ROMA – Nel 2015 ricorre il centenario della nascita di Mario Monicelli. Un suo ricordo anche in vista della Festa del Cinema di Roma giunta alla decima edizione.
5 anni fa si gettò dalla camera dell’ospedale dove era ricoverato all’età di 95 anni, quest’anno Mario Monicelli, il 16 di maggio scorso, avrebbe compiuto 100 anni. Una morte quasi paradossale, potremmo dire non in linea con il suo cinema, visto che il regista chiedeva ai suoi sceneggiatori di scrivere sempre “scene figlie”, poiché detestava le “scene madri”, quelle strappalacrime o troppo melense: il dolore come l’amore – pensava – mostrati nelle loro manifestazioni violente diventano ricattatori.
Monicelli è stato con i suoi film e sceneggiature uno dei protagonisti indiscussi di quel filone del cinema, la commedia all’italiana, volto a descrivere i difetti degli italiani, nella speranza che il loro riconoscimento avrebbe contribuito a ridurne alcuni, e nella certezza che questo cinema sarebbe stato capace di dialogare trasversalmente con la società e di ottenere successo presso un pubblico molto ampio. Il suo sguardo sull’Italia del dopoguerra attraverso il registro comico-grottesco della commedia disincantata, feroce e al tempo stesso affettuosa nei confronti dei personaggi descritti, si rivolge costantemente agli italiani, ai loro connotati regionali, popolari e medi più che a esempi unici o eroici dell’italianità.
Pur essendo stato in alcuni periodi non troppo apprezzato dalla critica, nello studiare la biografia del regista si rimane stupiti nel costatare che Monicelli è stato per sei volte candidato al premio Oscar, che ha avuto un ruolo fondamentale nell’affermazione nel cinema di Totò, una maschera del nostro cinema da tempo rivalutata dalla cultura italiana, che ha vinto il Leone d’Oro con La grande guerra, il festival di Berlino più volte come miglior regista (Padri e figli 1957, Caro Michele 1976, Il marchese del Grillo 1982), diversi David di Donatello e Nastri d’Argento come miglior regista e migliore sceneggiatore.
“Tutti i miei film sono percorsi da un sentimento di sconfitta, sono tutti film comici che finiscono col fallimento dei protagonisti”, senza un lieto fine. Così Mario Monicelli spiegava i tratti essenziali del suo cinema che ha contribuito a rendere noti anche all’estero i film italiani con opere come Guardie e ladri, I soliti ignoti, La grande guerra, L’armata Brancaleone, Speriamo che sia femmina, e Amici miei, solo per citarne alcuni.
Il regista vanta ben 65 regie e 90 sceneggiature. Quella di Monicelli è stata una vita dedicata interamente al cinema, con una media di quasi un film l’anno. Attraverso la sua opera si possono toccare molti temi centrali della discussione sul cinema. Uno di questi è il rapporto cinema – letteratura e l’evoluzione del lavoro d’intertestualità poiché delle 90 sceneggiature da lui firmate, un terzo sono ispirate a opere letterarie. Le idee di Monicelli scaturiscono fondamentalmente da una personale rilettura delle opere letterarie che nelle sue mani si trasformano in commedie ironiche e grottesche in cui di solito si raccontano le vicissitudini di antieroi e – come dicevamo – dei loro fallimenti. In Monicelli la letteratura è un serbatoio d’idee da utilizzare molto liberamente. Il suo scopo non è la messa in scena di un testo letterario ma un suo uso molto strumentale in cui sono possibili aggiunte (personaggi completamente inventati), totali trasformazioni o omissioni di interi capitoli dell’opera originale.
Tutto ciò è fortemente influenzato anche dalla sua biografia. Monicelli nasce a Roma nel 1915, non a Viareggio come alcuni hanno scritto, ma a Viareggio passa tutta la sua giovinezza. Uomo di vasta cultura, laureato in Lettere a Pisa, è circondato da un ambiente familiare molto vicino agli ambienti letterari. Il padre Tommaso (anche lui suicida), giornalista e direttore di giornali come “il Resto del Carlino” e l’“Avanti!”, è anche critico teatrale e drammaturgo, il fratello Giorgio è traduttore e editore, e l’altro fratello Furio scrittore. Imparentato con la famiglia Mondadori (la sorella del padre sposa Arnaldo), ha come principali amici del periodo giovanile Alberto Lattuada e Vittorio Sereni.
Il metodo di lavoro stesso di Monicelli è interessante. Si sentiva più sceneggiatore che regista. Nell’era analogica in cui la postproduzione aveva un ruolo meno importante di oggi, Monicelli pensava che tra le tre fasi della lavorazione di un film (preproduzione, produzione e postproduzione) la più importante fosse la prima e in particolare la sceneggiatura che portava via almeno sei – sette mesi di lavoro: “Ho sempre rispettato molto le sceneggiature… non cambiando mai nulla durante le riprese…quando arrivavo alla fase delle riprese era il momento in cui praticamente avevo già risolto tutto”.
Un elemento che aiuta invece a decifrare la mentalità di Monicelli è il ritenere il cinema “un’arte minore” nel senso che le responsabilità del prodotto artistico sono condivise con altri. Fu ovviamente regista nel vero senso della parola, un caposquadra amato e rispettato da tutti i membri delle sue troupe. Un altro aspetto è il desiderio di fare un cinema rivolto al pubblico e non rivolto ai registi o agli addetti ai lavori; la convinzione che quelle sue 4-5 opere da tutti ritenute importanti siano nate anche dalla quantità e dal gran numero di film girati.
Noto per il suo cinema divertente prevalentemente basato sui dialoghi brillanti e le battute, un’altra componente centrale del suo cinema è il rapporto tra cinema e storia. Monicelli da “Totò cerca casa” in poi descrive costantemente il contrasto tra la semplicità dei protagonisti e la drammaticità degli eventi che hanno caratterizzato il Novecento come l’urbanizzazione, l’industrializzazione, la violenza e il terrorismo. La guerra è ritratta molte volte e anche nel suo ultimo film Le rose del deserto, girato a 90 anni sullo sfondo immenso e inquietante della seconda guerra mondiale, del deserto, della cultura araba, del fascismo, dell’italianità e naturalmente della commedia all’italiana.
Proprio l’ultimo film che ho avuto modo di studiare a fondo, Le rose del deserto, ci aiuta a capire ancora una volta il suo scopo. Il suo scopo è sempre fare lo stesso film: un film che ritrae un gruppo (in questo caso dei giovani militari) alle prese con cose troppo grandi per poter essere dominate; un insieme di antieroi destinato al fallimento e senza un lieto fine; un gruppo costretto a subire le conseguenze della storia e le decisioni di una classe dirigente inetta e arrogante, che nel caso specifico manda senza scrupoli a morire decine di milioni di persone. I protagonisti del film non sono eroi ma affrontano il loro destino con dignità, con la forza dell’amicizia e del gruppo e direi anche sostenuti dall’esempio delle persone che, pur diverse da loro, in fondo ammirano come il frate (per sua fede autentica, pragmatica e priva di formalismi), il maggiore (per la sua totale estraneità alle meschinità della vita) e il giovane tenente (per la sua intelligenza e la sua cultura). Monicelli non s’immedesima con i suoi personaggi ma li guarda con affetto percorrere la storia controvento, e il suo cammino è un po’ a ben vedere quello di molti di noi alle prese con le contraddizioni stridenti del mondo attuale.
Un’ultima citazione tratta dalle tante interviste di Monicelli: “La commedia all’italiana è finita, quando i registi hanno smesso di prendere l’autobus”, così dichiarò il maestro, criticando la poca voglia dei nuovi registi di osservare e capire l’uomo comune che tanta attenzione destava nello sguardo di Monicelli.
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