Non luogo a procedere di Claudio Magris. Un museo della guerra per costruire la pace

Non luogo a procedere di Claudio Magris. Un museo della guerra per costruire la pace

ITALIA – A chi non piace la pace? In non luogo a procedere Magris se ne occupa scrivendo un romanzo di estremo interesse per la storia che narra. Si narra di un museo della guerra che il protagonista, nel testo senza nome, collezionando armi di tutti i tipi sogna di costruire. Nella Trieste dominata dalle truppe nazi-fasciste in un grande capannone ammassa tutto per rendere il suo museo della guerra un potente museo perla pace. La dottoressa Luisa Brooks, dopo la morte prematura del collezionista, ne continua l’opera per incarico delle autorità. Mentre si dedica a organizzare il museo,  legge  i diari del collezionista ed è lei che così informa il lettore via via dei suoi pensieri, azioni, interessi.

Ma Non luogo a procedere non è il romanzo solo di questo collezionista o di Luisa, il filo della storia è molto articolato e interseca una molteplicità di personaggi ed eventi. Così Non luogo a procedere  è un romanzo corale che trascina il lettore in epoche e storie diverse, seppur collegate in qualche modo. Vi leggiamo tra l’altro anche numerosi fatti e storie di personaggi, alcuni sicuramente esistiti, al punto che alcuni capitoli sono un piccolo romanzo all’interno del romanzo.

Un bellissimo e interessantissimo inserimento in questo senso è la storia di Un chamacoco a Praga. Si narra qui di un Indio portato in Europa agli inizi del ‘900 dal famoso etnologo e botanico ceco Alberto Vojtech Fric. Il paraguaiano Cerwuis al Caffè Savoy di Praga si sentirà come nella foresta, perché tutti fanno parte di tutti, per amarsi, mangiarsi, far la lotta, giocare, e nessuno è straniero da nessuna parte. Quelli là, con i cappotti lunghi, saltano, ballano intonano cantilene monotone come quelle dei chamacoco…... Chi è estraneo a chi?

Ma questo quadro fraterno e interculturale è seguito da scene profondamente diverse,  perché nel frattempo in Sudamerica indigeni boliviani e paraguaiani combattono tra loro. Non ci sono più Chamacoco, Tumanà e altre tribù, tutti sono contro tutti, Queste pagine sono un grido intenso contro la guerra.  Uno sterminio raccontato con le parole degli indigeni, con le loro immagini primordiali, prescientifiche, primitive. Sul fiume di sangue raccontato con ritmo concitato e coinvolgente una grande domanda si impone: ma uccidere e morire per che cosa?

Altre storie inserite sono quella di Sara, mamma di Luisa, di suo padre, il sergente americano Joseph Brooks del reparto afroamericano diventato poi  88° divisione, dei nonni e di due i trisavoli rispettivamente di Luisa e  del collezionista raccontati secondo un meccanismo a specchio.

Luisa de Navarrete costituisce un  esempio splendido: “una schiava ovvero esclusa dall’umanità ma capace di riconquistarla, una donna di colore che sposa un nobile spagnolo grazie alla sua intelligenza, cultura e personalità. Carlo Filippo di Alcantara è invece un avventuroso commerciante e furfante  insieme che ritornò a Trieste con una donna di colore che, quando si muoveva, per la sua armonia sembrava danzasse: un anticonformista amante della vita.

Luisa Brooks in questo romanzo corale rappresenta un personaggio fondamentale perché discende sia dal mondo ebraico che da quello dei neri d’America. La novità di Magris è vedere gli ebrei associati ai neri nella storia dell’ingiustizia: il fetore dei forni crematori, il fetore delle navi negriere, il sangue versato nei campi di cotone e il sangue dell’alleanza accostati, la storia della schiavitù e la terra promessa.

Perché Magris in un romanzo contro la guerra inserisce questi capitoli? Mentre la storia generale perde senso, è avvolta dal terrore e dallo sterminio, i singoli uomini e donne rappresentano pezzi di dignità e Magris li racconta con dovizia di particolari, come a dire che la storia sono anche loro, ovvero siamo anche noi.

Il senso delle radici, degli incontri, degli amori, l’intelligenza e la capacità di adattamento dei nostri avi, la loro onestà morale o furbizia sono come luci a cui guardare.  La storia delle origini, la storia familiare produce un’interpretazione, la ricerca delle costanti, la visione di una continuità che il trionfo della barbarie nazista sembra avere spezzato.

Questi racconti non sono un atto consolatorio in Magris né puramente letterario: è un radicarsi in ciò che non può essere espropriato,  una prospettiva ermeneutica che allarga l’orizzonte e permette di dire che, nonostante il possibile riemergere di ingiustizie e regimi oppressivi, c’è sempre la possibilità della resistenza, del non perdersi nel cammino grazie alla forza della memoria, del ricordare chi si è e chi si è stati. Perché la storia che ci precede talvolta può essere infinitamente migliore di quella che temporaneamente viviamo.

Resta comunque innegabile che Il cuore del testo è la città di Trieste, dove si svolge la vita e la storia  di Luisa, che scopriamo per quadri successivi, senza fretta.

Si comincia con la madre, la piccola Sara la cui emoziona particolarmente il lettore. Sara viene mandata durante il periodo bellico in terra istriana, in fuga dai combattimenti che interessavano quel lembo di confine. Quando lei ritorna a Trieste  trova solo gli zii ad aspettarla. Mamma Deborah era stata portata via dai rastrellamenti e stranamente, dopo che Deborah era stata catturata, la famiglia che la ospitava e gli altri ebrei nascosti nella casa furono prelevati dalla Gestapo e non se ne era saputo più nulla. Ma il tradimento non è solo una questione personale, ma collettiva, come vedremo a breve.

La storia delle storie riguarda infatti un luogo, la Risiera di San Sabba, il campo di detenzione con l’unico forno crematorio d’Italia, dal cui camino usciva un fumo da tutti visibile.

Nell’immediato dopoguerra, Con le cugine Sara frequenta le belle ville di Trieste dove si balla e così  scoprirà che quelle belle ville illuminate erano l’altra faccia della Risiera (qui lei scopre ciò che gli altri triestini già sapevano), il salotto buono del mattatoio: scoprirà che la villa di Egon Lerch era quella di un sadico e ottuso boia ora però ben accetto da persone perbene. Il colonnello Lerch era proprio l’ addetto al mattatoio della Risiera, il capo di stato maggiore, quello che eliminava i detenuti con la camera a gas.

Se Lerch è benvoluto e amichevolmente frequentato, colpisce il lettore che la commissione di epurazione invece convochi il collezionista quale interprete delle truppe fasciste. A questo punto veniamo a sapere che lui già in gioventù non amava il fascismo e che aveva indossato la camicia nera per mimetizzarsi, pronto alla guerriglia che farà senza armi. Ottimo interprete, durante gli scontri tra tedeschi, jugoslavi, partigiani , fascisti, schiva le pallottole e porta ordini e proposte e controproposte,  aggiunge o toglie passaggi che possono inasprire gli animi, smussa le ostilità per costruire la pace. Quando tratta il 30 aprile e il 1 maggio con i tedeschi salva i triestini rastrellati.

In questa Trieste, prima della fine della guerra,  il nostro collezionista riceve la chiamata del destino. In luogo di collezionare, come aveva fatto fino ad allora, oggetti inutili e cianfrusaglie, dopo aver fatto l’amore con la donna che aveva sognato fin dalla gioventù, “scopre” la Risiera e vi entrerà. Ma con un animo diverso dal passato: lui alla risiera non fa più il collezionista, cerca la verità, è all’opera contro l’oblio e scrive nomi , di vittime e carnefici affidati a quei muri.

Magris osserva che dopo il 30 aprile ’45 vige un ordine sotterraneo ma condiviso: dimenticare tutto, dimenticare i nomi. Tutti unanimemente fanno finta di niente: nessuno voleva più parlare del passato….

Il nostro protagonista lotta contro l’ occultamento, il cancellare l’assenza dei morti, di quelli che sono passati per il camino e si fa finta che non siano mai esistiti, cancellando quindi con loro il nome dei vivi colpevoli. Magris esprime la convinzione che la verità è difficile da trovare nella Storia,  ma va comunque cercata, non si possono ignorare i fatti e nasconderli.

Alla Risiera,  macelleria di massa di Oberhauser, 17 celle di tortura, camera a gas e forno crematorio,  si fece sparire tutto: il camino, il garage, il crematorio, i documenti…. Joseph Gaspar Oberhauser, diventato poi birraio a Monaco, fece saltare tutto in aria tra le 2 e le 3 del mattino del 30 aprile.

Il muro della Risiera è stato in seguito prontamente imbiancato, cancellando tutte le scritte.

E’ questo l’inferno; l’amnistia generale, l’assoluzione prima del processo, il non luogo a procedere,  dice nel romanzo il già fascista Ruzzier quando  consegna al protagonista la lista degli invitati alla festa del 20 aprile ’45, al Castello di Miramare, per il compleanno di Hitler:  pagine con nomi, cognomi, spie, delatori, ospiti di passaggio, visite di cortesia.

Ma di tutto ciò e della lista dei nomi raccolti dal protagonista nulla è rimasto. Dove sono finiti i suoi quaderni? Oltre ai dubbi, restano le contraddizioni della storia. La medaglia a partigiano a Ercole Miani di Giustizia e Libertà e torturato dal commissario Collotti, medagliato pure lui post mortem. Magris con precisione chirurgica presenta questi e altri fatti e nomi e la tristezza aleggia su queste pagine.

E qui tornano a mente le feste cui partecipava Sara e il salotto buono di villa Lerch. Sara, ovvero Magris, pensa che sia ingiusto considerare uguali il carnefice e la vittima, chi tortura e chi viene massacrato. Ma ovviamente su tutto prevale il Non luogo a procedere.

Un libro scomodo, intrigante, difficile, complesso, lirico in certe sue parti, sempre ricco di intensità, scritto per ricordare fatti sulla linea del DOLORE di UOMINI E DONNE vittime di ingiustizie e violenze umilianti.

non luogo a procedere
immagine di Diego de Henriquez

Magris nella Nota finale dice di essersi ispirato, con la dovuta finzione corrispondente alla scrittura letteraria, a un triestino realmente esistito, geniale e  irriducibile, Diego de Henriquez che raccolse per tutta la vita armi per aprire un museo finalizzato alla pace nella sua città.

Ed è con grande piacere che comunichiamo che a Trieste il Museo  di guerra per la pace Diego de Henriquez è stato aperto nel 2014, grazie alla donazione delle armi selezionate e raccolte da questo cittadino triestino con una collezione costituita da circa 15.000 oggetti relativi sia alla prima che alla seconda guerra mondialeNon si tratta di un museo “di guerra” comunemente inteso, ma del “museo della società del Novecento in guerra” con i suoi demoni e i suoi orrori, nel lungo e contrastato cammino verso la pace.

Informiamo i lettori che il museo prevede l’INGRESSO GRATUITO sino al 31 dicembre 2020, come tutti gli altri musei civici triestini.

non luogo a procedere

Un’occasione da non perdere, perché (mi hanno detto) questo museo è molto bello.

non luogo a procedere

Clicca qui per vedere la presentazione del museo:  link 

 

 

 

Teresa Paladin
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