David Lynch: The Factory Photographs

David Lynch: The Factory Photographs

L’inconscio secondo Lynch

Il lungometraggio intitolato The Dream of the Brokenhearted rappresenta un buon esempio di ricostruzione del processo onirico effettuata con i mezzi audiovisivi del cinema.

The Dream of the Brokenhearted_posterL’irruzione dell’assurdo linguaggio dell’inconscio nella sequenza delle immagini ha come punto di partenza l’intrusione del reale nella vita della protagonista (interpretata da Laura Dern).

Il reale, sembra suggerire Lynch, ha sempre qualcosa del trauma. In questo caso l’aspettualità dell’evento traumatico assume la forma di una dichiarazione di impossibilità: l’uomo amato da Laura, interpretato da Nicholas Cage, rompe la loro relazione con una enunciazione contraddittoria: proprio perché la ama non può non lasciarla.

Mi sembra opportuno ricordare che enunciazioni di questo tipo possono facilmente determinare reazioni che G.Bateson definiva double blind (di doppio legame), responsabili di una messa in processo della soggettività lungo una deriva psicotica.

Infatti dopo lo straniante prologo (i due attori sono bravissimi: sembrano veramente uniti da un amore folle, e al tempo stesso divisi dall’impossibile), il film presenta la schisi nella soggettività della protagonista attraverso l’emersione del suo doppio (interpretato dalla cantante Julee Cruise). Lynch è geniale nel mostrarci la dipendenza del soggetto dell’inconscio dal discorso dell’Altro, suggerendoci che funzioni come un linguaggio paradossale dominato dall’esteriorità. La messa in scena da incubo costruita con la vertiginosa condensazione di tecnologia, corpi metallici, automobili, taglialegna nani, ballerine in topless, animali, frantuma ogni possibilità di linearità della narrazione onirica. E ci insegna che il soggetto del sogno (e/o dell’inconscio) scaturisce da una molteplicità di tracce, configurandosi come luogo di iscrizioni eterogenee. In breve si diventa “soggetti” non tanto interiorizzando le esteriorità bensì nel movimento (metonimico e metaforico) degli oggetti in posizione di significanti (ovvero, ribaltando l’algoritmo del segno di De Saussure, significanti che dominano i significati) che incessantemente frammentano le presunte identità.

Si capisce allora quanto questa esperienza di dissoluzione dell’identità abbia bisogno dell’angoscia, del senso mistero, delle atmosfere oscure punteggiate da colpi di luce e colori dei quali Lynch è maestro.

Mark Berry - Portrait of David Lynch - Courtesy of the artist
Mark Berry – Portrait of David Lynch – Courtesy of the artist

Nel lungometraggio, ma potrei aggiungere in tutti i film dell’autore, la musica ha un ruolo decisivo. In questo caso, Angelo Badalamenti e Julee Cruise, autori del testo sonoro perfettamente integrato alle immagini, sono stati bravissimi nel condurci emotivamente lungo i bordi della disperazione. Grazie a loro e all’insensata bellezza che attraversa le immagini, Lynch ci rivela l’aspetto più inquietante dell’angoscia amorosa. Ci permette di percepire qualcosa del micidiale godimento dell’Altro, nei confronti del quale il sogno (ammesso che il lungometraggio dopo il prologo esplorasse il sogno d’angoscia da separazione della protagonista) è sintomo e al tempo stesso inquietante cura.

Figure del trauma

Le parole più ripetute nelle descrizioni giornalistiche delle opere di Lynch sono, surreale, sogno, mistero, incubo, oscurità, fascino del degrado…

La serie di immagini esibite al Mast di Bologna (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia) non hanno rappresentato una eccezione. È sembrato prioritario al discorso critico riassorbire le foto a ciò che si suppone essere la cifra dell’immaginario dell’autore. Devo dire subito che questi stereotipi non mi soddisfano. L’autore, o per meglio dire i suoi atti fotografici, vanno oltre i surrealismi e i concetti critici noir che ne hanno ingabbiato l’interpretazione.

David Lynch, Untitled (Lodz), 2000 - Archival gelatin-silver print, 11 x 14 inches - © Collection of the artist
David Lynch, Untitled (Lodz), 2000 – Archival gelatin-silver print, 11 x 14 inches – © Collection of the artist

Le immagini di Lynch sono state raccolte a partire dall’esplorazione che l’autore fece tra il 1980 e il 2000 in fabbriche situate in Polonia, Inghilterra e Stati Uniti. Non sappiamo in realtà se fossero industrie in crisi o totalmente dismesse. Tutti gli indizi sembrerebbero pero’ confermarlo. L’autore raffigura gli spazi residuali che lo interessano selezionando in essi dei centri visivi caratterizzati certo da una raggelante drammaticità, ma anche da una sorprendente dignità. In un certo senso, il punto di vista del fotografo, in molte immagini sembra invertire la logica dell’osservatore/testimone oculare e dell’oggetto catturato.

Mi piace pensare che, se la fruizione delle immagini avviene con le scansioni giuste, Lynch ci trascini nel bizzarro gioco di sentirsi osservati da una esteriorità che all’inizio percepivamo come parti di fabbriche, ciminiere, macchinari… degradati dal tempo e dall’incuria. Cosa si produce quando l’esposizione all’immagine crea il paradosso di oggetti e dettagli che ci sguardano? L’effetto dell’inversione dello sguardo fa emergere il carattere perturbante delle foto: osservando le immagini di Lynch, ho avuto la percezione di conoscere quei luoghi anche se ho la certezza di non averli mai vissuti.

David Lynch, Untitled (Lodz), 2000 - Archival gelatin-silver print, 11 x 14 inches - © Collection of the artist
David Lynch, Untitled (Lodz), 2000 – Archival gelatin-silver print, 11 x 14 inches – © Collection of the artist

In breve, le immagini così lavorate, si trasformano in un confronto ravvicinato con il reale. Ecco allora che il degrado, le rovine di un mondo un tempo orgoglioso della sua potenza, perdono ogni riferimento a significazioni moralisticheggianti, intese come monito nei confronti delle vanitas industriali, per divenire segno di ciò che resiste (e insiste per farsi riconoscere).

David Lynch, Untitled (Lodz), 2000 - Archival gelatin-silver print, 11 x 14 inches - All photographs in an edition of 11 - © Collection of the artist
David Lynch, Untitled (Lodz), 2000 – Archival gelatin-silver print, 11 x 14 inches – All photographs in an edition of 11 – © Collection of the artist

In altre parole, le foto di Lynch non mi rimandano al primato del simbolico, bensì ad uno suo svuotamento. Si certo, di fronte ad esse possiamo rimanere facilmente nell’ambito delle interpretazioni rassicuranti e compiacenti con le significazioni politicamente corrette che ho evocato sopra. Il carattere “aperto” o polisemico delle immagini lo consente. Ma io non credo che Lynch sia mosso dall’intenzione di simbolizzare. Direi piuttosto che l’autore sembra molto più interessato a far emergere il carattere traumatico del reale. Quindi non penso che i testi visivi che ci ha presentato puntino la bussola del senso in direzione di una delle numerose estetiche negative, post surrealiste aggrappate alla fascinazione di un mondo interiore preso al rovescio, il brutto al posto del bello, il mostro invece che l’armonioso. Io non credo che Lynch si raffiguri il mondo interiore come una sorta di vaso da riempire di incessanti incubi. In tutte le sue opere, aldilà del registro immaginario, il reale come radicale esteriorità viene mantenuto ben saldo, per far emergere l’esperienza interiore del vuoto. L’arte sembra così essere, per l’autore, organizzazione di un in-più di reale che buca il nostro sguardo e lo inverte.

David Lynch, Untitled (England), late 1980’s/early 1990’s - Archival gelatin-silver print, 11 x 14 inches - All photographs in an edition of 11 - © Collection of the artist
David Lynch, Untitled (England), late 1980’s/early 1990’s – Archival gelatin-silver print, 11 x 14 inches – All photographs in an edition of 11 – © Collection of the artist

I suoi paesaggi industriali sembrano nascere ai margini del nulla; così come il de-sign delle configurazioni che nascono ai margini delle grandi macchie nere che le incalzano sono come una enunciazione di (r)esistenza.

Ecco perché io trovo in Lynch una pulsione etica originale rispetto agli effetti di molti vangeli estetici in circolazione. Si certo, la bellezza oscura delle sue foto rappresenta pur sempre una sublimazione. Ma non c’è incantamento, non c’è ottundimento o l’effetto narcotizzante che la fruizione post moderna ha imparato a estrarre persino dall’orrore.

David Lynch, Untitled (England), late 1980’s/early 1990’s - Archival gelatin-silver print, 11 x 14 inches - All photographs in an edition of 11 - © Collection of the artist
David Lynch, Untitled (England), late 1980’s/early 1990’s – Archival gelatin-silver print, 11 x 14 inches – All photographs in an edition of 11 – © Collection of the artist

La mia ipotesi è che il particolare effetto che Lynch trova nelle pratiche artistiche multiformi delle quale è divenuto sia un esploratore che un interprete magistrale, sia legato a questo incontro con il reale che, dal mio punto di vista, implica l’attraversamento del vuoto.

Lamberto Cantoni
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One Response to "David Lynch: The Factory Photographs"

  1. Camilla Violi   3 Febbraio 2015 at 11:57

    La mostra di David Lynch tenuta al Mast di Bologna è stata come un viaggio dentro se stessi.
    Nelle sue foto, tramite quel senso di vuoto di cui lei parla nell’articolo, è stato possibile visitare luoghi sconosciuti ma familiari, che in fondo non si trovano lontani dal nostro immaginario collettivo (se si pensa alla quantità di fabbriche e edifici di vario generi dismessi in Italia). L’oscurità esposta immagine dopo immagine sembra avere una duplice funzione: quella di immaginare come potessero essere queste fabbriche quando erano ancora in attività (e quindi nella loro fase di splendore), dall’altra sembrano gridare allo spettatore di non abbandonarle, come fossero un monito per ricordare che al mondo ci sono anche loro, nella speranza che qualcuno le ascolti. Credo che Lynch in queste foto abbia donato umanità agli edifici trasformandoli in essere viventi che feriti sperano di essere salvati.

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