologio in cui tutto deve essere calibrato perfettamente per il funzionamento dell’ingranaggio. Uno spettacolo sicuramente molto corale che com’è giusto che sia lascia poco spazio all’ego riferito delle potenziali prime donne, non rare nel mondo dello spettacolo, se pensiamo ad esempio ai virtuosismi dei tenori o delle soprano che attendono il momento dell’aria per dar prova del proprio talento.
Tutti i personaggi-narratori assumono a tratti il ruolo di ponte tra storia presente e storia raccontata, ma la funzione della viaggiatrice-Eco sembra essere in più occasioni quella di perno dell’impianto drammaturgico, poiché è il personaggio che di fatto ci porta dentro il mito e dipana molti degli snodi principali. Se a questo aggiungiamo che la ninfa è costretta dalla punizione divina di Era (nomen omen) a ripetere le sue ultime parole e che abbiamo potuto apprezzare anche squisiti momenti canori assolo e in duetto, capiamo la necessità di avere attori di grande versatilità per ruoli di questo tipo. È stata una tua scelta quella di voler essere Eco in quest’avventura?
Ho cominciato a collaborare con Raffaele quattro anni fa, casualmente. Non lo conoscevo, ma avrei scoperto in seguito che è un regista molto serio, che svolge ancora provini piuttosto selettivi per i suoi lavori. Lui collabora in Veneto con Fondazione Aida, Teatro Stabile di Innovazione, una realtà che esiste da trentacinque anni, produce spettacoli per l’infanzia ed è finanziata dal Ministero. Allora erano in corso dei provini per un musical diretto dallo stesso regista e Alessandra Fallucchi, attrice anche nel cast di Metamorfosi, che è stata in passato mia insegnante e aveva avuto modo di lavorare con lui, mi consigliò di presentarmi alle selezioni. Così andai a Verona accompagnata solo dalla mia valigetta e da molte incognite. Dopo una settimana seppi di essere stata presa. Da questo musical è nata una collaborazione con Raffaele che si è consolidata nel tempo, sino a che, qualche mese fa, mi disse che stava lavorando a un nuovo progetto. Quando ci sedemmo a tavolino per parlarne non sapevo neppure quale sarebbe stato il mio ruolo, ma poi mi fidai della sua scelta di propormi quello di Eco, che sarebbe calzato molto bene su un’attrice-cantante. Da lì è proseguito in gruppo il lavoro di scrittura del testo, per il quale la produzione si è avvalsa anche di un team di filologi di Sulmona, che ha svolto una rigorosa operazione in funzione del rispetto dell’opera originale. Aggiungo però che quello di Eco sarebbe stato comunque il ruolo che avrei scelto per me, dato che io amo molto la recitazione brillante, capace di toccare corde tragicomiche anche in situazioni drammatiche: caratteristiche queste, su cui un personaggio come Eco, una ninfa che paga la leggerezza del suo chiacchiericcio tendente al pettegolezzo, lascia all’interprete tutto il gusto del divertimento dal punto di vista attoriale.
Uno dei grandi pregi di questo spettacolo è quella di entrare nel cuore di temi caldissimi e ferocemente dibattuti nella nostra attualità politica e di farlo con la discrezione e l’intensità di cui solo la poesia è capace. Ci riferiamo ovviamente al tema delle migrazioni e della separazione dalla
terra d’origine, dalle proprie radici, con la speranza, vagheggiata all’orizzonte, di una capacità di amare che vada oltre le distanze reali e simboliche del mare. Quanto credi che sia importante la funzione sociale di un attore nel mantenere viva l’educazione alla bellezza e nell’erigere muri (non ponti in questo caso) contro la barbarie delle coscienze che ha gioco facile in tempi di crisi?
Questo è il motivo principale per il quale io faccio questo lavoro, che mi dà la possibilità di sognare sempre e di far divenire reale un’idea. Credo che nella vita dell’uomo le aspirazioni principali siano riconducibili a due: l’amore che porti alla costruzione di una rete di affetti familiari e poter svolgere un lavoro che appaghi le nostre vocazioni e ci dia soddisfazione. Posso dire che grazie al mio mestiere ho imparato ad osservare tantissimo, perché la realtà ha più fantasia di noi. Se si impara ad osservare quello che ci circonda, ci si accorge che i buoni ingredienti per un prodotto artistico ci sono già tutti. Questo vale per un attore, come per uno scrittore e per chiunque svolga un lavoro creativo. Le domande che molte volte mi sono posta in relazione al mestiere dell’attore sono: “Perché fai teatro? Per chi fai teatro? Chi te lo fa fare?”. Un artista deve avere ben chiare le risposte a queste domande. Se dividessimo il panorama in “grandi geni” e “piccoli geni”, laddove con la prima espressione ci riferiamo, senza giudizi di valore, a coloro che riescono ad essere compresi e apprezzati dal maggior numero di persone, la più grande soddisfazione sarebbe quella di essere riconosciuti come artisti tanto dal proprio ambiente di riferimento quanto dai profani e dalle persone semplici. La differenza tra un prodotto che funziona e uno che non funziona la fa risposta lapidaria alla domanda: “Questa cosa ti emoziona?”. Se la risposta da parte di chi ci osserva è “no”, dobbiamo porci seri dubbi su quello che stiamo facendo. Un gruppo di artisti che riesca a rendere fruibile un’opera classica anche per coloro che di norma preferirebbero il tifo della curva sud, può ritenersi soddisfatto anche a dispetto di possibili stroncature o perplessità espresse dalla critica o dagli addetti ai lavori. Il grande merito di autori come De Filippo, ad esempio, era quello di riuscire a parlare a tutti partendo da una materia prettamente popolare, veicolando il messaggio su più livelli culturali. A differenza di quanti mirano al solo profitto, credo vi sia modo di realizzare un prodotto qualitativamente alto che al contempo soddisfi ampi segmenti di mercato, senza tradirsi. Questa è la sfida di noi artisti. Sfida che il grande cinema ha dimostrato di saper vincere. Il teatro dal canto suo resta l’unico momento sociale insieme allo sport, in cui un uomo esce di casa per andare a vedere un altro uomo e assistere, in un ambiente più o meno gremito di suoi simili, al compiersi di attimi di vita non replicabili da alcuna forma di riproducibilità tecnica. Ecco perché a mio parere occorre battersi per la sopravvivenza del teatro.
Dopo la soddisfazione per il successo corale di “Metamorfosi” potresti darci qualche anticipazione sui tuoi prossimi lavori?
Il mio prossimo impegno teatrale sarà al Teatro Vittoria, insieme alla cui compagnia, costituita per lo più da giovani under 30, lo scorso anno abbiamo vinto il concorso “Salviamo i talenti”. Saremo in scena dal 17 al 27 maggio con uno spettacolo piuttosto complesso che dura più di due ore: “Un uomo è un uomo” di Bertolt Brecht, regia di Lorenzo De Liberato. Nel frattempo continua la tournée, con date da definire, dei miei due spettacoli di cui sono autrice e interprete: “La leggenda del pescatore che non sapeva nuotare”, diretto da Alessandra Fallucchi, e “Letizia va alla guerra. La sposa e la puttana”, con la regia di Adriano Evangelisti.
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