Vincent Peters: Timeless Time a Bologna

Vincent Peters: Timeless Time a Bologna

BOLOGNA – A Palazzo Albergati è aperta al pubblico fino al 1º ottobre 2023 la mostra del celebre fotografo, famoso per le sue immagini di moda e per i ritratti di numerosissimi esponenti dello Star System.

Un fotografo che voglia primeggiare nei generi “moda” e “ritratto” oggi, in un mondo nel quale tutto sembra essere stato fotografato e codificato, tra le altre cose, deve in qualche modo trasformarsi in uno scaltro psicologo. In definitiva chi scatta fotografie di livello professionale sa benissimo che il suo punto di ripresa sarà esattamente il luogo mentale nel quale si collocherà il fruitore dell’immagine e il trucco per creare una efficiente rappresentazione di uno stato interno del soggetto di un ritratto, consiste nel farlo diventare attivo nel processo percettivo che lo mette in relazione con chi guarda. Al tempo stesso, è nella logica della situazione che il soggetto della foto di un ritratto non deve semplicemente mostrarsi, farsi catturare dall’obiettivo, mortificarsi per meglio apparire come una sorta di effigie umana, bensì deve recitare un ruolo, una presenza che ha come sfondo una orchestrata messa in scena del contesto visivo. Solo così il processo percettivo implicato dall’atto fotografico può  funzionare come un canale di trasmissione emotiva dal quale potrà emergere una curiosa forma di empatia che ci rende sensibilmente presenti nel gioco a due tra noi e l’immagine.
Intendiamoci, il modo codificato e/o tradizionale di fare un ritratto nel caso che il soggetto sia attraente o famoso, ha il suo fascino. Raggelando il soggetto in una posa, in una espressione si riesce comunque a creare l’illusione di una effervescenza psicologica che però ci blocca, quando va bene, in una stasi contemplativa. Entrare in relazione con il soggetto è un’altra cosa, implica una trasformazione percettiva, un percorso di senso più sottile, una più raffinata regolazione di ciò che chiamiamo efficacia di una immagine: non vediamo più solo un volto o un corpo che possiamo ammirare; vediamo piuttosto un soggetto che si fa narrazione e che ci ingaggia in modo più articolato, lasciandoci con il sentimento di avere appreso qualcosa che va oltre alla bellezza.
 

Vincent Peters, Charlize Theron I 2008

Vincent Peters non ha avuto bisogno di troppi studi per capirlo. Tra l’altro pare che quando era giovane fosse particolarmente irrequieto dal momento che fu cacciato dalle scuole che stava frequentando. I genitori, persone intelligenti devo dire, gli consigliarono di straniarsi dall’ambiente che evidentemente gli faceva problema e allora Vincent, da Brema (Germania) scelse di trasferirsi a New York.
All’inizio per sbarcare il lunario faceva lavori non proprio esaltanti per un giovane inquieto e ambizioso, lavori come il cameriere, ma nel frattempo coltivava le proprie pulsioni cercando per esse il mezzo e il fare per imbrigliarle. Non avendo voglia o tempo per immergersi nell’apprendimento di tecniche che implicavano una lenta fase di
studium, scelse la macchina fotografica per esprimere la propria verve creativa. Fece l’apprendista in uno Studio fotografico e coltivò il sogno di divenire un artista. Purtroppo o per sua fortuna le sue prime foto d’autore non ebbero successo, e quindi fatalmente si impegnò con serietà a produrre immagini più commerciali, ma nelle quali, bisogna pur dirlo, insufflava tutte le esperienze significative che attraversava. Con il senno di poi, oggi riesce facile riscontrare anche nelle sue campagne di advertising, le ineffabili differenze dalle quali inferire una mente creativa alla ricerca di qualità e, aggiungerei, di stile. 

A tal riguardo, il cambiamento decisivo per la sua vita lavorativa e creativa avvenne quando cominciò a collaborare con l’agenzia di Giovanni Testino (fratello del famoso Mario Testino, grande fotografo di moda). In pochi anni riuscì a conquistare una ottima reputazione e le sue foto, i suoi reportage, i suoi ritratti, apparvero su riviste importanti come Vogue (soprattutto ed. Italiana, spagnola, portoghese), The Face, Harper’s Bazaar. Si può dire che la moda,  nella fase di crescita dell’autore, abbia rappresentato una efficace sintesi tra la necessità di incamerare risorse vitali, soldi per vivere decentemente voglio dire, e lo sviluppo del suo percorso più artistico. La foto di moda, lo sappiamo tutti, è ancorata al business per immagini, ma non può evitare di esasperare le tensioni creative.

Si alimenta senza soluzioni di continuità di emozioni che genericamente approcciamo con parole come bellezza, seduzione, glamour, piegandole al rispetto di una sostanziale efficienza, utile alle finalità aziendali.
Nello stesso tempo non può sterilizzarsi in stereotipi visivi e quindi rappresenta un campo aperto ad incursioni artistiche.
 

Vincent Peters, Christian Bale II, 2012

Una delle affermazioni a mio avviso più significative dell’autore, estrapolate dalle tante interviste rilasciate alla stampa quando divenne famoso, credo confermi la mia lettura: 

“You don’t make a photograph must with a camera – dichiara Vincent- You bring to the act of photography all the pictures you have seen, the bookshop you have read, the music you have heard, the people you have loved”. 

Di certo un modo originale per ricordarci che una fotografia comincia molto prima dello scatto che la materializza; suggerisce inoltre che in ogni sua immagine, il fotografo mette in gioco la sua vita o, se lo preferite, le sue esperienze e le sue intuizioni. 

Nel corso del tempo Vincent Peters è diventato un autore capace di primeggiare in molti generi fotografici. Voglio dire che ha imparato a padroneggiare le forze visive attive nel campo dell’immagine, che conferiscono ad essa una struttura, una solida architettura. Ma la sua specificità, mio avviso, dipende da un afflato dilettantesco che non ha mai abbandonato ma solo trasformato. In altre parole, penso che come fotografo non si sia mai nascosto dietro il velo di una professionalità solida ma piatta e tutto sommato ripetitiva. Ha cercato la sua regola, e quando l’ha trovata l’ha seguita con coerenza e perseveranza. 

Questo aspetto del suo approccio mi riporta alla mente la teoria del “dilettante” espressa da Goethe (e da Shiller) ovvero, del soggetto creativo che cerca preferibilmente la lindura. Cos’è la lindura per Goethe? È la perfezione dell’esistente. L’afflato del “dilettante” si correla al desiderio di creatività che dal romanticismo in poi diverrà uno dei tratti più evidenti della modernità. Intendiamoci, so benissimo che per Goethe la qualità della bellezza definita lindura implicava il rischio di un eccesso di soggettivismo. E di passaggio suggerisco al lettore di non interpretare la parola nel senso ordinario di “lindo ovvero pulito”. L’essere dal romanticismo in poi ha sempre in sè qualcosa di problematico e misterioso. L’artista o il dilettante costeggia costantemente questa rientranza dell’essere che potremmo immaginare come una forma di imperfezione, per ovviamente redimerla, correndo però il rischio di perdersi nell’oscurità. 

Vincent Peters, Vincent Cassel 2008

Ma non è il caso di Vincent. Infatti, riferendomi ai suoi atti fotografici, ho parlato di un bilanciamento tra professionalità (che in questa sede, io traduco con padroneggiamento delle tecniche considerate uno standard, unitamente al magistrale utilizzo della luce) e afflato del dilettante (desiderio di creatività, di perfezione). L’afflato dunque, grazie al bilanciamento che ho congetturato, non diventa mai un effluvio (cioè un eccesso o una provocazione); di conseguenza il suo colpo creativo non perde mai la bussola dell’efficienza. 

Il campo di immagini nel quale emerge con maggiore performanza questo controllo della lindezza è senza dubbio il genere ritratto del quale Vincent è attualmente uno degli esponenti più ricercati e acclamati. 

I tratti caratteristici del suo stile ritrattistico sono: la prevalenza di un bianco/nero lavorato in modo originale soprattutto grazie ad una scelta appropriata delle luci; la giustezza e l’essenzialità dello sfondo anche quando si presenta articolato e composito, sfondo messo in movimento da una superba regia delle gradation grigiastre. A queste due pseudo invarianti aggiungerei una cura particolare verso la disposizione del soggetto, difficile da descrivere, ma che lascia percepire l’invito a entrare in una storia…In altre parole, Vincent non fotografa “modelli” bensí soggetti attivi, protagonisti di narrazioni che non udiamo ma ci pare di vedere e sentire. Infatti una delle sue citazioni più frequenti suona così: “uno scatto riuscito è come una conversazione”. Una frase ad effetto, senza dubbio. Ma cosa significa realmente? Se osservo la foto (1) di Charlize Theron, la naturalezza della posa rilassata effettivamente mi fa pensare ad un intenso ascolto (quando per sentire in profondità le parole socchiudiamo gli occhi). Il Christian Bale della foto (2), invece, rivolge uno sguardo diretto e leggermente obliquo ad un misterioso interlocutore; ancora, in uno dei numerosi ritratti di Vincet Cassel (3), l’attore scruta accigliato qualcosa che sta accadendo lì vicino. Una delle foto che preferisco (4) ritrae Scarlett Johansson interrogata dallo specchio che le rimanda il messaggio di una bellezza sensuale, enigmatica, forse alla lunga insostenibile. Insomma, Vincent non dice che lo scatto riuscito “è una conversazione” ovvero non ipotizza una relazione di uguaglianza tra due sistemi semiotici (immagini e parole); usa l’espressione “è come” per stabilire un paragone…Se ci pensate bene, nella vita ordinaria è soprattutto con le conversazioni che ci scambiamo le storie o le narrazioni con le quali entriamo in relazione. Può persino succedere che una conversazione ci cambi la vita. Penso di poter concludere allora, che per Vincent un ritratto riuscito oltre alla maestria tecnica e alla fotogenia, debba implicare la sensibilità o la scaltrezza del fotografo nel trovare le parole che ingaggiano il soggetto facendolo entrare in una situazione. Naturalmente tanti altri grandi fotografi che eccellono nel genere ritratto conoscevano benissimo questo tipo di regole di ingaggio. Richard Avedon, Irving Penn, solo per citare di una lunga lista un paio di nomi, erano particolarmente efficaci nel creare sul set l’atmosfera, il feeling appropriato per immergere il soggetto dello scatto nello stato emotivo conforme al loro progetto. Cosa aggiunge di suo Vincent? La metterei giù così: nel rispetto della regola, dopo prove ed errori suppongo, ha trovato una personale regolazione della fase decisiva dello scatto che come ho già detto non è il clic dell’otturatore bensì la presa in cura della disposizione del soggetto attraverso la condivisione di narrazioni ad hoc. 

Vincent Peters, Scarlett Johansson, 2017

Molti critici hanno interpretato questa fase regolativa nei termini di propensione di Vincent ad un Cinematic Style che incapsula nel campo fotografico le valenze percettive normalmente attivate da un buon film (quelli brutti ci annoiano, vaporizzano l’attenzione, ci buttano fuori dal tempo della narrazione). Indubbiamente l’effetto cinema è riscontrabile in tantissimi suoi scatti, ma non dobbiamo dimenticare che se l’azione, il movimento e in definitiva il tempo in un film sono a livello di fruizione espliciti, nella fotografia possono essere solo suggeriti. Per dirla con Deleuze nell’immagine-movimento del film, il tempo ci è dato con immediatezza tale da rendercelo molto vicino alla percezione del tempo ordinario che esperiamo a livello ambiente (è quello che sostiene anche il percettologo J.Gibson nella sua teoria ecologica della visione). Il tempo in una fotografia è più pensoso nel senso che resta primaria la traccia di qualcosa che “è stato” (R.Barthes) e la cognizione del movimento-tempo richiedono immaginazione più che percezione. 

Il titolo della mostra tra l’altro mi pare particolarmente azzeccato per tradurre nel simbolico la differenza tra tempo fotografico e tempo cinematografico. 

Timeless Time (tempo senza tempo) è un felice ossimoro (figura retorica che si produce nella stessa frase accostando parole dal significato contrapposto), nel senso che rappresenta un buon espediente per indicare una realtà esistenziale alla quale riesce difficile l’attribuzione di un nome. Non sto parlando dello stereotipato e abusato riferimento all’eternità che molti indicano come la qualità temporale dei capolavori. Penso a qualcosa di più interiore, cioè là dove nasce il sentimento del tempo per noi esseri umani. 

Per cogliere nel discorso critico questa dimensione esistenziale implicita nei ritratti di Vincent Peters  (e di molti suoi colleghi) è come se la lingua dovesse contraddire se stessa per orientare la nostra sensibilità verso significati più profondi, dalla concettualizzazione complicata, che però possono essere mostrati (da particolari immagini). Il Timeless Time ovvero il tempo che sfugge alla cronologia, alla direzionalità, che sfugge sia al passato che al futuro è, tra le altre cose, il tempo della nostra enigmatica presenza di fronte ad una immagine che ci attira per bellezza o semplicemente interesse. Come ci ricordava M.Kundera nel suo romanzo forse più riuscito ovvero “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, la “presenza” del soggetto nel gioco della vita è sempre perduta, ed è per questo, aggiungo io, che siamo propensi a dare valore alle esperienze, nel nostro caso ai ritratti in oggetto, che creano l’illusione di una sua stabilizzazione.  Di questo Timeless Time, Vincent Peters  è decisamente un maestro o uno stregone, decidete pure voi l’espressione che preferite; “conversare” con i suoi personaggi ci fa essere leggeri ma anche presenti nel tempo. 

Vincent Peters a Palazzo Albergati

 

 La mostra Vincent Peters. Timeless Time  

Palazzo Albergati, via Saragozza    (Bologna) 

Dal 28 giugno-1 ottobre 

Aperta tutti i giorni 10,00-20,00 

Informazioni e prenotazioni 051 030141 oppure visitando il seguente sito cliccando qui

 

Lamberto Cantoni
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9 Responses to "Vincent Peters: Timeless Time a Bologna"

  1. mary   21 Luglio 2023 at 11:00

    Una bellissima mostra, tanti capolavori fotografici. A me è piaciuta la foto della modella vista con il filtro del vetro rotto.

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    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   22 Luglio 2023 at 09:01

      Sono d’accordo. La foto che citi è intrigante. Ma perché Vincent Peters ha scelto questa soluzione? Forse con la rottura della superficie vetrosa e il disordine imposto al volto della protagonista, voleva alludere alle molteplici identità che deve orchestrare una brava attrice (mi pare di ricordare che il personaggio della foto non sia una modella bensì una attrice). Questo effetto cubista trasforma in un enigma l’identità del soggetto e modifica la percezione della bellezza, costringendoci a deviarla attraverso imperfezioni,

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    • luc97   22 Luglio 2023 at 09:29

      In effetti il personaggio della foto citata da Mary è Amanda Seyfried. Rompendo lo specchio il fotografo ci costringe a vivere l’immagine con inquietudine. Io non ci vedo nessuna psicologia ma solo un espediente formale.

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      • Antonio Bramclet
        Antonio   22 Luglio 2023 at 12:03

        Più che uno psicologo questo Peters sembra psicoanalizzare gli ingnari protagonisti dei suoi ritratti. La mostra è molto bella come tutte quelle viste a Palazzo Albergati.

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  2. maurizio   21 Luglio 2023 at 11:09

    Grande ritrattista questo fotografo. Alcune foto sembrano fotogrammi dei film del nostro neorealismo. Rossellini, Visconti, De Sica…

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    • luc97   24 Luglio 2023 at 08:08

      Sono d’accordo, Peters è cinema neorelista

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      • Lamberto Cantoni
        Lamberto Cantoni   25 Luglio 2023 at 08:34

        Mah! Si fa presto a dire neorealismo. Personalmente preferisco parlare di “elaborazione di un punto di ripresa cinematografico”. In molti suoi scatti vedo gli effetti alla Carnè o alla Renoir (realismo poetico che anticipa il nostro neorealismo); in altri trovo una convergenza con i film espressionisti tedeschi ( in alcune foto, l’impostazione cupa mi ha fatto pensare a Murnau).

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  3. vincenzo   22 Luglio 2023 at 23:58

    Ho visto la mostra di Peters a Milano. Mi è piaciuta e concordo con l’autore, il suo bianco e nero è empatico. A me dava la sconcertante sensazione di essere più reale del colore.

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  4. annamaria   27 Luglio 2023 at 08:14

    Avevo visto a Torino la mostra su Ruth Orkin. Dopo aver visto quella di Vincent Peters credo che Ruth sia molto più cinematografica del Peters. Peters è molto letterario, vuole raccontarci una storia. Ruth desidera semplicemente mostrarla. Il bianco e nero che entrambi prediligono è molto coinvolgente e questo mi sorprende perchè pensavo che fosse il colore a soddisfare il bisogno di bellezza dell’occhio.

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