L’ineffabile guastafeste. In ricordo di Antonio Pennacchi

L’ineffabile guastafeste. In ricordo di Antonio Pennacchi

ITALIA – A qualche giorno dalla scomparsa, ecco un ricordo del settantunenne scrittore pontino morto nella sua casa di Latina il 3 agosto 2021.

Io Antonio Pennacchi l’ho visto. Prima ancora di aver letto i suoi libri, prima ancora di essermi immerso nelle sue geometrie letterarie, io Antonio Pennacchi l’ho visto. Lo vidi la prima volta ospite in una noiosissima trasmissione politica, mi pare fosse su Rai Tre, ed era da poco partito il quarto governo Berlusconi. La liturgia stagnante del talk show aveva fatto sì che Pennacchi, insieme ad un altro dimenticabile figuro del cosiddetto “centrosinistra italiano”, dovesse in qualche modo rappresentare il contraltare dialettico agli altri due che ovviamente sostenevano le ragioni del neonato quarto governo Berlusconi; tutto secondo copione, insomma. Ricordo che il conduttore, garbato e gentile, come si è soliti essere nei corridori polverosi di via Teulada, ogni volta che dava la parola o faceva intervenire Pennacchi, cambiava espressione: impallidiva, retrocedeva, terrorizzato dal solo fatto che quella mina vagante prima o poi potesse trovare bersaglio.

Ricordo che Pennacchi quella sera indossava un cappello nero (il suo solito cappello nero, lo capii dopo), una sciarpa rossa non legata lungo il collo e i suoi consueti occhiali da vista tondi che andavano a posizionarsi sempre a mezz’altezza sul naso, come se tra l’occhio e la sua protessi dovesse comunque rimanere sempre uno spazio interlocutorio, critico, senza demandare e rimandare tutto al “potente mezzo”. Questo perché lo sguardo di Pennacchi è stato ostinatamente indagatorio, analitico, penetrante e soprattutto impietoso. Quella sua spigolosità che era capace di affettare in due l’atmosfera serena e paciosa di un qualsivoglia consesso pubblico o privato, derivava dal fatto che lo scrittore pontino non ha mai coltivato il deleterio feticcio di “ornare i fatti del mondo” – prendendo in prestito Tilgher – e di ripulire il linguaggio fino a farlo diventare un prestigioso pezzo da museo. Il linguaggio di Pennacchi è, invece, sempre stato vivo quindi conflittuale, contraddittorio, divisivo, lacerante, tagliente, urticante. Scudisciava le coscienze fino a farle sanguinare, riapriva le ferite pensate ingenuamente chiuse, solcava i più impervi sentieri del pensiero. Perché il grande intellettuale, e Pennacchi lo è stato, non riduce la risposta ma amplia la domanda e volge il suo sguardo verso un punto che non vede.

Lo scrittore pontino che, parafrasando De André, “aveva un ghigno lungo il viso come una specie di sorriso, non ha mai rincorso il successo. Il consenso plenario. Il plebiscito festante che rende onore al grande scrittore: tutt’altro. Fino alla sua morte, improvvisa e repentina come è stato il suo stare nel mondo, e non “al”, ha diviso tra ammiratori e detrattori. Perché Pennacchi non è mai stato una cosa sola e col retino della parola è andato a pescare l’alto e il basso, il sublime e il miserabile, lo straordinario e l’ordinario, “l’uomo morale” – dicendola con Fichte – e quello comune, il memorabile e il quotidiano. Tutto ciò lo troviamo magistralmente ne Il fasciocomunista, romanzo pubblicato nel 2003 e poi rivisto nel 2007, 2011 e 2017, in cui il contesto del romanzo psico-realista, contornato da una non celata impostazione naturalistica, conferiscono ai personaggi e alle situazioni quella coincidenza di opposti di cui sopra. Il capolavoro di questo romanzo, almeno nelle impressioni di chi scrive, sta nella costruzione del personaggio di Accio Benassi da una parte (protagonista della vicenda) e nella prospettiva etica che persegue dall’altra.

Il primo, protagonista dell’opera, narra la sua vicenda dall’infanzia fino alla leva militare. Benassi è esponente e capofila di un ambiente campestre e rurale che è quello della peLatina del dopoguerra, neonata conurbazione voluta dal regime fascista come tutta la zona dell’agro-pontino, e si ritrova a viaggiare tra Roma, Milano e Bari quasi sempre in autostop. Accio e il fratello Manrico, amato e accolto socialmente da tutti a differenza del primo, nella visione della città come pomerium entro il quale stare, sono il corrispettivo storico di Romolo e Remo per Roma. Il ripiegamento a premesse mitiche delinea tutto il romanzo e l’autore, con maestria e intuizione, traduce e trasla il significato antropologico-religioso della fondazione di una città in giochi retorici con cui si riaggancia il pomerium. Per Pennacchi nella Città convivono e coesistono i limiti imposti dai miti di fondazione e i tratti pragmatici ed esperienziali dell’urbanistica contemporanea. Il confine sacro caro alla Roma imperiale, quello che tracciava inesorabile il tuo starci dentro o fuori, con Accio e Manrico diventa confine sociale, politico e culturale. La diaspora irrisolvibile tra centro e periferia, sviluppo ed emarginazione, progresso e immoralità dello spreco, esistenza e ideali, “condivisione etica e isolamento dottrinale”. Ed è proprio in questo senso che Accio fonda la città, e vi affonda nelle benjaminiane derive “folklorico-antropologiche”.

La prospettiva etica invece che il romanzo vuole portare alla luce è quella di una famiglia dove vige e regna l’incomunicabilità, la totale assenza di dialogo, la massima distanza che però non è riducibile. Non ci si intende, non ci si fra-intende, non ci si ascolta e tantomeno comprendo, bensì tutto si sintetizza col trambusto, la confusione, il brusio, il cicaleccio, il rumore che copre la singolarità del suono e la sua dimensione portatrice di senso. Tutto ricade nell’indistinto, nell’indecifrabile, e ciò si può notare anche dai diffusi ripiegamenti monologici che investono gran parte delle narrazioni. L’isolamento dottrinale, quindi, diventa isolamento dialogico. Incomunicabilità. Assenza di reciprocità dialettica.

Con questo capolavoro della letteratura italiana, a mio modesto avviso ben più rilevante del famigerato Canale Mussolini vincitore del Premio Strega nel 2010, c’è tutta la pregnanza culturale dell’opera di Pennacchi e del suo lascito ereditario. Cogliere le “questioni primarie nella loro materialità”, facendo nostro un assunto marxiano caro al secondo Pennacchi, spogliarle dalla loro dimensione immaginale e ancor peggio immaginifica, andare “alle cose”, usare il linguaggio per quello che è senza averne paura o sussiego: questo è il suo testamento.

Antonio Pennacchi non ha mai fatto nulla per sembrare colto e intelligente, semplicemente perché lo era. Ma ha fatto di tutto per apparire iracondo e scoglionato perché l’intimità della tenerezza, come cantava qualcuno, è la cicatrice che si (di)mostra a pochi occhi. E’ morto Antonio Pennacchi. Viva Antonio Pennacchi.

 

Claudio Troilo

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