Un ritratto dello stato (comatoso) del giornalismo italiano

Un ritratto dello stato (comatoso) del giornalismo italiano

ITALIA – Dalla salita di Mario Draghi al governo fino alla tragica scomparsa di Libero De Rienzo, si è voluto tracciare, andando ad analizzare le principali notizie degli ultimi mesi, un impietoso ritratto sullo stato comatoso, per non dire cadaverico, nel quale versa il giornalismo italiano da almeno 30 anni.

Chi vi scrive, lo fa da un paese nel quale il giornalismo non esiste più. Ho deciso di iniziare così questo articolo, con la forza estrema dell’iperbole, che fa assumere a questo pezzo i tratti e i connotati di uno sfogo e di un’intemerata più che di un articolo di giornale.

Un’invettiva che veste i panni dell’Avvelenata di Guccini, che assume su di sé tutta l’indignazione che cova da più di trent’anni, da quando il giornalismo ha scelto di essere megafono del potere, ventaglio che muove l’aria ai padroni della terra, ai capitalisti di questo paese che un bel giorno sono diventati capi di governo e rappresentanti delle istituzioni italiche in Europa e nel Mondo.

Non intendo sparare nel mucchio, alzare una cortina di fumo per rendere tutto nebuloso e indistinto; so benissimo che nel “giornalismo italiano” ci sono i giornalisti e che quindi non si può ridurre tutto a un “tutto”, appunto. Ci sono le “parti”, e come tali vanno riconosciute e valorizzate. Ci sono, soprattutto nelle televisioni e nei giornali locali, una miriade di giornalisti con la schiena dritta che svolgono ogni giorno con disciplina e onore il loro lavoro, magari vivendo sotto scorta o minacciati da questo o quel clan mafioso. So benissimo tutto ciò, e l’intento di questo articolo non è quello di fare becero qualunquismo.

Questa impellente necessità espressiva nasce proprio dall’esigenza di solcare questa differenza e di mettere alla berlina i “grandi” giornali italiani, ormai diventati comitati centrali di controllo per la propaganda dei loro padroni. Dei loro editori, quasi sempre impuri. Questa è l’intenzione che motiva il gesto, e da qui parto.

giornalismo

Dal lontano 1994, anno della discesa in campo del condannato per frode fiscale e otto volte prescritto, l’Italia vive in un cortocircuito democratico e in un conflitto d’interesse permanente. Quello che per quattro volte è stato il Presidente del Consiglio di questo paese, nonché l’uomo più potente d’Italia e uno degli uomini più ricchi d’Europa, ha posseduto, e attraverso i suoi figli continua a farlo, tre reti generaliste, il più grande gruppo editoriale nazionale, due giornali, il Milan, quote in consigli di amministrazione di banche importanti e potrei andare avanti ancora per molto. A questo si aggiunge una polarizzazione della “controinformazione” interessata prima rappresentata dal gruppo De Benedetti e ora dal gruppo Gedi (vedi Repubblica, la Stampa, Huffington Post, Tuttosport ecc) che non ha fatto altro che illudere l’opinione pubblica di avere un’offerta informativa libera e variegata, quando in realtà erano le due facce speculari di una stessa medaglia. Da quasi trent’anni l’informazione italiana ha scelto di abdicare al suo ruolo di contropotere, cane da guardia dei poteri, lente d’ingrandimento verso le storture formali e sostanziali di questa maledetta penisola. Si è scelto di diventare faziosi, e non partigiani.

Poche cose mi hanno colpito così tanto come negli ultimi mesi, ma partiamo dalla prima: la salita di Mario Draghi alla presidenza del consiglio. Accolta con le fanfare, gli squilli di tromba, le grancasse e i rulli di tamburi di tutte (o quasi) le redazioni dei giornali italiani. La narrazione messianica del Padre disceso tra i comuni mortali a risollevare le sorti di un presente impresentabile, di un paese rappresentato e descritto come un cavallo imbizzarrito che andava ripreso e domato con la sola forza taumaturgica del tocco. Ed ecco Mario Draghi. Ora filantropo e ora amante dello sport, ora silenzioso e timido e ora padre e marito amorevole, ora amico leale e ora lavoratore instancabile, ora aiutante dei vecchietti ad attraversare la strada e ora uomo rispettoso della fila quando va a fare la spesa (come se gli altri prendessero a calci in culo le persone che hanno davanti per farsi spazio), i giornali italiani hanno dato sfogo a tutto il loro onanismo informativo. Tutto si era placato. Tutto si era silenziato. La discesa in campo dello “Special one”, ma anche di “Super Mario o “Re Mario” (sì, è stato definito anche così), ha cullato le notti serene delle redazioni dei quotidiani nostrani. La schiena dritta, quella vera, era stata mostrata in tutta la sua prepotenza. Rimane ancora mitologica, e credo lo sarà ancora per molto, la supplica che una giornalista del Sole 24 ore in una conferenza stampa di aprile dell’anno corrente aveva rivolto a Sua Santità Mario Draghi: “se non ci fosse lei premier saremmo terrorizzati”. Mario Draghi, quindi, come colui che terrorizza il terrore, sfida il mondo a colpi di pistola ad acqua, batte i pugni sui tavoli europei e benedice le masse fischiettando allegramente la vie en rose. Bene, ma non benissimo.

Altra notizia che ha fatto toccare vette altissime, rappresentando un’istantanea iconica e una lectio brevis straordinaria di giornalismo per tutti quei giovani che si vorrebbero approcciare a questa professione, è stata quella riguardante Roberto Mancini che, dopo il trionfo in quel di Wembley con la Nazionale, veniva immortalato fuori una salumeria a Jesi, sua cittadina d’origine, mentre faceva la fila per entrare. Ecco, la notizia è che Roberto Mancini stesse facendo la fila senza prendere a cazzotti quelli che aveva davanti. A corollario di ciò, veniva messa in risalto tutta l’umanità del tecnico jesino, la sua modestia, la sua umiltà, la sua amorevolezza per i genitori anziani, il rispetto per il prossimo, l’attaccamento alle radici, il ritorno alla normalità della provincia, ai suoi ritmi lenti, compassati. Il salame, quello di sempre. La salumeria, quella di fiducia. Pare che abbia pagato anche il conto e che da fuori si sia alzata un’ovazione tutt’ora in atto. Ecco, i giornali hanno ricamato pure su questo.

Ma quella che mi ha più indignato, ed emotivamente scosso, è stata la notizia della morte dell’attore Libero De Rienzo. E come è stata trattata. Un uomo, un marito, un padre, un attore di 44 anni, con moglie e due figli, è morto da solo nella sua casa romana e l’unica porta che si è aperta nella discussione è stata “come è morto? – “di cosa è morto?” – “ha assunto droghe?”. Il cicaleccio, il pettegolezzo, la chiacchiera da portineria che diventa titolo da prima pagina. La morbosità per il dettaglio, per il particolare scandalistico, il gossip macabro e spietato su un cadavere che si presenta come mero ricordo per i suoi familiari, il giornalismo che diventa sexy shop della depravazione funeraria nel quale ognuno può scegliere l’attrezzo migliore per stimolare la sua provinciale ossessione feticistica. E’ morto un attore talentuoso, un padre e un marito amorevole, ma si è scelto di percorrere la strada della maldicenza, della lingua che batte sul tamburo della diffamazione postuma, dell’oltraggio del corpo morto. Della sua impossibilità nel rispondere, ma del doppio dolore inflitto alla famiglia. Tutto ridotto allo squallore miserabile del mormorio di piazza, ma tutto elevato a rango di opinione. Un giornalismo che ha perduto la sua ragion d’essere, l’umanità con la quale deve costantemente convivere, il rispetto per la notizia e non per la dietrologia. Un giornalismo che è diventato rotocalco patinato, che spia dal buco della serratura i drammi e le disperazioni dei suoi protagonisti. Un giornalismo che fa torto alla sua storia, che non può più tornare indietro, che non riesce più a provare vergogna. A chiedere scusa.

“La servitù, in molti casi, non è una violenza dei padroni, ma una tentazione dei servi.”

Indro Montanelli.

 

Claudio Troilo

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