Il primo approccio alle sontuose forme degli abiti creati da Charles James mi fu donato da una celebre immagine scattata da Cecil Beaton nel 1948.
Otto incantevoli ragazze stanno riposandosi in una grande stanza, contigua suppongo, al salone delle feste di un palazzo neoclassico. Le eleganti figure mi rimandano ai quadri di Boldini (Ritratto della contessa Doyen – 1910) ma ancor di più a John Singer Sargent (The Wyndham Sisters – 1899; Mrs. George Swindom – 1882).
Ricordo lo stupore che provai nel percepire la maestria del fotografo, geniale nella configurazione di una paradossale unità duale tra abiti complessi come un maestoso energico edificio e la leggerezza dei corpi in essi contenuti. Le modelle sembravano recitare in modo sottile e pacato i moti dell’anima implicati dalla situazione. Sappiamo che una festa di gala può far emergere risvolti psicologici molto intensi. La manifestazione esteriore che Beaton è riuscito a trasformare in una immagine esemplare, l’avvicino a ciò che nella lingua giapponese si definisce haragei ovvero a una tecnica di recitazione che insegna ad affinare i gesti evocativi di intense emozioni in funzione di una estetica della ritualità e del controllo espressivo.
Non sapevo ancora che Beaton e James in realtà si conoscessero fin da adolescenti avendo frequentato la stessa scuola (lo scoprii leggendo il libro/catalogo, curato da E. Coleman’s, uscito come protesi culturale della prima grande mostra retrospettiva nel 1982). Ma è certo che nessuno come il celebre fotografo di moda ha messo in scena e ripreso le straordinarie creazioni del couturier con una evocazione così efficace del “Calculus of Fashion” che James amava privilegiare, anche a costo di ritardare le consegna degli abiti alle clienti e dei devastanti attriti con uomini d’affari e aziende della moda con le quali, nella sua maturità creativa, tentò di collaborare.
C’è da dire che Charles James aveva la propensione ad interpretare la creazione di un abito come un artista ispirato si perde nell’oggetto fantasmatico che attraversa l’opera in via di configurazione. Aspirava a far evolvere il mestiere del sarto artigiano appellandosi ad euristiche innovative che immaginava utili per rimuovere il pressappochismo dalla pratica professionale che aveva scelto, dando però ad essa una finalità “impossibile”: la perfezione dell’abito, ovvero l’esatta corrispondenza tra la sua forma e il corpo senziente che ne costituisce il limite ma anche la possibilità di trasformarla in un “oggetto” vivo.
Non sorprende più di tanto che il suo programma di ricerca, all’inizio degli anni cinquanta, quando divenne chiaro che il successo economico richiedeva un orientamento pragmatico e subordinato alle logiche della serialità produttiva, entrasse in crisi.
Charles James voleva l’eternità per i suoi abiti. Per contro, la moda del periodo stava accelerando in direzione della “distruzione creatrice” che nell’arco di pochi anni l’avrebbe proiettata su figure femminili assolutamente estranee all’idea di Donna implicita nel discorso della couture tradizionale.
La mostra al The Costume Istitute (The Metropolitan Museum of Art – New York)
Charles James: Beyond Fashion, ha preso in esame tutte le fasi dell’esperienza creativa del leggendario couturier anglo-americano (approssimativamente, dalla fine degli anni Venti fino ai Settanta del Novecento). Senza dubbio è stata la più completa mostra mai organizzata sulla complessa e innovativa esperienza di un personaggio introverso, eccentrico, complicato ma anche inflessibile nella ricerca della perfezione e nella interpretazione magistrale della sintassi specifica del processo ideativo e costruttivo dell’Alta Moda.
Vale la pena di ricordare ancora che Charles James si considerava un artista e al tempo stesso un ricercatore impegnato nel trovare la formula esatta della forma perfetta dell’abito esemplare. Aldilà degli insight del pensiero tipici di una personalità fortemente attratta dal piacere delle bellezza, il suo approccio all’oggetto moda era tipicamente multidisciplinare: nei suoi abiti vedeva relazioni con la scultura, l’architettura; aldilà della forma cercava di indovinarne la matematica nascosta, una sorta di misura o calcolo di una bellezza che soltanto piegandosi alle regole di una struttura astratta sottoposta a costanti rielaborazioni poteva essere considerata “perfetta”.
Il curatore, Harold Koda, ha selezionato 65 eccezionali modelli, come testimonianza sia dell’evoluzione creativa del couturier e sia del particolare posizionamento storico che dovremmo attribuirgli.
Ma soprattutto la mostra esibisce ogni possibile forma di testualità capace di restituirci il senso della moda che animava il grande couturier. Quindi abiti bellissimi soprattutto, ma anche tante immagini, tanti altri oggetti, disegni, accessori, video rigorosamente coerenti con il progetto di riscoperta dell’avventura creativa e umana di un personaggio sinora mal collocato dalla maggioranza degli storici della moda europei.
L’allestimento della mostra è stata all’altezza del prestigio del celebre museo americano. In breve: spettacolare senza incorrere negli effetti a rischio di kitsch; per certi aspetti scolastica, ma nel senso di un piacevole apprendimento di “valori” estetici ed estesici ai quali James teneva moltissimo.
Mi permetto di aggiungere che una mostra di questa portata poteva essere arricchita enormemente da una maggiore attenzione all’intertestualità, ovvero vi avrei visto con impagabile piacere qualche creazione di Adrian (1903-1960), di Norel Norman (1900-1972), i soli creativi americani nati nella prima decade del novecento all’altezza di un confronto con Charles James. E qualche abito di Dior e Balenciaga, protagonisti indiscussi del New Look, il momento di massimo successo per James, per loro stessa ammissione, in debito con il programma di ricerca del creativo anglo-americano.
Non credo di togliere nulla al genio di Christian Dior e alla maestria di Balenciaga, se sottolineo l’anticipazione della silhouette e della struttura dell’abito New Look effettuata da James negli anni che precedono la famosa sfilata parigina del febbraio 1947, nella quale il couturier francese presentò la collezione huit (à la corolle), divenuta subito, complice una ispirata Carmel Snow, la rivoluzione del New Look.
“Not only the greatest American couturier, but the world’s best”, disse Balenciaga; “The greatest talent of my generation”, sostenne Dior. Ovviamente erano parole di sincero apprezzamento rivolte a celebrare James, la cui influenza difficilmente oggi, anche grazie alla mostre/evento di New York, può essere sottovalutata.
Sarebbe stato suggestivo poter vedere un reale confronto di silhouette, forme, tessuti tra questi monumentali couturier. In definitiva l’impatto storico di un grande creativo dipende solo in parte dalla bellezza in se’ dell’oggetto e dal successo di mercato. Mi piace pensare che l’influenza esercitata sui colleghi e l’imitazione dei suoi abiti, rappresentino indicatori di qualità altrettanto significativi.
Un creativo intransigente e fragile
Grazie al prezioso lavoro di ricerca di Elisabeth Ann Coleman’s (mi riferisco al già citato libro-catalogo della omonima mostra del 1982 “The Genius of Charles James”) e alla cronologia biografica proposta da Jan Glier Reeder, pubblicata nel bel catalogo della citata mostra al Custume Istitute, possiamo avere un quadro preciso della vita professionale e privata del couturier.
Charles Wilson Brega James nacque nel 1906 a Camberley nel Surrey (Inghilterra), figlio di una famiglia agiata. Il padre, Ralph Ernest Haweis James era un capitano dell’esercito inglese; la madre, Louise Enders Brega James, veniva da una ricca famiglia di Chicago.
Nei primi anni della sua educazione si mise in luce per il talento nello studio della musica. Questa predisposizione all’ordine estetico musicale, farà congetturare a molti suoi estimatori una analogia tra il suo modo di concepire la moda con l’articolazione del linguaggio musicale. C’è da aggiungere che James, quando entrò a far parte come creativo della couture, divenne famoso anche per le raffinate scelte delle musiche nei suoi coinvolgenti fashion show.
Nel 1920 viene iscritto dalla famiglia ad Harrow, una delle scuole esclusive per i rampolli delle famiglie dell’élite britanniche. Le sue preferenze sono per il teatro, la pittura, la composizione musicale e la scrittura poetica. Ma James non riuscirà a terminare i suoi studi dal momento che, a pochi mesi dal diploma, venne bruscamente allontanato dalla scuola. Sembra che, preso atto della sua omosessualità, si divertisse con i compagni di teatro a travestirsi da donna, truccandosi ed esibendosi senza alcuna prudenza. Le chiacchiere arrivarono al padre, il quale da buon ufficiale dell’esercito di Sua Maestà trovò intollerabile la mancanza di disciplina della scuola e decise di dare una lezione al figlio inibendogli la possibilità di terminare gli studi e interrompendo le sue amicizie. Fu ad Harrow, per esempio, che James conobbe e divenne amico di Cecil Beaton, che nei trenta, divenuto uno del personaggi più influenti della moda, ricoprirà un ruolo certamente non secondario per favorire il suo successo come couturier.
Il rapporto con il padre fu veramente traumatico. In lettere scritte ad amici molti anni dopo James raccontava della violenta disciplina imposta dal padre. A diciassette anni, probabilmente in seguito ai fatti di Harrow, sembra che su istigazione del padre alcuni militari sotto il suo comando gli avessero fatto violenza, per dargli una lezione e farlo diventare un uomo. Non sappiamo se ciò che scrisse James corrispondeva esattamente alla realtà. Comunque sia, reale o trauma immaginario, è evidente che il burrascoso rapporto con il padre non poteva non avere effetti devastanti sul suo destino.
Alle ingiunzioni di impegnarsi in studi utili ad una solida carriera, rispondeva fuggendo nella sperimentazione di pratiche artistiche sempre più conflittuali con l’ordine paterno.
Dalla famiglia non ebbe sostanziali aiuti economici. Solo la madre con alcune delle sue influenti amiche, sostenne il figlio nei primi anni di carriera con importanti contatti e commissioni. Tuttavia si gettò intorno ai vent’anni nell’attività commerciale, ma senza risultati all’altezza delle sue ambizioni. Il padre gli impediva l’uso del proprio nome nella moda e quindi inventò il marchio “Boucheron”.
Il momento decisivo nella sua carriera fu quando nel ’29 ritornò in Inghilterra e cominciò a lavorare nel business della moda tra Londra e Parigi. Durante questo periodo si impadronì delle tecniche sartoriali e studiò con grande serietà il corpo ideale femminile e le forme che lo trasformavano in un potente ricettacolo di desideri. In breve tempo sviluppò il suo particolare metodo di lavoro ed emersero i concetti moda sui quali lavorò nel corso della sua carriera. La sua intelligenza e stravaganza gli procurarono preziose amicizie tra artisti, couturier, intellettuali prestigiosi. In breve tempo divenne uno degli dei creativi più ambiti, anche se cominciavano ad emergere le nevrosi da perfezione che spesso minavano le relazioni con le clienti.
Nel 1939 ritornò negli Stati Uniti, aprì il suo studio a New York e cominciò a collaborare sempre più frequentemente con l’industria. Infatti oltre ad essere un vero genio nel concepire abiti eleganti, James era un incredibile designer, capace di stilizzare oggetti, accessori da sottoporre allo sviluppo seriale. In questa fase, minata dalla guerra, vestiva una clientela ricca, sofisticata e appassionata. Nacquero in sequenza i suoi famosi abiti da sera, veri capolavori sartoriali assoluti.
All’inizio dei Cinquanta del Novecento James percepisce che il mondo della couture non potrà più ritornare al passato. Tenta dunque di trasformare le sue creazioni importanti in un design compatibile con la produzione seriale. L’intuizione era giusta, ma ancora una volta “l’ombra del padre conflittuale” lo porta ad aborrire qualsiasi discorso vagamente collegato alle “regole”. In breve, vuole il successo economico garantito dall’estensione del suo mercato, ma ha la pretesa di controllare praticamente tutto, persino gli aspetti pratici e finanziari nei confronti dei quali era particolarmente fragile. Così, il couturier che vestiva le più ricche e belle donne americane divenne incapace di convertire il capitale di notorietà del suo nome in un brand efficace sulla scena della moda vincente. Insomma, James non riusciva a sopportare i “volgarizzatori della moda”, non accettava compromessi, anche se si rendeva conto che era sul loro terreno che stava nascendo un nuovo paradigma estetico che avrebbe cambiato il modo di esibirsi attraverso l’abbigliamento.
Ancora una volta, si trovò ad essere un innovatore ma al tempo stesso un perdente. I suoi sogni commerciali si trasformano in un bagno di sangue. Per alcuni anni la sua vita sarà tormentata da avvocati, tribunali, problemi con il fisco. Nel frattempo a sua clientela storica frastornata anche dalle sue scelte esistenziali, da omosessuale felice era diventato marito di una milionaria dalla quale divorziò negli anni del tracollo finanziario, progressivamente l’abbandonò. Verso la fine dei Cinquanta il tracollo economico è completo. La sua dipendenza da droghe cominciò ad essere devastante. Da quei giorni sarà costretto a vivere in un modesto hotel nel quale continuerà a ricevere e a lavorare per le pochi clienti rimaste, fino alla morte (22 settembre 1978). Ma non saranno anni sterili. Perfezionò il suo metodo, lo applicò con rara intelligenza a nuove creazioni, si dedicò alla trasmissione del suo sapere e alla conservazione dell’importante archivio nel quale aveva imbricato la parte migliore della sua vita. E’ stupefacente come gli individui dimentichino in fretta i loro eroi culturali e quanto siano rari i momenti in cui, nel momento di massima difficoltà dei suoi protagonisti, una società sappia rispondervi con comprensione e generosità. Su questo terreno la moda e’ spietata e dissipatrice. Per fortuna dopo tanto silenzio la voce dei protagonisti perduti ci ritorna dal passato. Nel caso di C.James dobbiamo ringraziare il Met, Harold Koda e collaboratori per ciò che mi pare sia stata, per chi capisce e ama questo genere di arte applicata, una luminosa riscoperta di un vero genio della moda.
La bellezza dell’abito come calcolo
Il tentativo di comprendere la metodologia creativa/costruttiva di James ha convinto gli studiosi più sensibili nei confronti di questo aspetto problematico a cercare risposte sintetiche attraverso analogie con l’architettura, il calcolo degli ingegneri, il lavoro degli scultori.
C’è da aggiungere che il couturier anglo-americano, soprattutto dopo essere diventato famoso, amava descrivere il proprio approccio come una procedura a dominante razionale che unificava in una forma ideale due ordini di misura: prima di tutto bisognava dimensionare il “corpo”; in un secondo tempo occorreva orchestrare le misure dell’abito seguendo l’impronta di una struttura che funzionava come una sorta di a-priori, dalla quale tuttavia potevano scaturire diverse forme significati.
Harold Koda, nel bel catalogo della mostra, sintetizza con queste parole l’approccio metodologico di James: “He does not begin with a sketch, in the way of many couturier. Because his designs are essentially imagined, then costructed with his own hands rather executed by others, there is a quality of spontaneity to their resolution”.
Sembra di capire che l’enigmatico Calculus of Fashion del couturier, in realtà corrispondeva ad una euristica complessa, vicina alle pratiche dell’artigianato, sottoposta tuttavia al controllo stressante di una mente che credeva nell’esistenza di un ordine astratto sottostante all’oggetto moda, il cui rispetto rappresentava la porta stretta da attraversare per raggiungere la perfezione.
James anteponeva a ciò che oggi chiameremmo creatività, una pratica costruttiva ancorata allo studio delle strutture che considerava il fondamentale punto d’ancoraggio intorno al quale avrebbe configurato, come uno sculture estraeva la forma dalla materia, l’aspettualita’ dell’oggetto moda. Dal suo punto di vista le dimensioni fondamentali alle quali doveva attenersi il couturier erano il corpo e i gesti che l’accompagnano, la tradizione costruttiva e la sensibilità alla materia con la quale sono fatti gli abiti.
Secondo James, sia la struttura del corpo e sia quella dell’abito ideale non potevano avere troppe variazioni profonde. Ma tuttavia, si rendeva conto che lentamente il corpo e i movimenti delle donne erano cambiati rispetto al passato. Il suo lavoro dunque consisteva nel modellare la struttura dell’abito sulle forme della cliente, spesso imperfette rispetto la silhouette che aveva idealizzato, in modo tale che dal punto di vista percettivo la seconda emendasse il primo, valorizzandone le dinamiche.
Per realizzare questo programma di ricerca, oltre allo studio rigoroso delle tecniche tradizionali, sperimentò soluzioni innovative che implicavano l’uso di spirali e quindi tecniche di taglio, cuciture che possono essere considerate l’equivalente di piccole scoperte empiriche.
C. James nella sua maturità dedicò molte energie per trasmettere ai giovani creativi ciò che riteneva un vero e proprio “metodo” per avvicinare la couture all’ideale di perfezione estetica/estesica compatibile con il “discorso” artistico.
Probabilmente fu in questa fase che la platonizzazione delle sue procedure comincio’ ad apparigli dominante nei confronti della raffinata euristica della quale era divenuto un eccezionale interprete.
Si può facilmente non essere d’accordo con il tentativo di elevare fino in cielo una teoria o un Calculus, immaginandolo come strumento chiave per raggiungere la perfezione. James pensava esistessero anche per la moda delle “leggi” logicamente superiori alle pratiche costruttive ancorate piuttosto a sequenze di tentativi ed errori tipiche dello sperimentatore. Ma va ricordato che praticamente tutti gli abiti rimasti del grande couturier risultano essere dei capolavori. In realtà James era sia un fine teorico e sia un inesauribile sperimentatore. Questo doppio taglio della sua mente si concretizzava in abiti fantastici.
Prima di tutto gli abiti da sera. Impossibile guardare per esempio Ball Gown 1939 o Clover Leaf Ball Gown 1953 senza provare un moto di sincera ammirazione. E poi i superbi cappotti. Ma anche gli abiti strutturalmente più semplici sorprendono per la loro giustezza e modernità.
Le ragioni del declino e il posto di C.James nella storia della moda
C. James era coraggioso, audace, ostinato, ma anche imprevedibile, inaffidabile e dissipativo (sia nello stile di vita e sia nella gestione di una attività economica ).
Ma la sua mente, applicata all’oggetto ideale della moda era prodigiosa. Le sue procedure a livello di modazione (il processo della moda) si sono rivelate discutibili se non sbagliate. In molti hanno sostenuto che fosse in anticipo sul suo tempo e che questo aspetto lo abbia fortemente danneggiato. Difficile contestare un punto di vista formulato in questo modo. Tutti gli innovatori sono in anticipo sul proprio tempo, ma questo non significa che necessariamente la loro operatività si trovi irrimediabilmente compromessa. Io credo che l’ossessione per la perfezione e il disperato tentativo di negare radicalmente l’istanza paterna, abbia tolto a James la lucidità operativa nei momenti decisivi in cui al successo o alla notorietà, deve seguire l’esercizio pratico di una progettualità mediata, condivisa con “l’altro”. Mi è sembrato di capire che l’impasto passionale del carattere di James fosse il suo primo nemico.
Ma senza queste ossessionante predisposizione alla perfezione, senza la disinvoltura e l’atteggiamento noncurante nei confronti di ciò che ho frettolosamente definito l’istanza paterna, avremmo avuto il genio C.James? Domanda intrigante ma inutile, me ne rendo conto. E’ ciò che James è riuscito a fare ad essere significativo. E per quanto mi riguarda i suoi abiti e le sue idee rimarranno per sempre uno dei culmini che la couture ha raggiunto nella prima metà del Novecento.
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