Ancora qualche mese per ammirare al Museo del Tessuto di Prato (23 marzo=30 novembre 2024) la grande mostra che ci ricorda l’importanza storica di uno dei più geniali pionieri del Made in Italy.
Nel contesto della moda italiana del novecento, c’è stato un tempo nel quale riverberava in ogni dove il nome di Walter Albini. Per una dozzina di anni, lo stilista nato a Torino nel 1941, venne magnificato come uno dei talenti più puri del settore. La sua visionarietà non era apprezzata da tutti, ma nessuno poteva negare che per notorietà, creatività, coerenza e scelte fuori dall’ordinario fosse uno dei pochi stilisti italiani apprezzati dalla stampa estera che conta. Poi alla fine dei ‘70 la machine à idèe di Albini cominciò ad incepparsi o, come sostenne Gianni Versace subito dopo la sua scomparsa, la sua ostinazione a disegnare creare abiti per una donna che non esisteva più, produssero troppi attriti con i suoi primi referenti operativi e con gli intermediari culturali della moda. E allora, in un attimo la gloria sin lì accumulata si dissolse, gli industriali del prêt à porter si defilarono, la stampa specializzata lo dimenticò in fretta, la fuga in alcol e droghe divenne devastante.
Nell’83 oramai dimenticato Albini si spense nell’Ospedale La Madonnina (Milano) dove era stato ricoverato in condizioni precarie. Erano i primi anni funestati dall’apparizione dell’Aids; tra l’opinione pubblica circolava la chiacchiera che fossero gli omosessuali i diffusori del virus; Walter Albini era noto nell’ambiente per i suoi eccessi, e quindi la sua morte venne attribuita da voci cialtrone all’infezione provocata da quel virus. In realtà, persone a lui vicine dissero che furono le patologie legate all’abuso di alcolici a finirlo. È difficile oggi descrivere il terrore, l’angoscia che fin da subito annichilirono tra la gente il buon senso, figuriamoci la razionalità. In quei primi anni essere colpiti dall’AIDS significava essere degli appestati e inconsapevoli untori di manzoniana memoria. Penso che queste chiacchiere sulla morte causata dal virus abbiano contribuito alla rimozione di W.Albini tra gli addetti ai lavori e di conseguenza anche tra il largo pubblico. Tuttavia, chi per mestiere o interessi culturali esplorava il mito nascente del Made in Italy nella moda, non poteva fare a meno di incontrare l’autorevole figura dello stilista in ogni punto di snodo dal quale il prêt á porter italiano si distingueva dagli altri sistemi produttivi. Per questi personaggi, Albini fu il primo creativo della moda italiana a capire che la griffe o il brand doveva fare riferimento in modo diretto al creativo, in una totale identificazione. Per esempio, la grande Anna Piaggi sosteneva da sempre che fu lui a inventare il prêt à porter italiano ovvero a far capire agli industriali della moda l’importanza dell’autorialità e a cogliere la pregnanza del total look. E pensando a lui, per descriverne le performance creative, utilizzò il termine “stilista”, da quei giorni onnipresente nei discorsi moda del Bel Paese. Secondo altri, ma si trattava di una esagerazione, fu anche il primo a introdurre la musica nelle sue sfilate (in realtà successe che irritato dal continuo chiacchiericcio delle giornaliste, volendole concentrate sugli abiti della collezione, in svariate occasioni faceva alzare il volume della musica costringendole a tacere… Da Balenciaga, nei suoi anni d’oro, le chiacchierone avrebbero fatto una fine peggiore); e per altri ancora fu un innovatore visionario capace di anticipare ciò che oggi definiamo gender ovvero uniformità di tagli e colori per uomo e donna (collezioni per il brand Unimax). Con il senno di poi gli venne riconosciuta l’appropriatezza della silhouette di un nuovo modello o tipo di “donna” che Albini, in una intervista descrisse con queste parole:”Dai trenta ai trentacinque anni in su. Come esempio ho messo Charlotte Rampling e Katherine Hepburn. Magra ma con ossatura solida, spalle dritte e larghe, busto lungo, fianchi stretti, poco seno, testa piccola, capelli di media lunghezza tendenti al corto. Non eccessivamente sportiva, ma con l’aspetto di chi pratica sport, ambigua, durissima e forte, almeno d’aspetto. Fuma molto e viaggia, non necessariamente sposata. Lavora ma sembra permanentemente in vacanza. Ha stile, eleganza, misteriosa, sola, adattabile ma non coinvolgibile. Non necessariamente bella, ma sicuramente irresistibile”. Secondo M.L.Frisia autrice insieme a Stefano Tonchi di uno dei rari libri dedicati allo stilista (Walter Albini e il suo tempo; l’immaginazione al potere, Marsilio, 2010), l’idea di donna che vestirà Giorgio Armani sarebbe per l’appunto stata ispirata dall’immaginario di Albini. A tal riguardo mi permetto di aggiungere che, pur riconoscendo la sua importanza per il primo Armani, le differenze a livello di immaginario tra i due devono essere ricordate: in Albini non trovo la cifra di grazia e armonia declinata sapientemente da chi poi diventerà lo stilista italiano più importante e significativo di sempre; Armani a mio avviso ha inventato e diffuso un tipo di donna con tratti androgini ma depurati di aggressività…Una fusione di segni M/F tranquilla, pacificante, sia in un senso che nell’altro (sia per l’abito della “donna” che per “l’uomo”, voglio dire). Albini è meno sfumato. Traduce il desiderio di protagonismo e ribellione verso gli stereotipi borghesi, delle generazioni arrivate sulla scena della moda tra la fine dei sessanta e metà dei settanta arricchendo il suo stile spesso nostalgico ( gli anni venti e trenta per lui erano una vera ossessione) con qualità formali per quei tempi stravaganti, percepibili concettualmente come segni minimi di piccole rivoluzioni portatili, ad uso personale.
In realtà, per restare sul tema dell’immaginario modaiolo di Albini, oltre alla sua idea di “donna” occorrerebbe focalizzare il vero il perno centrale delle sue fantasie che a mio avviso era l’emersione della propria immagine intesa come simbolizzazione della fisicità del creativo, per trasmettere al suo pubblico l’idea di una perfetta sovrapposizione tra stile dell’abito e stile di vita. Il suo successo dipendeva molto dalla sua presenza concreta, dal suo modo di gettarsi nella mischia. A tal riguardo registrare nella fase propulsiva della sua carriera evidenti note di esibizionismo, di narcisismo è persino scontato. Ma non era un vanesio. Semplicemente Albini amava presentare i propri colpi di stile “mettendoci la faccia”, mostrandosi generosamente sui media come un creativo totalmente immerso nel suo stile, facendosi fotografare nelle lussuose residenze che curava personalmente nei minimi dettagli d’arredamento. Io credo avesse maturato la pertinenza del “metterci la faccia” del suo modo di vivere la moda, negli anni trascorsi a Parigi folgorato da un mito della moda del calibro di Coco Chanel (che pare abbia personalmente incontrato, anche se non penso che lei abbia dedicato particolari attenzioni al giovane futuro stilista italiano). La famosa couturiere, nelle prime fasi della propria carriera fu la testimonial ideale della propria maison. La sua avventurosa vita alimentava il mito che sopravanzava di gran lunga le sue reali competenze sartoriali. D’altra parte era Coco stessa a sostenere che, per avere successo, non fosse sufficiente fare abiti belli o perfetti ma fosse essenziale dare loro “stile”. E non c’è dubbio che con questo termine volesse fare riferimento anche al suo modo di dare forma alle esperienze vitali che attraversava da protagonista, apparendo grazie alle fotografie delle riviste in ogni dove.
Nell’Italia dei settanta del novecento questo protagonismo, esasperato dall’interesse crescente per la moda, come ho già detto, garantiva notorietà e fama. Ma produceva anche controversie e cortocircuiti comunicazionali. Gran parte delle giornaliste del mainstream non comprendevano le scelte di Albini e sottovalutavano gli effetti della sua visionarietà. Albini soffriva molto la mancanza di calore, di entusiasmo degli intermediari culturali che avrebbero dovuto certificare il senso del suo lavoro. Al punto che un giorno fece appendere un manifesto a Milano per fare sapere di aver bandito dalle sue sfilate le giornaliste. Non fu una mossa prudente. Come non lo fu anche la scelta insensata di voler sfilare soprattutto a Venezia invece che a Milano, costringendo stampa e buyer ad estenuanti trasferte, dimostrando ancora una volta di avere intuito significazioni pertinenti a ciò che verrà chiamato branding, ma troppo in anticipo sui tempi e fuori contesto. Sarà soprattutto con la globalizzazione e in un sistema moda dominato dalla potenza di fuoco delle holding del lusso, che un brand potrà scegliere, in momenti particolari, senza troppi rischi, la dèpense implicita nell’organizzazione di grandi sfilate evento fuori dal circuito ufficiale della moda, per ottenere vantaggi dalla valenza complessa, Negli anni di Albini invece, alle griffe italiane conveniva fare squadra intorno a Milano, per contenere i costi e favorire il lavoro della stampa, dei buyer nazionali e internazionali, dei trendsetter tra il pubblico. Albini era senz’altro un genuino talento creativo; molte sue intuizioni si dimostrarono efficaci, ma non aveva sufficienti attenzioni per le strategie economico/finanziarie e nemmeno il carattere per adattare le proprie visioni a scelte che coinvolgevano colleghi, industriali, direttori di testate senza le quali le collezioni rischiavano di rimanere una semplice somma di pur geniali outfit. Probabilmente l’errore più grave che lo stilista protrasse lungo l’arco della sua carriera fu di non aver capito che la creazione di un brand da parte di uno stilista implicava modalità organizzative e strategie economiche alla lunga più decisive della creatività visionaria. In altre parole, si fece mancare l’apporto di personaggi come furono Pierre Bergé per Yves Saint Laurent, Giancarlo Giammetti per Valentino, Sergio Galeotti per Giorgio Armani; ovvero di uomini pragmatici, estremamente sensibili e rispettosi del talento creativo, ma soprattutto abili dal punto di vista organizzativo e finanziario. A questi rilievi, segnalati da molti studiosi, aggiungerei una ulteriore congettura: lo stile di vita bohémienne di Albini non lo discuto, è stata una sua scelta e come tale va rispettata; ma bisogna riconoscere che l’ordine imposto dalla dimensione aziendale brand oriented non ha nulla (purtroppo) di bohémienne… Certo, a livello di superficie una griffe può alimentare costantemente il suo immaginario in tal senso, ma al di sotto o sopra di esso, decidetelo pure voi, l’ossatura strutturale di una azienda deve darsi delle regole tali da bilanciare la creatività con l’efficacia/efficenza del livello operativo.
Comunque dal punto di vista storico, senza dubbio deve essere riconosciuto ad Albini un ruolo decisivo per lo sviluppo del prêt à porter italiano di qualità. Sia per l’impatto che ebbero le sue idee sugli industriali della moda e sia per la cifra creativa delle sue visioni che malgrado gli alti/bassi delle collezioni a livello di mercato, ispiravano regolarmente tanti suoi colleghi.
Questi aspetti assolutamente rilevanti, sono stati presentati in modo esemplare in quella che sino ad oggi è senza dubbio la più grande mostra mai organizzata in suo onore. L’evento espositivo aperto al pubblico fin dal mese di marzo al Museo del tessuto di Prato, intitolato Walter Albini, il talento,lo stilista, a cura di Daniela Degl’Innocenti e di Enrica Morini, ci ha offerto sia una ricca serie di elementi orchestrati ad arte dallo stilista e sia una visione olistica del suo modo di dare forma alla creatività nell’abbigliamento di lusso seriale quindi accessibile o come si diceva in quei giorni, “democratico”, Infatti, vi si possono ammirare i disegni grazie ai quali il creativo catturava le sue intuizioni sull’ideale femminile del momento e ovviamente gli abiti che rappresentavano la provvisoria soluzione finale all’inesauribile domanda di bellezza, eleganza, distinzione che caratterizza a livello di soggettività, il cuore pulsante della macchina desiderante della moda. Non mancano le immagini che lo resero famoso e protagonista in prima persona sui media e per chi ha affinato lo sguardo tanto da cogliere la sostanza espressiva e materiale di una forma, gli abiti in mostra rappresentano una straordinaria testimonianza di uno dei punti di forza dalla moda italiana ovvero la qualità dei tessuti. L’appropriatezza della relazione tra sostanza espressiva e la struttura degli abiti creati da Albini è difficile da descrivere a parole quanto a livello di qualia, per citare le Neuroscienze, risulta direttamente percepibile. Basta imparare a vedere, e a tal riguardo la mostra di Prato, per come è stata allestita, rappresenta per il pubblico più sensibile alla moda, un campo d’esperienza di raro impatto.
Ma oltre ai piaceri e alle “piccole scoperte” percettive diffuse dalla grande mostra, in questo caso più di altri, raccomanderei la lettura del catalogo edito da Skira. I saggi analitici di Paolo Volonté,(sul ruolo dello stilista nel contesto del prêt à porter), di Enrica Morini (sugli esordi e gli anni dei primi successi), di Daniela degl’Innocenti (sulle sfilate più importanti e sulle collaborazioni finali), di Margherita Rosina (sui tessuti che personalmente Albini disegnava/decorava), di Antonio Mancinelli (sulla moda maschile), di Bianca Capello (sui gioielli per la moda dello stilista), di Samuele Magri (sugli accessori), di Alberto Zanoletti (sulle famose case di Albini e la decorazione dei loro interni) e infine di Lucia Miodini (sul corpus fotografico, fondamentale per l’emersione dell’immaginario dello stilista), ci restituiscono un percorso critico dell’avventura creativa di Albini tra i più articolati sino ad ora prodotti e quindi fondamentale per chi ama conoscere in profondità i personaggi ed eventi che hanno dato lustro alla moda italiana.
Dal 23 marzo al 30 novembre 2024, la Fondazione Museo del Tessuto celebra lo stilista Walter Albini con una grande mostra curata da Daniela Degl’Innocenti.
INFO Museo del Tessuto di Prato
- Walter Albini: Il talento, la creatività, lo stile – 9 Settembre 2024
- Gli abiti sostenibili vestiranno il mondo? – 20 Maggio 2024
- Roberto Cavalli (1940-2024): La stravaganza al potere – 17 Aprile 2024
Senz’altro una delle più belle mostre di moda che ho visto. Walter Albini era un genio dell’arte applicata. Non sapevo che fosse morto così giovane e nemmeno che lo avessimo dimenticato. Lui e le sfilate della Sala Bianca di Giorgini sono riportate su tutti i manuali che ho letto. Parlare di rimozione mi sembra eccessivo.
Per me era stato dimenticato anche prima della sua morte e questo lo faceva soffrire
Lucio ha fatto un commento interessante. Effettivamente l’eleganza troppo accentuata di W.Albini verso la fine dei settanta interessava poco i clienti della moda pronta. Anche la sua Alta moda non ebbe successo. Cosa doveva scrivere la stampa?
Walter Albini uno sprovveduto dal punto di vista finanziario? Non ci credo! per quanto ne so conosceva benissimo il mondo industriale che stava dietro la moda pronta. E se convinse le aziende più importanti a finanziare le sue collezioni significa che conosceva le regole del gioco. Non è più probabile che il suo stile sia apparso alla fine dei settanta di poco appeal per i consumatori e che questa crisi di mercato lo abbia isolato? Molti visionari vanno incontro a questi buchi neri e ne escono mettendosi in discussione e non cedendo a depressioni o incolpando chi gli sta intorno di non capirlo.