FIRENZE – Grandissime aspettative per l’evento Seasons di Chris Ellis in arte DAZE. Per la Maison Enrico Coveri, Daze ha progettato un’opera monumentale, piena di allegria, movimento e colore, nella corte interna di Palazzo Coveri. Così il graffitismo americano sarà d’ispirazione ai tessuti stampati per la collezione uomo donna primavera estate 2020. Noi vi diamo qualche “autorevole” anticipazione dalla presentazione di Vittorio Sgarbi e l’intervista a Silvana Coveri di Beba Marsano.
In occasione di Pitti Immagine 2019, la Maison Enrico Coveri presenta SEASONS, il murale nella corte interna di Palazzo Coveri realizzato da DAZE, uno dei numi tutelari del graffitismo americano. “Il risultato di una nuova, straordinaria collaborazione, nello spirito della maison che dall’arte ha sempre tratto alimento per la propria ispirazione”, dice Silvana Coveri.
Un progetto affascinante e in qualche modo rivoluzionario, in quanto per la prima volta la Street Art fa irruzione in un palazzo mediceo, emblema del più puro Rinascimento, quale è casa Coveri in Lungarno Guicciardini a Firenze. SEASONS è inoltre il primo grande affresco in un’area coperta creato dall’artista, i cui lavori fanno parte integrante del patrimonio di musei come il MoMA di New York, lo Smithsonian di Washington, il Groninger Museum in Olanda, il Suermondt Ludwig Museum di Aquisgrana.
Per la Maison Enrico Coveri, Daze ha progettato un’opera monumentale, piena di allegria, movimento e colore, da cui verranno tratti i tessuti stampati per la collezione uomo donna primavera estate 2020. In contemporanea la Galleria del Palazzo rende omaggio all’artista con un’importante personale. Il progetto è accompagnato da un catalogo con testi di Vittorio Sgarbi, Beba Marsano e DAZE edito da Bandecchi & Vivaldi, di cui pubblichiamo alcuni scritti.
A New Florentine Style? Daze, o del selvaggio addomesticato.
di Vittorio Sgarbi
Diversamente da quanto potrebbero immaginare i meno attenti, ho le carte perfettamente in regola per parlare di graffitismo e Street Art. Direi, anzi, che mi si dovrebbe riconoscere un ruolo non proprio irrilevante nell’avere sdoganato il fenomeno in Italia, quando ancora il riconoscimento della sua artisticità era tutt’altro che pacifico e cozzava contro opinioni di larga maggioranza, non solo fra i più tradizionalisti, ma anche fra i sedicenti progressisti, che lo ritenevano materia di prevalente interesse penale, in quanto reato ai danni di un senso del pubblico decoro non meglio specificato.
Ci voleva un’iniziativa in grado di smuovere le acque di un dibattito fino a quel momento stagnante, se non inesistente, magari sfruttando una contingenza favorevole. Arrivò nel 2007, quando, in qualità di assessore alla cultura del Comune di Milano, organizzai con Alessandro Riva Street Art, Sweet Art, la prima mostra che ha chiesto ai giovani artisti del settore, molti dei quali abituati a lavorare nella clandestinità, di realizzare opere all’interno di un’importante struttura pubblica (il PAC) così come erano abituati a fare per strada.
La contingenza favorevole, oltre il conseguimento dell’assessorato da parte mia, era quella che la mostra attestava, ovvero il fatto che l’iniziale fase del “writing”, quella che più faceva imbestialire i tutori del pubblico decoro, stava lasciando il passo a un’altra di più complessa natura formale, con notevole spazio concesso alla figurazione, che pure quando non apprezzata difficilmente poteva essere ancora considerata produttrice di semplici imbratti.
Il problema che la Street Art poneva era serissimo, riguardando la concezione stessa dell’arte di cui metteva in crisi soprattutto le interpretazioni di derivazione idealista. Scrissi in quella circostanza: «… non esiste un’unica arte possibile, con le sue convinzioni assolute, come si credeva in passato, ma una pluralità di tante arti effettive, ognuna delle quali rispecchiante un certo modo di concepirla, con i suoi valori, le sue funzioni, e con esso l’ambito sociale, culturale, materiale in cui tale concezione viene maturata. Come per tante altre cose nella vita, siamo liberi di scegliere il modo di concepire l’arte, condividere l’ambito in cui esso viene maturato, credere anche che una certa arte sia migliore di un’altra, ma sarebbe intollerante, ‘assolutistico’, in un certo senso ‘anti-democratico’, pensare che solo la propria arte sia l’unica ad avere il diritto di esistere e di essere riconosciuta».
Se però la mostra Street Art, Sweet Art fu possibile è perché in precedenza c’era stata una pietra dello scandalo decisiva ai fini del suo successo. Contrapponendomi alla giunta comunale di cui facevo parte, avevo infatti chiesto il vincolo di tutela per una “Cappella Sistina dei nostri giorni”, come provocatoriamente, ma non troppo, li avevo definiti: «I graffiti del Centro Leoncavallo, a Milano, rappresentano un’esperienza estetica esemplare di ciò che andrebbe considerato nella logica dell’’et et’, esprimendo una forma di rifiuto contro l’omologazione ai modelli della società ‘bella’. E’ dalla tensione di una lotta con la società che derivano queste espressioni liberatorie di creatività, le quali sono certamente favorite dalla condizione di emergenza, dall’essere nate in situazioni di conflitto. Non si può giudicare questa arte di strada come le opere da museo o da galleria, ha un’altra ragione d’essere, una diversa destinazione e funzione sociale. Potrà esprimere ideali estetici meno raffinati di quelli dall’arte ‘colta’, riferendosi all’immaginario collettivo che viene alimentato da una certa comunicazione di massa, ma sarebbe repressivo negare il suo diritto all’esistenza… Questi muri vanno, quindi, tutelati. Io non ho valutato, come molti pensano, le pitture murali al Leoncavallo in quanto critico, che per di più si riconosce meglio in un altro tipo di arte. Ho invece considerato il Leoncavallo da uomo di un’istituzione pubblica che su quei muri non deve vedere le incivili espressioni di barbùn politicizzati, incompatibili con il perbenismo borghese, ma riscontra una emergenza estetica, di immediata evidenza. Milano ha bisogno della loro testimonianza, fanno ormai parte del suo cuore pulsante. Se non vogliamo che l’arte sia solo roba da ‘salotti buoni’ e denaro per una classe di eletti».
Pur ritenendo benemerita la mostra Street Art, Sweet Art, non rimasi nemmeno insensibile al rischio che iniziative mossesi sulla sua scia avevano innestato nel “legalizzare” certe espressioni, finendo per farle rientrare entro i parametri istituzionali da cui pretendevano di tenere le distanze. Ecco perché difesi l’artista Blu, da me a suo tempo invitato a realizzare un murale al PAC, quando nel 2016 distrusse alcuni suoi lavori bolognesi per protesta nei confronti di una mostra – Street Art. Banksy & co.- che li voleva staccare dai suoi contesti d’origine per proporli negli ambienti prestigiosi, ma del tutto fuorvianti di Palazzo Pepoli: «E’ un paradosso, ma è del tutto legittimo che Blu distrugga quello che ha fatto, per impedirne ‘l’estraniamento’ nella ospedaliera sede museale, sradicando i graffiti dai luoghi dove sono stati realizzati e dove hanno il senso della storia, della libertà e della eversione. La rivoluzione non può essere portata in salotto. Meglio il cupio dissolvi… Blu ha rivendicato i diritti della sua illegalità. Non si può legalizzare ciò che nasce da un gesto anarchico».
Questa è la storia, che non va comunque dimenticata, o peggio, ignorata.
Se al giorno d’oggi, venendo al motivo principale di questo scritto, Daze, alias Chris Ellis, che decora ed espone negli spazi della Galleria del Palazzo a Firenze, nessuno si fa più problemi a considerare la sua arte anche dalle nostre parti, lo dobbiamo a determinati precedenti che hanno provveduto a battere il terreno così come ora ce lo ritroviamo sotto i piedi.
Daze, dunque. Anche se mantiene un aspetto fisico invidiabilmente giovanile, Chris Ellis appartiene alla generazione pioneristica del graffitismo metropolitano, quella che nella New York degli anni Settanta avanzati era già diventata l’esperienza artistica di gran lunga più interessante, scavalcando definitivamente una Pop Art ormai troppo logora e commerciale e un Concettualismo diventato così autoreferenziale da puzzare di elitarismo intellettualoide.
Aria nuova ci voleva, ma dove trovarla? Dove già l’Illuminismo aveva suggerito di cercare: se la tua è bene o male una società privilegiata e stai cercando motivazioni che non trovi più al suo interno, guarda al di fuori dei tuoi confini e scopri la bontà di ciò che consideri selvaggio rispetto ad essa.
Così era successo nella Parigi della prima Avanguardia, con Picasso, per dire del caso forse più evidente, alla ricerca continua di stimoli rinnovatori che potevano provenire ora dall’arte africana, ora da quella delle civiltà pre-romane, ora dai naïves suoi contemporanei come Rousseau il Doganiere.
Nella New York degli anni Settanta, il selvaggio capace di sollecitare il nuovo viene individuato nelle espressioni clandestine, apposte arbitrariamente su spazi e oggetti di proprietà altrui, all’inizio sotto forma di firme o di parole-slogan realizzate con le vernici spray e caratterizzate da una grafica piuttosto originale, multicolore e accentuatamente spigolosa – si pensi solo al Gothic Futurism di Rammellzee – in derivazione di una certa cultura visiva underground legata al rock, con cui i giovani delle zone più degradate riescono a dare segno della loro anarchica esistenza in un mondo ostile che li vorrebbe obbligare al silenzio dell’emarginazione. Una ghetto art, quindi, come inizialmente lo sono anche la rap music e la street dance, altre espressioni di questa cultura giovanile che si affermeranno negli anni Ottanta mettendo la gente di colore al centro della sua proposta e prendendo in tal modo le distanze dal rock che invece denunciava ancora una prevalenza “bianca”.
A New York, Daze, che è uomo di colore, è fra coloro che partecipano alla manifestazione più emblematica della prima stagione del Graffitismo, il writing apposto sui treni delle metropolitane, destinato a essere imitato da tanti anonimi in tutto il mondo, a rischio non solo della propria fedina penale, ma anche della salute (Rammellzee è morto anzitempo per via delle troppe esalazioni tossiche aspirate dalle bombolette spray) che vengono regolarmente tacciati di inciviltà, dal loro punto di vista anche comprensibilmente, dai benpensanti che ne facevano una questione di legalità e basta.
Poi, come già anticipato, il writing cede progressivamente il passo a forme di Street Art più complesse e articolate, anche più mature e diversificate espressivamente, nelle quali la differenza principale fra i muri urbani e le tele da parete la fanno in sostanza il formato gigante e la pubblica destinazione dei lavori. Non ha più bisogno di essere clandestina, la Street Art, viene accettata e può essere normalmente concordata con chi la autorizza, non ha più l’obbligo di riconoscersi entro i codici del linguaggio giovanile e nello spirito di ribellione che lo sosteneva, può anche guardare alla cultura dominante da cui una volta intendeva distinguersi radicalmente, non si propone più di lasciare solo il segno, di fare di una sigla di riconoscimento il motivo di una decorazione che può essere anche integrale, pretende di comunicare discorsi artisticamente e intellettualmente più ambiziosi per i quali non si rinuncia all’impiego di alcuno strumento disponibile, compresi, per esempio, quella figurazione e quel simbolismo a carattere contenutistico che sembravano ad appannaggio dell’arte a cui una volta ci si voleva contrapporre.
Anche di questo momento Daze è fedele testimone con i suoi lavori open air, per esempio a San Paolo del Brasile (2002) e Rio de Janeiro (2004), dove l’elemento writing non ha ancora smesso di svolgere un suo ruolo connotante, perso invece nelle decorazioni figurative “a flash combinati”, per così dire, lungo gli spazi di collegamento della stazione di Hannover (1995), negli interni del Mxco Restaurant a New York (2010) o negli esterni dei muri di Buenos Aires (2016), fra le più riuscite di tutta la sua produzione.
Se questa normalizzazione “from subways to studios” è avvenuta è perché galleristi e collezionisti, diventati i veri padroni dell’arte contemporanea, erano stati i più lesti di tutti a sollecitarla per rinnovare un mercato che altrimenti sarebbe rimasto troppo asfittico, trasformando ex-ghetto artists come Keith Haring e Samo alias Jean-Michel Basquiat, dicendo solo dei più noti, in autentiche, commercialissime star che piacciono alla gente che piace, come diceva una pubblicità italiana proprio di quei tempi.
D’altra parte, la normalizzazione è processo necessario di mediazione fra ambito e ambito quando non si vuole che rimangano separati fra di essi in maniera insanabile, e in ogni mediazione la rinuncia è presupposto per poterne avere dei vantaggi in altro senso. Insomma, se si vuole conseguire un guadagno aprendosi a qualcosa di differente dal sé bisogna avere l’accortezza di limitare gli aspetti che maggiormente possono determinare inconciliabilità con la controparte, come recita la regola più sacra, troppo spesso ignorata della buona convivenza. E’ quello che è successo con il Graffitismo e le sue successivi propaggini, dove ad alcune concessioni da una parte (la “sghettizzazione”, la legalizzazione, la considerazione da parte della critica più istituzionale, l’ingresso nel mercato) ne sono corrisposte altre dall’altra (il ricorso a forme e linguaggi non più a misura di ghetto, la riduzione della polemica contro la società eletta, la disponibilità a riconoscere anche i valori della sua cultura). Ciò che eventualmente si contesta non è la normalizzazione, ma l’eccesso di snaturamento che la sua mediazione può avere determinato a scapito di uno solo dei due fattori in ballo, di solito il più debole, come si ebbe modo di notare a proposito di Blu e della mostra Street Art. Banksy & co.
Eccoci quindi, dopo questi trascorsi, al Daze attuale, impegnato a quasi quarant’anni di distanza dai treni imbrattati di New York nella più classica e tradizionale città dell’arte che si possa immaginare, Firenze, la capitale universale del Rinascimento.
Lavorare a Firenze poteva essere un condizionamento difficile da sostenere per un artista del suo tipo, che avrebbe potuto istigarlo a una riproposizione provocatoria della ghetto art in chiave anti-classica, nel più puerile degli épater les bourgeois, o peggio, a esprimere forzata reverenza nei confronti dell’illustre passato toscano, dimostrando così di essersi normalizzato oltre quanto sarebbe stato lecito esigere. Con Seasons, invece, Daze è riuscito invece a muoversi in maniera pienamente intelligente, facendo del nuovo che non lo è troppo per il quale nulla di quanto si era già fatto viene rinnegato, ma senza nemmeno ricorrere a un ripetitivo classicismo di sè stesso che non sia capace di confrontarsi con i diversi stimoli che le situazioni dell’odierno possono offrire.
Riconosce con lucidità, Daze, di avere un talento maggiore a disposizione, il più coerente con il senso dell’arte così come concepito fin dai suoi esordi, quello di decoratore integrale, volto a fare della copertura sistematica un metodo di appropriamento estetico della dimensione fisica oggettualizzata, come ha fatto, ottenendone risultati fra i più convincenti della sua carriera, non solo con ambienti aperti e chiusi, ma pure con delle motociclette, anche con delle nostrane “Vespe”, in quel di Cortona. Ricorre a partiti grafici di fumettistica immediatezza e di sorprendente eleganza anche quando rivelano di tanto in tanto nostalgie per certi stilemi di una volta, procedendo per accumulazioni che sarebbero caotiche se un disegno dai contorni marcati non provvedesse a scandire e regolare il tutto, mentre la planarità del colore, per quanto vivacizzata e contrastata fra parte e parte, ha rinunciato ai toni accesi e stridenti del periodo writing o della maggior parte dei lavori on street, assecondando un certo senso dell’equilibrio, per certi versi di sapore classicheggiante, che traspare con evidenza da composizioni che vogliono avvolgere e risucchiare prima ancora di permetterti di osservarle.
Si tratta di un New Florentine Style, destinato ad avere un seguito anche oltre le pareti della Galleria del Palazzo? Chi vivrà vedrà.
Quello che mi pare si possa dire già da adesso è che si tratta di lavoro indubbiamente importante nella parabola espressiva di Daze, ormai umanamente maturo al punto di non avvertire più la giovanile necessità di esibire il suo essere “non colto” rispetto ai canoni estetici della società borghese.
Al contrario, Seasons propone un’espressione, per nulla snaturata rispetto ai suoi presupposti filologici più corretti, che si rivolge, non so se per la prima volta, ma in un modo certo non consueto in Daze, alla storia artistica che l’ha preceduta, alla Pop Art in primo luogo, in fondo amata e odiata matrigna anche del Graffitismo, fornendone una riproposta in termini aggiornati e personalizzati che tiene conto anche dell’evoluzione tecnologica del momento, per esempio della Computer Graphic.
Se così fosse, sarebbe indubbiamente una svolta. Se non lo fosse, ci si ritroverebbe comunque degli ambienti a testimoniare, si spera per molto tempo ancora, uno dei momenti di più ispirata creatività con cui Daze abbia mai avuto a che fare. Va sempre bene.
SILVANA COVERI di Beba Marsano
Nel 1964 Ira Kostelitz, collezionista e mecenate, chiede all’amico Marc Chagall una scheggia di paradiso. Un eden in miniatura per la corte interna della sua splendida residenza parigina alle spalle degli Champs Elysées. Una corte infelice, angusta, che con tre monumentali pannelli a mosaico l’artista trasforma in giardino segreto, cantico alla primavera della natura e dell’anima.
Oggi Silvana Coveri effettua un’operazione analoga. Con la complicità di Daze, leggenda del graffitismo d’oltreoceano (nelle collezioni del MoMA, ma anche in quelle private di Madonna ed Eric Clapton), ha cambiato pelle al cortile porticato di casa Coveri. Unica zona d’ombra in questa dimora dallo spirito pop, in un quattrocentesco palazzo mediceo sul Lungarno Guicciardinia Firenze. Anche qui quattro pareti per un murale realizzato con bombolette d’ordinanza; murale che divampa con ritmo atinte fluo sul tema delle Stagioni. “Se il colore – come diceva Enrico – non è un pigmento, ma uno stato d’animo, il tempo è un pretesto per celebrare la vita nel suo mutamento”, afferma Silvana.
Il risultato? Festa mobile nel cuore di un edificio rinascimentale, in nome di quella joie de vivre che ha fatto dello stile Coveri il sinonimo stesso di una sconfinata giovinezza.
La maison Coveri continua la sua love story con l’arte, gli artisti.
Ai tempi di Enrico con personalità quali Andy Warhol, che disegna il logo della maison, e Keith Haring, i cui pupazzetti affollano una fortunatissima collezione. Poi, tra i tanti, con Romero Britto, Marco Lodola, Maurizio Galimberti. Ora Daze. Perché lui?
“Daze non è un capriccio, né un colpo di fulmine, ma un ritorno di fiamma. Un artista amatissimo, che a intermittenza (ir)regolare intreccia il suo genio al mondo Coveri. La prima collaborazione a New York negli anni Novanta, la seconda qualche mese dopo a Firenze per un evento di arte galleggiante sull’Arno. Per quell’occasione realizzò il dipinto più grande dell’intera collezione di famiglia. Una tela lunghissima, rimasta a lungo arrotolata in mansarda in attesa di un’adeguata collocazione, che ora fa mostra di sé nel mio studio”.
A differenza degli altri, coinvolti in creazioni di stampe, mostre ed eventi pop up, Daze lascia un’opera che resterà. Un murale che cambia per sempre il volto della corte interna di Palazzo Coveri. Perché questo bisogno di consegnarsi al futuro in un brand che ha coltivato senza sosta la filosofia dell’attimo fuggente?
“Per una tensione al rinnovamento, in linea con lo spirito dinamico della griffe. Cambiare pelle, anche in natura, significa rinascita, rigenerazione. E spesso, nel quotidiano, per cambiare umore basta un vestito. Per Coveri la novità, la trasformazionecontinua sono uno stato vitale. E poiché nulla è per sempre, un giorno anche Daze potrebbe non esserci più”.
Il lavoro si chiama Seasons. Un omaggio alle stagioni, al tempo che scorre, fluisce. Una contraddizione per uno stile che incarna il mito dell’eterna giovinezza?
“La giovinezza è senza età. Una dimensione atemporale. Una categoria della mente e dello spirito che non ha nulla a che fare con il calendario. Le stagioni di Palazzo Coveri sono un inno alla vita, un’esplosione di gioia in ogni fase dell’esistenza. Inverno compreso. Che qui sembra non esserci, ma è solo dissimulato. Perché è sgargiante”.
Chi ha scelto il soggetto?
“Daze, naturalmente. Un artista deve essere libero di esprimersi come sente. Soprattutto lui, che ha fatto dell’immediatezza la propria cifra stilistica”.
Una scheggia di cultura metropolitana nel cuore di un palazzo mediceo. Operazione audace. Sarebbe stata nelle visioni di Enrico?
“Sì. Palazzo Coveri è l’ultima creazione di Enrico [scomparso nel 1990 a soli 38 anni, ndr]. Lo comprò e lo ristrutturò con gusto teatrale per mettere in scena il suo mondo. Io non ho cambiato nulla, solo incrementato le collezioni secondo il suo stile eclettico, che è pure il mio”.
Seasons veste di nuovo Palazzo Coveri. È dunque anche un progetto da indossare?
“Sì. Da questo intervento saranno tratte stampe per la collezione primavera estate 2020”.
Come nasce l’incontro con Daze?
Comprai un suo dipinto al Chiostro del Bramante a Roma. Lavorava ancora con Crash. Ma non sapevo neanche chi fossero. Mi conquistò la loro energia. Nel 1997, per la nostra prima sfilata a New York, li cercai per creare il marchio di passerella. Quello che avevano scelto non mi piaceva. Un rapporto di amicizia e complicità artistica nato da una seccatura.
Quali parallelismi tra Daze, leggenda del graffitismo a stelle e strisce, e la griffe Enrico Coveri, simbolo nel mondo di Italian style?
“Daze ha portato il colore nei graffiti così come Coveri lo ha portato in passerella, conquistando pureun’intellettuale come Françoise Sagan, che alle sfilate si annoiava sempre. Inoltre, fin dagli esordi con Crash, suo alter ego in pittura, Daze ha riempito il proprio universo di movimento, simboli e sfumature che sui muri di New York prima non c’erano. Ha contribuito, insomma, in maniera determinante a dare alla Street Art dignità d’arte. Un precursore. Come Enrico nella moda con intuizioni folgoranti, in largo anticipo sul futuro”.
Chris Ellis in arte “Daze
Chris Ellis in arte “Daze” è un artista americano che vive e lavora a New York. Ha iniziato come writer nella New York degli Anni Settanta mentre frequentava la Scuola Superiore di Arte e Design. I suoi graffiti hanno connotato il territorio urbano di quegli anni, dai muri ai treni ai vagoni delle metropolitane. Daze ha esteso la sua visione artistica oltre la strada e ha vissuto con successo la transizione dalle metropolitane allo studio; negli Anni Novanta troviamo le sue opere nelle gallerie di tutto il mondo. La sua prima mostra collettiva è stata Beyond Words, presso il Mudd Club di New York nel 1981, esponendo insieme a Jean-Michel Basquiat e Keith Haring. E i suoi lavori sono in musei come il MoMA di New York, il Brooklyn Museum, il New York City Museum, il Groninger Museum in Olanda, il Museo Ludwig di Aachen, lo Smithsonian di Washington,il murale per il terminal dei traghetti Star di Hong Kong, la progettazione di un’intera stazione ferroviaria di Hannover (Germania), il murale per il centro commerciale Vivo City a Singapore tra gli altri,nonché in collezioni private come quelle di Madonna, Eric Clapton ed Enrico Coveri. Inoltre, la sua carriera professionale comprende un lavoro che si estende oltre la semplice creazione d’arte, come le lezioni presso l’Università Hofberg del Bronx Museum, ed i laboratori giovanili con i bambini durante il Festival Hutuz a Rio de Janeiro (Brasile).
Con una produzione che ha coperto gallerie, strade e città in tutto il mondo, Chris “Daze” Ellis rimane uno dei più interessanti e prolifici artisti del nostro tempo.
Noi saremo al Vernissage e ve lo racconteremo, ad ogni modo qui info dell’evento e della mostra che potrete guardare anche in seguito.
INFO: Daze –“Seasons”
Palazzo Coveri – Lungarno Guicciardini, 19 – Firenze
Dal 13 giugno al 31 ottobre 2019
Mart –Sab 11:00-13:00 / 15:30-19:00
Ingresso libero
Vernissage 12 giugno 2019 – ore 18:00 – Su invito
In homepage Daze by Matthew Ligotti
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