Mostre a Bologna: tre giovanotti per due dame

Mostre a Bologna: tre giovanotti per due dame

BOLOGNA – Un’interessante concomitanza si è venuta a creare a Bologna in questa primavera maggiolina entro tre gallerie private d’arte contemporanea tra le più sagaci della città. Ci piace tenerle insieme e presentarle quasi fosse un bel passo di danza con tre baldi giovanotti e due étoiles.

La prima gran dama è Louise Nevelson, protagonista riconosciuta della scena artistica newyorkese dal dopoguerra. Pur essendo nata nell’Ottocento proprio al suo scadere nel 1899, nel cuore antico dell’Europa orientale, a Kyiv in Ucraina, è stata personaggio totalmente americano, dove era emigrata da bambina con la famiglia, e del tutto moderna, o meglio d’avanguardia. Conosceva bene per averle toccate con mano le esperienze artistiche di punta, Cubismo, Costruttivismo, Espressionismo Astratto, ed era rimasta affascinata dalle culture precolombiane del Messico e del Guatemala. Aveva il respiro dello scultore, il senso dello spazio e del ritmo, la sensibilità acuta per la composizione, come una musica nell’ambiente. Con un gesto di sapore dadaista, trovava i suoi materiali in giro nelle discariche, negli scarti di legno destinati all’inceneritore.

Louise Nevelson

Una volta scelti e recuperati li utilizzava come materia prima per le sue creazioni che per finire parevano essere state immerse totalmente in un battesimo di vernice nera, o bianca, o oro. Ecco allora le sue famose pareti monocrome articolate in scatole contenenti oggetti trasfigurati e divenuti fantasma; un’architettura sacra che cela un mistero, una scenografia dal poderoso impatto prospettico e coinvolgente. Fino al 14 luglio alla Galleria Spazia sono presenti tre grandi sculture nere e numerosi bellissimi collage dei primi anni Ottanta, dei veri gioielli ottenuti con piccoli frammenti di carte e cartoni e legnetti con sapiente eleganza assemblati. Abbiamo qui la prova tangibile di cosa possa essere l’occhio e il tocco dell’artista che è capace di sorprenderci e di svelarci nuove forme, altri spazi, inedita poesia.

La seconda Dama  

Fin dai suoi esordi la Galleria P420, specializzata in Arte Concettuale e Minimal, sì è anche presa cura di rilanciare alcuni artisti famosi negli anni Sessanta e Settanta però col tempo usciti dai riflettori della ribalta. Come la tedesca Irma Blank , classe 1934, la nostra seconda Dama. Personaggio molto interessante e profondo che ha indagato a lungo e con rigore la complessità del tempo e il mistero dell’essere. Questa è la terza personale a Bologna e la prima dopo la sua recentissima scomparsa nell’aprile scorso. Cominciamo dalla fine. Nel 2016 la sua vita venne sconvolta da un ictus che le procurò la paralisi della parte destra del corpo. Irma con grande forza d’animo ha affrontato la traumatizzante esperienza della malattia così depressiva e invalidante e ha ripreso pian piano a disegnare con la mano sinistra concentrandosi non su ciò che aveva perso, ma su ciò che le era rimasto: come sempre succede c’è prima una mancanza, una sofferenza, e poi da lì nasce il gesto creativo, diceva.

Irma Blank

Il nuovo ciclo di lavori si chiama Gehen (andare): second life. Una seconda possibilità alla vita, muoversi di nuovo, “vivere l’andare”. La vita lascia la sua traccia, senza raccontare con parole consegna ugualmente la sua testimonianza, la punta del sismografo sensibilissima alle variazioni emotive attesta nel tempo l’esistere. Le parole sarebbero superflue e riduttive. “La punta della penna diventa un dispositivo che traduce un sentire. Anziché tradurre statui d’animo, queste linee mostrano un respiro, come se Blank abbia trovato un modo grafico di respirare, sempre uguale e sempre diverso” (Riccardo Venturi). Dalla Germania a 21 anni si trasferisce a Siracusa per poi stabilirsi a Milano negli anni Settanta.

Irma Blank

Il grande antico tema della comunicazione scritta è stato il fulcro del suo lavoro: una comunicazione fatta di segni grafici lasciati su di una superficie, però senza realizzare parole con un significato leggibile e di conseguenza un linguaggio codificato e significativo, ma “una scrittura purificata di senso, un segno autonomo che dà voce al silenzio”, come diceva lei stessa. Le sue incantevoli pagine scritte non posseggono alcun tradizionale significato linguistico; Gillo Dorfles le ha chiamate scritture asemantiche. Una scrittura silenziosa e misteriosa che nella ripetizione ossessiva di se stessa conduce alle radici dell’essere nel suo divenire profondo, esistenziale. Il tracciare segni comporta un’azione che si svolge nel tempo, e un gesto intimamente legato al respiro e al battito cardiaco: quanto di più personale e vitale si possa esprimere e quindi comunicare, anche senza parole. 

Irma Blank

I tre giovanotti

I tre giovanotti che stanno a corteo delle due dame espongono alla storica Galleria De’ Foscherari, e presentano opere accomunate dal tema del cambiamento nel tempo. Namsal Siedlecki, alchimista contemporaneo, usa il tempo che diventa autore della scultura evidenziando il suo corso e la sua potenza nell’opera Deposizione: una tela grezza rimasta immersa per sei mesi al buio in un pozzo di acqua sorgiva ricchissima di cristalli di calcite. La tela si è pietrificata velocemente passando dallo stato liquido a quello solido: un bell’esempio anche esteticamente di trasformazione vitale. Soffio è un’unica scultura composta di due elementi: una canna in ferro per soffiare il vetro e una testa in vetro, cioè il prodotto e il mezzo per ottenerlo saldati assieme. Ma c’è di più, molto di più, il terzo elemento fondamentale anche se invisibile: il soffio creatore che si conserva all’interno sigillato per sempre. 

Namsal Siedlecki, Soffio, cristallo, acciaio, materiale refrattario, 181x19x15 cm, 2023.

Bekhbaatar Enkhtur è il più giovane e proviene dalla Mongolia da cui trae spunti iconografici tradizionali come il lupo, qui presentato come un cagnone giallo giocherellone. Ma l’interesse si concentra sulla materia di cui è formato, cera d’api e argilla cruda, materiali organici fragili che non sopravvivono alla mostra mutando e deperendo velocemente nell’arco temporale. 

Bekhbaatar Enkhtur, Lupo, cera d’api, plastica, dimensioni variabili, 2023.

 

Luca Francesconi di Mantova, classe 1979, è il più ‘ecologico’, il più immerso negli aspetti della natura e dei suoi ritmi fondanti: come ben si capisce da Vomiting Man e Putrified Fish che colgono il processo metabolico naturale essenziale a tutto il ciclo della vita, dalla morte alla putrefazione alla fermentazione come via per accedere all’evoluzione di una nuova possibilità di esistere. Ma l’oggetto scultura (tant’è vero che viene subito in mente Alberto Giacometti) è Horse. Agricoltural Apocalypse , un’esile figura in bronzo ottenuta da un ramo con i suoi tralci che paiono le numerose lunghe scheletriche zampe mentre la grossa testolina ricorda quella di un serpente. Un mostro fragile che sa di quotidiano, e che potrebbe essere stato modello di un bestiario medievale. 

Luca Francesconi, Putrified Fish, bronzo, 46x16x5 cm, 2018.
Silvia Camerini Maj
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