Fashion show di Kenzo a Pitti n.83

Fashion show di Kenzo a Pitti n.83

La lettura di una grande sfilata può raccontarci come un brand possa sopravvivere alle turbolenze della storia e del mercato

1. Le origini del brand

Kenzo Takada, fondatore della famosa griffe del pret à porter, raggiunto il sessantesimo anno di età, nel 1999, dopo l’ultima sfilata di una luminosa carriera annunciò il suo ritiro dalla moda. La sua avventura creativa era cominciata nella Parigi nel 1965, in piena effervescenza grazie alla generazione di giovani couturier che stavano rivoluzionando la couture. I primi anni lavora da free lance vendendo schizzi di abiti a case di moda e a riviste come Elle. Verso la fine dei sessanta ristruttura un negozio e lo trasforma in una boutique innovativa per design e per concezione. In quei giorni per un giovane creativo avere il proprio punto vendita era un primo passo fondamentale per il successo. Mary Quant (1934) aveva cominciato a sperimentare idee moda rivoluzionarie grazie alla sua boutique Bazaar, aperta nel 1955; Barbara Hulanicki (1936) divenne una delle protagoniste della Swinging London certo grazie al suo talento nell’interpretare a suo modo la rottura dei canoni del vestire borghese, ma avrebbe avuto la possibilità di farsi conoscere se non avesse aperto nel 1964 Biba, la sua celeberrima boutique, in pochi anni famosa tra tutti i trend setter del momento?

Nei sessanta il cosiddetto sistema moda come lo pensiamo oggi, non esisteva. Spontaneità e veloci insight di pensiero erano fondamentali per intercettare un desiderio di cambiamento dal basso assolutamente evidente per i giovani creativi, in definitiva si trattava di soddisfare la voglia di cambiamento di altri giovani, ma per niente scontato nei suoi esiti. La boutique consentiva un feedback quotidiano tra le aspirazioni dei giovani a rappresentarsi in modo alternativo rispetto alle proposte convenzionali e i giovani creativi che tentavano di interpretarne le propensioni estetizzanti.

Col senno di poi, posso senz’altro aggiungere che Kenzo, rispetto M.Quant e B.Hulaniki, era il più preparato dal punto di vista tecnico (aveva studiato nella prestigiosa Bunka Gakuen di Tokyo) ed era dotato di un talento più eclettico e robusto. Infatti terminata l’ondata degli anni sessanta Biba scomparve (chiuderà la sua boutique nel 1974). Mary Quant, pur famosissima, dopo gli anni settanta non riuscì più a proporre idee di successo e pur continuando l’attività subì una sorta di museificazione che la relegò ad essere vissuta esclusivamente come una icona del decennio più sopravvalutato del novecento (i mitici anni sessanta). Lo stilista giapponese non raggiunse mai i picchi di celebrità delle colleghe inglesi, ma seppe cavalcare meglio le oscillazioni del gusto e le modificazioni strutturali che la moda subì con l’affermarsi della post modernità.

Tuttavia all’inizio degli anni novanta sembra esaurirsi la sua capacità di dialogo con il mercato. Nel 1993 la holding del lusso LVMH guidata da Arnault assume il controllo della maison Kenzo. Nel 1999, come ricordavo all’inizio il primo grande stilista giapponese famoso in occidente si ritirò dalla scena primaria della moda, per dedicarsi a progetti di minor peso simbolico (moda pronta, accessori e biancheria per la casa), senza mai raggiungere il successo travolgente dei suoi anni d’oro. Da quei giorni, per chi conosce e ama la moda, il nome di Kenzo Takada sarà per sempre legato a quel particolare momento in cui con i suoi magistrali stampati, con abiti a strati di tessuto sovrapposti, la maglieria innovativa quasi quanti quella dei Missoni, le gonne in stile orientaleggiante portate con il calzoni, i pantaloni a gamba ampia, in un momento critico per la moda ufficiale incalzata da ideologie radicali, seppe declinarla in giochi d’abbigliamento improntati ad un fascio d’emozioni gioiose, trasversali ai vangeli estetici che producevano passioni conflittuali, dimostrando che la moda poteva riunire ragazzi e ragazze di diversa cultura e razza.

In estrema sintesi, Kenzo propose soluzioni formali che verso la metà degli anni settanta in Europa apparivano fortemente innovative; idee creative capaci di entusiasmare opinion leader come la Vreeland e di influenzare in profondità la moda degli anni ottanta. Secondo molti esperti Kenzo fu il primo stilista giapponese a modulare lo stile originalissimo del suo paese d’origine con i tratti strutturali della moda occidentale. In realtà, a mio avviso questo ruolo spetta a Issey Miyake (1935), uno straordinario creativo che collocherei su di un gradino più in alto rispetto Kenzo. Miyake non si è mai piegato a compromessi, le sue proposte risultavano audaci, raffinate, colte, probabilmente fuori dalla temporalità tipica della moda. Miyake cominciò a sfilare a Parigi nel 1971, un anno prima di Kenzo. Ebbero entrambi un enorme successo. Miyake era acclamato come un genio della creatività pura, dell’unicità e rarità dell’oggetto moda. Kenzo creavi abiti che si potevano vedere in tutte le città del mondo. Il primo è stato acclamato dall’esclusivo mondo intellettuale che si riconosce preferibilmente nell’Alta Moda. Il secondo ha fatto entrare i segni di una civiltà affascinante come quella giapponese nel guardaroba di tutti.

2. Il destino di un brand

Ho speso un po’ di parole per ricordarvi le origini di Kenzo per contestualizzare meglio l’attuale situazione del brand, in funzione delle scelte espressive che ci introdurranno alla sfilata recentemente presentata a Pitti.

L’uscita di scena di Kenzo Tanaka non fu riassorbita facilmente dal management alla guida della marca. Senza esagerare posso senz’atro sostenere che per alcuni anni ci fu una perdita di credibilità e di fatturato. A partire dal 2003 con l’arrivo come direttore creativo di Antonio Marras la situazione cambiò sensibilmente. Iniziando dalle collezioni femminili lo stilista italiano riportò in auge presso gli opinion leader e il largo pubblico la marca franco-nipponica. Sfilate teatrali di grande impatto e il notevole talento di A.Marras nell’orchestare un fascio di idee-segno che evocavano fashion frame vicini al mondo estetico del fondatore, convinsero un po’ tutti. Alla fine del 2011 la stampa annunciò la rottura del suo rapporto con LVMH. Un normale avvicendamento deciso dai manager per evitare il rischio di una sovrapposizione di forti identità creative? Si era esaurita la capacità e la voglia di A.Marras di forzare se stesso ad essere un creativo di primo livello libero di seguire il corso delle proprie idee e al tempo stesso di essere il supporto dell’indentità di un altro? In realtà non sappiamo con certezza i termini dei problemi che portarono alla cessione del rapporto. Giustamente certi discorsi rimangono segregati nelle aziende. Posso immaginare che il gusto intellettuale di A.Marras, incline a prendere sul serio il recupero di simboli decorativi e vestimentari appartenenti a Kenzo, tradotti però con il suo raffinato gusto per significazioni romantico-nostalgiche, abbiano dopo qualche collezione, agli occhi dei manager, pagato dazio al senso di contemporaneità che nei settanta era uno dei punti di forza di Kenzo: è vero che lo stilista giapponese a suo modo citava le forme dell’abbigliamento della sua tradizione, ma senza alcuna inflessione storicista; la sua moda era gioiosa, piena di energia e soprattutto interpretatava giochi di moda vissuti dai suoi interlocutori all’interno della nebulosa di significati ai quali ci appelliamo quando usiamo la parola tendenza.

Ecco dunque, dopo gli anni impreziositi dalla raffinata interpretazione di A.Marras, arrivare una coppia di stilisti, Humberto Leon & Carol Lim, chiamati dai responsabili del brand a compiere un nuovo salto creativo in direzione della tendenza perduta.

HLCL avevano cominciato a farsi conoscere aprendo nel 2002 a New York lo store Opening Cerimony, nel quale proponevano le loro scelte estetiche basate su uno street style evoluto e divertente. In pochi anni grazie al web riuscirono a far circolare il loro nome non solo come geniali interpreti del retail, il loro store fu replicato con successo a Los Angeles e a Tokyo, ma anche come creativi tout court. Molti blog cominciarono ad esaltare i loro contenuti moda. Dal momento che normalmente i fashion blogger sono giovani o giovanissimi, la loro entusiasta adesione all’algoritmo creativo della coppia, contribuì a renderli, agli occhi smaliziati degli addetti ai lavori, assolutamente contemporanei. Si capiscono allora le ragioni della scelta da parte del management di Kenzo, di assumerli come direttori artistici della marca, nel preciso momento in cui avevano deciso un suo riposizionamento, cercando per essa maggior spazio tra il pubblico dei giovani trendsetter.

Entrati nella squadra della più grande holding del lusso del pianeta, HLCL avevano tutte le condizioni favorevoli per far valere la loro visione e di certo si può senz’altro dire che non hanno sprecato la chance loro offerta di competere per l’accesso ai quartieri alti della moda. Recentemente sui giornali italiani, Kenzo è stato presentato come il brand più cool del momento. Ma in base a cosa possiamo immaginare che questa credenza corrisponda al vero? Alla adesione degli opinion leader? Alla conferma dei dati del mercato? Non mi risulta siano stati associati numeri alle affermazioni soprariportate. Diciamo che come nei gossip, velocemente il passa parola tra iniziati di vario rango ha seguito un copione improntato a magnificare i due creativi. Probabilmente non è da sottovalutare la potenza di fuoco di LVMH nella guerriglia comunicazionale per competere ad essere il brand più bello del reame. Comunque sia così funziona la moda: profezie ben supportate da una retorica comunicazionale forse un po’ ingenua ma senz’altro efficace, che pur partendo da un piano di consistenza in realtà fasullo, modificano la realtà o per meglio dire fanno la realtà.

Direi che Pitti n.83 avendo invitato HLCL come guest designer della 83° edizione, ha offerto una ghiotta occasione per misurare la fitness della marca attraverso la sfilata dell’ultima collezione uomo.

E mia intenzione ora presentarvi il fashion show di Kenzo nei suoi aspetti meno riscontrabili nelle recensioni giornalistiche che seguono regolarmente le attività delle marche importanti, per poi riprendere in conclusione il filo del ragionamento sulla ricostruzione del mondo possibile di marca che ho evidenziato.

 

3. Kenzo Takada: The Jungle of the Sky

A Pitti Uomo n.83, la maison Kenzo ha sfilato nell’edificio del Mercato Generale di San Lorenzo. Si tratta di una location insolita e al tempo stesso grandiosa per un defilè. Il colpo d’occhio sull’interno della struttura, lo show è al secondo piano, è subito molto coinvolgente. Vi arrivo, dopo aver dribblato droghieri e fruttivendoli al pianterreno, quando più di mille persone sono già sedute strette le une alle altre. Fa un freddo boia e la prossimità con i propri simili in questo caso non è certo un problema. Molti si coprono le gambe con una coperta offerta dalla casa mentre guardano stupiti una contestualizzazione semplice ma efficace. Nel frattempo continuano ad arrivare persone che circondano i posti seduti e con la loro pressione rendono elettrica l’attesa. L’altezza fuori dall’ordinario dello spazio utilizzato, la grande superficie vetrata, in stile primo novecento, la nebbia creata ad arte dagli allestitori (Villa Eugénie) alludono ad una messa in scena che evoca le visioni dark delle nostre città, divenute leggendarie dopo film come Blade Runners. L’illuminazione prevista dall’art director è punteggiata da spot posizionati in modo tale da lasciare lo spazio scenico avvolto da una luminosità notturna, contribuendo a far percepire una sorta di decolorazione degli oggetti nel campo visivo. Per farvi un esempio, sembra di vedere un film sui vampiri di ultima generazione, con i colori devitalizzati che contribuiscono a creare un pathos vagamente tragico che attraversa ogni fotogramma della narrazione. In compenso con spot direzionali che accompagnano la promenade dei modelli, i colori dominanti dei look sembrano arrivare all’occhio come gli squilli del cellulare. Ecco il primo messaggio che registra il mio sguardo mentre segue modelli dall’andatura robotizzata (secondo messaggio) che appaiono/scompaiono tra le nuvole di fumo. Il percorso che devono compiere i modelli, molto più lungo di quello di una sfilata ordinaria, permette di valutare e apprezzare le geometrie delle silhouette dei look (terzo messaggio): cappotti, capispalla a campane, calzoni a sigaretta; ogni tanto attorno alla vita compare un zainetto/paracadute che come le note scritte in una partitura musicale, attivano una batteria di idee che in rapida sequenza un fanno convivere nella mente una significanza tecnologica che sfuma in dissolvenza incrociata con l’idea di un uomo in motion, una bellezza dinamica dunque che rimanda a sua volta ad una curiosità come passione dominante (anche se l’andatura da sonnambuli di questi eleganti colorati fantasmi metropolitani me li fa sembrare, dal mio punto d’osservazione, un plotone di ebeti). Poi all’improvviso è l’effetto olistico a dominare la messa a fuoco mentale dell’evento: emerge molto potente un sentimento di bellezza che non appartiene più ad una forma piuttosto che l’altra bensì all’insieme spazio/temporale che mi assorbe, ovvero, appartiene all’evento in quanto produce una fortissima sensazione di esserci, di vivere un momento irripetibile.

KenzoIn questo preciso momento so che HLCL hanno fatto centro. Comunque vada i loro look avranno il privilegio di significare l’emozione di questo momento. Ecco perché le mie amiche giornaliste tra qualche minuto mi diranno: oooh! Che sfilata magica!; confesso che non ho mai capito cosa volessero realmente dire. Con il senno di poi razionalizzo la questione in questi termini. Il lungo percorso compiuto dai modelli possiamo paragonarlo ad un piano sequenza cinematografico… L’occhio che li segue mentre attraversano lo spazio della grande sala, progressivamente viene assorbito dal paesaggio della sfilata; al punto che qualcosa di me diviene il paesaggio. Forse la parola magia in queste circostanze d’uso vuole significare la trasformazione interiore che ci fa uscire dalle mappe mentali sciogliendoci per un momento nel paesaggio (a voi il compito, se siete insoddisfatti, di trovare una parola migliore).

Domanda: la dimensione olistica che con i miei limitati mezzi espressivi ho tentato di descrivervi, non compromette la focalizzazione sulle forme della collezione? In parte è così; solo le menti più preparate possono tra decibel, effetti visuali ed incalzanti emozioni, registrare esattamente la gerarchizzazione dei look. Devo dire che anche questo problema sembra essere stato previsto dai geniali HLCL. Alla fine di tutto, mentre i creativi si esponevano agli applausi del pubblico, con l’ultima uscita i modelli arrivati al centro della sala hanno raggelato i gesti dell’uomo in motion trasfigurandolo in una sorta di istallazione vivente, che ha consentito al pubblico una osservazione dettagliata dei fashion frame della collezione. Grazie a questa soluzione ho potuto ammirare l’audacia e la giustezza delle stampe su tessuto di alcuni capispalla che da lontano mi avevano impressionato per la macchia di colore che seminavano sulla scena, ma che ora apparivano come una fantasia ben costruita, assolutamente portabile e mirabilmente in sintonia con il principio di distinzione panculturale di stilisti che creano per individui che possono vivere ognidove raggiungibile.

Kenzo5. Conclusione provvisoria

Indubbiamente oggi le attività di branding hanno raggiunto un livello di efficacia ragguardevole.

Tuttavia il ruolo della creatività non sembra affatto in discussione o subordinato.

Semplicemente anche per i creativi sono riconoscibili livelli di precisione e pertinenza che demarcano l’approccio romantico alle fantasie di uno stilista da visioni più o meno corroborabili da fatti appartenenti ad un ordine diverso da quello della pura soggettività.

L’unità di controllo del livello di precisione e pertinenza è fornita dal mondo possibile di marca.

Il mondo possibile di marca è una costruzione che (molti la chiamano, a volte fuorviandosi, visione), in ogni momento strategico, ha una relazione con presenze del passato, dovrebbe avere aperture verso il futuro e di forte adesione al qui e ora.

Presenze del passato significa in realtà porsi il problema di quanto delle origini devo narcotizzare per rendere viva oggi l’esperienza del Brand (è chiaro che gli individui che marcano le assenze del passato come una perdita di autenticità parleranno di devastazioni del branding).

Le aperture verso il futuro significano una propensione a cogliere la processualità della modazione in situazioni di complessità (e non la semplice iscrizione di nuove forme moda lungo una traiettoria data).

La forte adesione al presente partecipa del problema del trovare un posto nel guardaroba reale per oggetti moda che abbiano un senso per la vita delle persone (poche o molte, non importa).

Sulla scorta della breve sintesi che vi ho proposto, penso che la collezione presentata a Firenze da Humberto Leon e Carol Lim sia pertinente e precisa per agganciare, oggi, valori che consentono al mondo possibile di marca Kenzo l’accumulo di energia funzionali alla sua durata.

Che ruolo svolge la sfilata in tutta questa faccenda?

La sfilata, tra le altre cose, è un test d’efficacia simbolica.

Grazie all’evento, i responsabili del brand e i creativi hanno compiuto il primo passo verso la trasformazione di una tassonomia di oggetti moda in significati che rimandano a giochi di stile che plasmeranno l’esperienza dei modanti.

Mi sembra di poter concludere, e la mia descrizione della sfilata fiorentina dovrebbe averlo evidenziato, che l’evento al quale ho assistito ha generato una ragguardevole efficacia simbolica che mi ha fatto percepire il brand Kenzo perfettamente allineato con i contenuti del suo mondo possibile.

Lamberto Cantoni
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14 Responses to "Fashion show di Kenzo a Pitti n.83"

  1. Elena Bottai
    Elena Bottai   25 Gennaio 2013 at 22:13

    L’aspetto che personalmente trovo più interessante nel caso Kenzo è la strategia perfetta che ha partorito questo nuovo capitolo nella storia della maison nippo-francese.
    Fin da subito, annunciando la separazione da Antonio Marras e la scelta come nuovi menti creative di Humberto Leon e Carol Lim, i vertici LVMH hanno espresso la volontà di riposizionare il brand all’interno di un segmento più giovane e contemporaneo e così addio al romanticismo sardo-nipponico di capi che arrivavano facilmente a sfiorare i 4-5000 euro e benvenuto a felpe, cappellini logati, parka, zainetti colorati di gomma con apposite tasche per ipad e vestiti che, nella peggiore delle ipotesi, non superano i 1500 euro.
    Guardando il portafoglio della divisione fashion LVMH si nota l’assoluta prevalenza di brand segmento luxury, ma oggi i nomi di cui si parla e soprattutto i nomi che vendono – non borsette e calzette ma indumenti veri – e dettano le regole dello streetstyle sono Alexander Wang, Rag&Bone, Isabel Marant et al. contro i quali LVMH nulla poteva, almeno fino a l’altro ieri.
    Kenzo infatti si è dimostrato lo strumento perfetto per entrare a gamba tesa nel segmento contemporary attraverso una strategia di re-branding estremamente radicale ( basta dare un’occhiata alla nuova campagna adv e confrantarla con una a caso del periodo Marras ) in grado di iniettare nuova linfa vitale al brand senza però devastare o dimenticare il suo DNA.
    Ecco perché a parlare “di scelte estetiche basate su uno street style evoluto e divertente” per descrivere l’essenza di Opening Ceremony si rischia di perdere l’equazione di fondo dell’intera strategia.
    Opening Ceremony non è un semplice negozio ma un laboratorio creativo di coolness, da posizionare idealmente nella stessa lega del parigino Colette, il concept store per eccellenza, l’unico ambiente in cui convivono magicamente sconosciute riviste underground, opere d’arte, bottigliette di aceto balsamico di Modena e – ovviamente- abiti con un cartellino del prezzo con sempre qualche zero di troppo per le nostre tasche (o perlomeno per le mie, s’intende); senza le pretese e i pricetag del parente d’oltreoceano OC si è affermato nei suoi dieci anni di vita come una sorprendente fucina di tendenze, uno spazio unico in cui si affiancano nuovi talenti, brand storici ed oggetti unici in un sapiente mix che ha catturato milioni di fan e trasformato questo piccolo esperimento newyorkese in un successo internazionale.
    Indubbiamente sparsi nel mondo ci sono numerosi store con capi selezionatissimi, designer emergenti, nomi giusti al momento giusto… ma quanti hanno una private label celebre come gli altri brand di cui sono rivenditori? Quanti possono vantare collaborazioni che spaziano da Yoko Ono a Rodarte, passando per Margiela e Topshop? E quanti collezioni limitate che vanno sold out nel giro di qualche minuto? E un libro per celebrare la prima decade di vita? Diciamo pure nessuno.
    Nell’ottobre 2011, dopo la presentazione della prima collezione Kenzo sotto l’egida dei due nuovi creativi, Pierre-Yves Roussel, presidente della divisione fashion di LVMH, che ha personalmente passato al vaglio 30 candidati per il ruolo, ha dichiarato sorridendo: “It was exactly what we wanted” Eh certo! Con Spike Jones come addetto alle riprese video e Chloe Sevigny come modella, cosa può esserci di più cool? E non è forse questo ciò di cui i giovani trendsetter ( core target dei brand contemporary ) vanno alla ricerca, qualcosa che sia cool, possibilmente più cool di tutti gli altri?
    Le felpe con la tigre e il nuovo logo sono state uno dei capi più in voga della scorsa stagione e su internet già spopolano le repliche low cost, ogni nuova collezione viene accolta da recensioni sempre più entusiaste, le riviste sono piene di articoli che elogiano “la rinascita di Kenzo”, la sfilata di Pitti è stata l’evento principale dell’intera manifestazione e –a quanto dicono coloro che erano presenti – non ha tradito le aspettative, anzi le ha superate… che dire, scommessa vinta? Strategia perfetta? Pare di si.

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  2. Francesca Biricolti
    Francesca B.   27 Gennaio 2013 at 16:27

    Se avessero presentato la collezione in un corridoio, anonimo, senza luci abbaglianti, musica assordante, atmosfere “ magiche” , i due stilisti avrebbero trasmesso le stesse emozioni?? Si sarebbe parlato ugualmente di sfilata “magica” o di evento memorabile?

    Come da Lei sottolineato, nel corso della sfilata sono stati inviati dei messaggi, che a mio avviso dicono molto sulla scelta fatta. La decisione di una passerella più lunga del normale deriva dalla consapevolezza di dover mostrare e dimostrare chi è il nuovo uomo Kenzo targato Humberto Leon e Carol Lim. L’andatura che lei ha definito “robotizzata” richiama la presenza di un’altra dimensione, un po’ dark e tecnologica. Inoltre, il gioco di luci, che quasi acceca lo spettatore, è servito ad alimentare l’atmosfera e a portare l’osservatore in una dimensione diversa dalla realtà.
    Possiamo suddividere la sfilata in due tempi differenti: il primo, dove i modelli fanno quasi da cornice, rispetto al mood, alla scenografia, ai suoni, alle sensazioni. Gli abiti, paradossalmente, sono messi in secondo piano, per lasciar spazio alle emozioni: il “contorno” è protagonista . Solo con la fine della sfilata, gli abiti tornano ad essere protagonisti e si vedono chiaramente i dettagli, i colori, le forme e le lunghezze. A quel punto, il giudizio è filtrato dalle emozioni e dalla suggestione create durante la sfilata. L’occhio vede con ciò che la mente ed il cuore hanno percepito.
    Qual è lo scopo di una sfilata? La passerella è una vetrina animata, che deve racchiude in se’ la quintessenza dello spirito di un Brand. La collezione nasce da un mood board, un insieme di immagini che rievocano, sensazioni, pensieri, suoni, emozioni, e la realizzazione di un abito deve essere il risultato di questo mix sensoriale. La strategia vincente sta nel presentare gli abiti nella loro dimensione temporale, nel loro habitat: non a caso, scenografia, luci, suoni vengono scelti minuziosamente e consapevolmente per amplificare l’effetto di una collezione.
    Possiamo dire che una sfilata “falsi” la rappresentazione di un abito? A me piace pensare che non sia un inganno, ma una parte di esso. Un abito deve saper emozionare, deve saper trasmettere qualcosa in chi lo guarda. Se viene meno questo, con quale criterio sceglieremmo un abito? Perchè ne abbiamo bisogno?Perchè ci serve? Ne dubito fortemente.
    Concludendo la mia riflessione, ritengo che la sfilata sia uno strumento che permette di capire la filosofia e lo spirito di un Brand attraverso la stimolazione dei sensi e delle emozioni e tramite quelli poter guardare e capire un abito.

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  3. Lamberto Cantoni
    Lamberto cantoni   27 Gennaio 2013 at 19:28

    Elena, permettimi di fare un commento al tuo commento.
    Il riferimento al concetto “street” viene inserito nella mia narrazione per contornare in estrema sintesi un aspetto della filosofia creativa di HLCL il piu’ possibile in contrasto con la sofisticata interpretazione del mondo Kenzo di chi li aveva preceduti. La strategia del management l’ho definita “ricerca della tendenza perduta”. L’espressione, essenza di Opening Cerimony, come dici tu, non so realmente cosa significhi. Ma questo e’ un problema mio: non credo nella dottrina delle essenze.
    Ti faccio notare che l’elenco da te proposto di oggetti d’abbigliamento nel mirino del brand, zainetti, cappellini lobati, felpe etc., rientrano nell’area semantica del concetto street. Quindi se la scelta e’ caduta su HLCL cosa dobbiamo pensare?
    Tuttavia e’ drammaticamente vero che i nostri concetti spesso uccidono le cose che vorrebbero descrivere, comprendere, spiegare. Ecco perche’ ho aggiunto “evoluto”. Dopo aver visto la sfilata i due stilisti mi sono sono sembrati geniali nel proporre una versione in motion dell’eleganza che fa della sprezzatura dell’effetto street un segno di distinzione (e non di semplice differenza). Potremmo definire, senza la pretesa di afferrare alcuna essenza (che non esiste), air style, la spensierata tenebrosita’ della loro versione uomo 2013.
    Altra questione. Quando parlo di Opening Cerimony non lo definisco un negozio, bensi

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  4. Arianna Fuccio
    Arianna F.   27 Gennaio 2013 at 19:34

    Per un brand come Kenzo una sfilata evento era di certo auspicabile. Dopo l’uscita dalle scene di Antonio Marras il marchio ha dovuto faticare non poco per riaffermare la propria identità.. ed è proprio qui che a mio avviso ha ottenuto la vittoria più grande. Uscendo da un gruppo “luxury” come LVMH ha potuto abbracciare una grande fetta della popolazione, quella appassionata di moda che non può permettersi di spendere un capitale per una semplice t-shirt. Certo non stiamo parlando di Zara o H&M, assolutamente no, ma un brand giovanile che tiene conto di quello che significa questa classificazione. Essere innovativi, sapere stupire tutti lasciandoli con il fiato sospeso e poi permettere di avvicinarsi ai capi per studiarli “con occhio critico” si è rivelata la scelta perfetta. Certo Kenzo ha dovuto investire tanto nella realizzazione di un fashion show di questa portata, ma quale occasione migliore per farsi “ri-conoscere” se non Pitti? possiamo dire, in un certo senso, che è stata l’occasione giusta al momento giusto. Ormai, con la crisi che il mondo sta vivendo e con i problemi che la popolazione si trova a dover affrontare ogni giorno questa sorta di “umanità” – che poi è tutt’altro, perchè si parla di un’esatta strategia marketing- di ambientare il tutto in un “mercato” ha dato quel giusto tocco di sensibilità di cui la gente, a mio avviso, aveva bisogno. Kenzo entra così a far parte di quei brand discussi, quelli che senti nominare alla gente nelle conversazioni, quelli che ti affascinano, quello che compri per fare un regalo… e questo è dovuto non solo all’evento e al passaparola che ha saputo creare ma anche, e soprattutto, alla bravura dei due nuovi stilisti.
    Concludo dicendo che con questo show, Kenzo ha rilanciato furbamente la sua identity, promulgando una nuova promise e sperando di riottenere maggior brand awereness- che a mio avviso sta riscontrando- e puntando anche ad un potenziamento della brand Image.

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  5. Lamberto Cantoni
    Lamberto cantoni   27 Gennaio 2013 at 19:45

    ….scusami, ho mosso male i ditoni…non parlo di negozio, dicevo sopra, ma di store. Uno store a differenza di uno shop presenta merci eterogenee. Nel caso di Opening Cerimony tutte le belle cose che hai elencato. Potevo usare concept store. Perche’ ho preferito non farlo? Una decina di anni fa, andai a Parigi per intervistare Colette. Parlai con la figlia e alla fine le chiesi perche’ non avevano fatto nascere in altre citta’ altre Colette. Mi rispose che avevano provato ma senza riuscirci. Un vero concept store non e’ replicabile, concluse. Stesso discorso mi aveva fatto a Milano Carla Sozzani riguardo 10 Corso Como.
    Per contro HLCL non mi pare abbiano avuto problemi nel rendere seriale OC (New York, Los Angeles, Tokio…). Ho dunque preferito limitarmi a store e a definirli geniali interpreti del retail.
    La moda, come scriveva R.Barthes vive di miti. Se vogliamo capire la moda dobbiamo amare i suoi miti senza crederci troppo.

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  6. Yana   27 Gennaio 2013 at 19:58

    Il “mondo possibile di marca” e’ un concetto molto interessante citato nell’articolo. Come proseguono marche famose, come rimane vivo lo spirito e le idee dei fondatori, che non fanno piu parte dell’azienda ? E’ una grande sfida e responsabilita’.
    Che cosa avrebbe fatto lo stilista se fosse ancora qui ? Secondo il mio parere, forse sono banale ad esprimermi, ma subito dopo la sfilata nessuno puo’ dare il giudizio definitivo della collezione: ci vuole il tempo e aspettare se ricevera’ il successo e sara’ accettata dal mercato.
    Vorrei capire come altri affrontano il “mondo possibile di marca” e spero di leggere altri interessanti blog su questo argomento.

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  7. Louison P   27 Gennaio 2013 at 20:22

    Con la coppia HLCL, Kenzo sperava di riconnettersi con la vitalità e lo spirito Jungle Jap del suo inizio.
    In effetti i fondatori di Opening Ceremony store che sono stati classificati tra le 50 aziende piu innovatrici del mondo hanno rinnovato il marchio con successo con un nuovo stile cool misto tra occidente e oriente che non tradisce le origini della maison nippo-francese.
    Lo stile streetwear safarizés mantiene l’eccentricità del marchio, i colori caldi e tropicali delle vecchie collezioni sono sostituiti da un blu ghiaccio, rosso scuro e nero.
    Well done!

    Rispondi
  8. Giulia Donati
    giulia donati   29 Gennaio 2013 at 00:56

    Si può indubbiamente definire una collezione futuristica, contemporanea, rivolta a un uomo giovane e dinamico, il quale sceglie di inserirsi in un tessuto urbano che rappresenta la tela ideale per celebrare lo spirito Kenzo. Kenzo, come da molti viene definito, è uno dei fenomeni più interessanti delle ultime stagioni e a dir la verità anche dei più divertenti; grazie infatti a Humberto Leon e Carol Lim vi è stata una svolta radicale in solo un anno:tutto il progetto trasmette dinamismo, energia. Si può indubbiamente affermare che i due designer conoscono bene il consumatore finale, sanno creare cose immediate e speciali e costruire un mondo attraente intorno al proprio lavoro. Detto ciò bisogna però ammettere che tutto questo effetto “meraviglioso” che ha suscitato la sfilata negli spettatori è dato per la maggior parte dalla Location: suggestiva e decisamente insolita per la sfilata di Kenzo. Un mix di Frutta, carni e verdure e una sfilza di modelli volutamente inespressivi che si sono alternati al passo marziale sono a mio parere la trovata geniale per dare una svolta alla classica e noiosa sfilata.

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  9. Federica Tonet   30 Gennaio 2013 at 21:54

    L’ultima sfilata della maison Kenzo a Pitti Uomo n°83, nell’edificio del mercato generale di San Lorenzo, sottolinea bene il percorso verso una “democratica praticità” che la nuova “entry” degli stilisti Humberto Leon e Carol Lim (HLCL), fondatori della celeberrima boutique newyorkese Opening Ceremony, ha fatto fare al marchio.
    Se Antonio Marras, con il suo notevole talento, aveva riportato a nuovo successo il marchio Kenzo mantenendolo nell’atmosfera sofisticata del “privè” riservato all’alta moda, senza tradirlo mai, ma forse trattenendo con una difficoltà sempre più crescente la sua propria creatività, è indubbio che HLCL l’ha fatto scendere nella strada regalandogli una sferzata di gioventù.
    Con loro Kenzo diventa un brand pieno di dinamismo e contemporaneità che riconquista il suo “fare tendenza”, all’origine uno dei suoi punti di forza. Essi sono riusciti a ringiovanire la griffe puntando su tagli moderni e strutturati, sottolineando così lo stile moderno di Kenzo.
    Con gusto e molta abilità essi stanno portando questo marchio dall’Alta Moda ad un portabilissimo “Pret – à –
    – Porter di lusso”, cogliendo la sfida di rendere il bello anche pratico, non senza rispettare sempre quel mix fra Occidente ed Oriente che lo ha sempre caratterizzato.

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  10. Alice Pinzani
    Alice   30 Gennaio 2013 at 23:20

    Molto insolita e soprattutto inaspettata è stata la scelta del set della sfilata. Il mercato centrale di San Lorenzo si sviluppa in una struttura imponente di ferro verde ottocentesca, situata in un quartiere divenuto nel tempo una zona multietnica. I due direttori artistici hanno trasformato il vuoto e misterioso secondo piano in un ambiente spirituale e allo stesso tempo urbano. Questa sfilata ha conseguito un tale successo che è impossibile rimanere indifferenti di fronte alle scelte progettuali e artistiche selezionate. Musica martellante e getti di fumo sono stati gli elementi che hanno travolto fin da subito lo spettatore tanto da emozionarlo e trasportarlo in una realtà surreale/futuristica, alla Blade Runner. I modelli hanno sfilato come dei veri e propri militari, nemmeno l’ombra di un sorriso. Indossavano capi con tagli essenziali e dai grandi volumi, decorati con le tanto acclamate stampe geometriche. Jungle In The Sky ha rappresentato una vera e propria evoluzione del tema della scorsa collezione, la giungla, ambientata tra le nuvole, ritratta con tinte d’azzurro e di porpora e sfumature di japonisme.
    Questa sfilata ha rimarcato non solo la bravura di questi due ragazzi nel fare affari, ma il grande talento che hanno nel comprendere le nuove tendenze. In poco tempo, attraverso la loro energia e semplicità, sono riusciti a riposizionare il brand orientandolo verso un target più giovane.

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  11. Lamberto Cantoni
    Lamberto cantoni   2 Febbraio 2013 at 08:48

    La struttura del mercato centrale e’ piu’ corretto, come sottolinea Alice, definirla ottocentesca (l’edificio fu inaugurato nel 1874).
    Detta come vuol detta, ho letto male una struttura che non conoscevo. Nei lunghi minuti d’attesa, in un luogo caratterizzato da una luce tremula e delicata, seduto, pressato, infreddolito mi chiedevo: dove cazzo siamo? Guardavo le alte vetrate, le nervature ferrose che le sostenevano, le geometrie del luogo…e feci questo ragionamento: nel 1889 l’esposizione universale di Parigi presento’ al mondo la torre Eiffel, ovvero una montagna di metallo e vetri. Il clamore fu immenso. Malgrado la guerra contro scatenata dai sempre presenti rompicoglioni intellettuali che premevano per abbatterla il piu’ presto possibile, l’opera di Gustave Eiffel sopravvisse divenendo uno dei simboli della modernita’. Ho immaginato che prendendo la torre come data ante quem delle idee che potevano portare a Firenze qualche frammento di modernità, l’edificio del mercato centrale, potesse essere

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  12. Lamberto Cantoni
    Lamberto cantoni   2 Febbraio 2013 at 09:13

    …potesse essere stato concepito, dicevo (ho toccato male lo schermo e mi e’ partito il commento non finito), all’inizio del novecento. Lettura sbagliata; avrei dovuto guardarlo meglio dall’esterno. Si tratta evidentemente di una struttura coerente con lo stile diffusosi con lo sviluppo industriale della vita cittadina…piu’ abitanti, piu’ merci, necessita’ di grandi mercati coperti…1874, appunto.
    Dopo aver preso atto di un mio errore, approfitto del commento per segnalare ad Alice che la colonna musicale della sfilata di Jamie xx (uno/a svitato/a dj, suppongo) non l’ho trovata particolarmente azzeccata.
    Nel fashion show post moderno la musica conferisce all’evento la sintassi emozionale suscettibile di creare l’impressione di una narrazione tra elementi coerenti (spesso i fashion frame di una collezione, per necessita’ che non sto ad elencare, sono tutt’altro che coerenti). Quindi in sintesi, la musica non ha una funzione decorativa, bensì strutturale. Nella sfilata che stiamo commentando ho percepito delle incongruenze, una difficolta’ nel tenere insieme le prevedibili ondate emozionali…
    E’ chiaro che a questo livello di analisi ogni certezza si dissolve ed entriamo nel campo minato della fuga interpretativa…

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  13. Emma Tartaglia
    emma tartaglia   3 Febbraio 2013 at 19:52

    Premetto che, dopo aver scritto una tesi su Kenzo lo scorso anno, sono molto fedele alle origini del Brand e soprattutto ad Antonio Marras ma osservando la sfilata sono rimasta affascinata dall’allestimento magico e dalla musica “forte” che ha avvolto quei minuti intensi di stupore.
    Modelli che escono da ondate di fumo riportano alla realtà lo spettatore che per pochi istanti si lascia trasportare da questa atmosfera extra-sensoriale.
    Sfilata molto differente e lontana dai tempi in cui c’era Marras alle redini del brand con il suo concetto di nomadismo ed unione di più culture.
    Forme geometriche, abiti minimali da colori tenui rendono la collezione elegante e pulita.
    Tutto ciò avvolto in un’atmosfera incantata, trasforma una sfilata lineare in un’ esperienza d’impatto e indimenticabile.

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  14. Valeria   4 Febbraio 2013 at 11:35

    In light of the recent Kenzo fashion show, many people have been discussing the changing role or the traditional fashion show in today’s industry. Undoubtably, fashion shows or events as they should be called have become an increasingly important part of the annual process for many brand, for those fortunate enough to show in Milan, Paris, London and New York, the shows are the culmination of six months of late nights, endless lists and nail biting stress.

    But, in spite of this, the value of fashion shows as a means of presenting the new collection with the idea of sales in mind has come under fire. The question many brands are asking themselves in the new year is: to show or not to show ( in the traditional sense)

    Fashion shows started as a means to show the newest collection of garments to clients and buyers and over the years has evolved from a commercial experience to a ritual expereince and finally to the “fashion show” to which we are familiar, which in all fairness should really be called an event or performance.

    The objective of the sacred bi-annual show has shifted and is now focused on comunicating an experience, a mood. Designed to bring the consumer or spectator into the world of the brand, the collections almost seemed to be lost in the hype of the ‘party’, which flashy visual and extremely conceptual presentation shifting the viewers attention from the core of the show- the clothing.

    The choice of whether or not to show is defenetly a hot topic amongst the industry- is it possibly to fine a harmonic balance between it’s rational and emotional sides or is it worth throwing an event and then a seperate commercial runway show for buyers and press.

    Recently KCD worldwide has made there online fashion week available to the public, where previously only industry approved members had access to the shows. THe unique point of the KCD shows is that being originally intended as a market and commercial tool it offers an insight view on fabric choices, material styling . This unconventional way of shsowing fashion week has not only opened up an exclusive world to the general public but is also helping to form a new type of fashion show.

    Fashions shows are traditionally categorised as either comemrcial, ritual, performance or event but with initiaves such as that of KCD one could almost say that a new style is emerging- VIRTUAL RUNWAY

    whether or not the industry embraces this new approach is yet to be seen, but in a world that is evolving tecnologically very rapidly it definetely seems the case

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