Underground Nostrano: i frantoi ipogei del Salento

Underground Nostrano: i frantoi ipogei del Salento

PUGLIA – Un viaggio alla scoperta delle miniere d’oro verde, tipici edifici ricavati nel sottosuolo pugliese e testimonial delle strutture industriali di produzione dell’olio d’oliva del passato.  

Scalinate ripide scolpite nel tufo partono da strutture che ricordano i boccaporti delle navi antiche o robuste scale a pioli di legno, poggiate ai bordi di grandi botole, portano all’interno di cavità sotterranee, molto diffuse nelle campagne salentine.  Una rapida occhiata e pochi passi in un qualunque dei molti frantoi ipogei, e si è catturati da un’affascinante atmosfera umida e calda che sembra far parte di una descrizione omerica. Diversi per forma e dimensione, questi tipici edifici ricavati nel sottosuolo pugliese, sono testimonial delle strutture industriali  di produzione dell’olio d’oliva del passato. Essi contribuirono all’economia della Penisola per secoli, restando attivi in alcuni casi fino a periodi tanto recenti, da essere ricordati in funzione da molti settantenni d’oggi.

 La poca luce del sole che raggiunge i locali sotterranei dall’ingresso e dalle poche aperture del trappitu, dal nome latino del frantoio trapetum, era la sola che i cinque o sei trappitari che vi lavoravano, vedevano tra novembre e maggio. Durante questo lungo periodo, la macina megalitica smetteva di girare nella vasca solo per l’Immacolata, Natale e Capodanno. In questi giorni festivi gli uomini potevano risalire la scala di tre o quattro metri, per tornare dalle famiglie e alla luce del giorno.

frantoi ipogei
I Frantoi Ipogei del Salento: foto di Marco Serri

Il lavoro nel frantoio tra le pareti carsiche annerite dal fumo, era molto duro. I turni andavano dalle due e terminavano alle diciotto ed erano assegnati dal nachiro, il responsabile della struttura produttiva. Gli operai erano stagionali, marinai nella buona stagione si riciclavano trappitari nei periodi freddi, col diminuire della richiesta di equipaggi sulle imbarcazioni.

 Tutto il lavoro avveniva a forza di braccia, a eccezione del moto circolare della macina di pietra, affidato al traino del mulo o dall’asino. Un campanello nella semioscurità appena schiarita dalla luce delle lampade ad olio, scandiva i passi dell’animale che bendato girava intorno alla vasca. Al termine del ciclo dei sei mesi lavorativi, la bestia era talmente stremata da servire solo come carne da macello.

Nel frantoio esisteva una gerarchia di tipo marinaresco in cui il capitano (nocchiero) era il nachiro, il “padrone della nave”, come da traduzione letterale del termine greco naùcleros, da cui deriva. Il suo primario compito era di dirigere personalmente la lavorazione di premitura, di purificazione dell’olio e la separazione dall’acqua, operazioni di vitale importanza ai fini qualitativi della produzione. Si occupava anche di tutta la parte economica, contrattando con i clienti i compensi dovuti al frantoio per la lavorazione delle olive e stabilendo la paga agli operai, dei quali programmava i turni di lavoro e riposo. Il nachiro era anche la guida spirituale del gruppo e provvedeva a benedire il cibo, recitare il rosario e le preghiere serali. Un ragazzo molto giovane faceva, in genere, parte del gruppo di lavoro del frantoio, una figura simile al mozzo di una nave che si occupava di semplici lavori come portare l’acqua e preparare i pasti per i lavoratori, nutrire e accudire agli animali da tiro.

I Frantoi Ipogei del Salento: foto di Marco Serri

Il frantoio era spesso costituito da un ambiente grande centrale, cui si accedeva direttamente dall’entrata e da altri spazi perimetrali più piccoli. Il vano principale, di forma circolare, accoglieva la vasca con la macina, un grande cilindro monolitico verticale che serviva per la frantumazione delle olive. Nei frantoi di piccola dimensione i torchi per la premitura erano sistemati lungo le pareti dell’ambiente centrale, mentre nei più spaziosi esistevano locali diversi, riservati a questa seconda fase della lavorazione.

Altri ambienti dell’edificio erano i depositi/magazzino per le olive, la stalla, uno spazio con il tavolo per i pasti e i dormitori; quest’ultimi erano quasi un lusso, in mancanza dei quali, gli operai trascorrevano i turni di riposo in cavità e ripiani scavati nel tufo, su sacchi pieni di paglia come materasso.

Le olive venivano scaricate dall’alto in piccole aperture di superficie, direttamente nei depositi del frantoio, ognuno dei quali era riservato alla produzione degli uliveti di un singolo cliente che poteva così controllare il proprio prodotto e il quantitativo di olio ottenuto.

I Frantoi Ipogei del Salento: foto di Marco Serri

Dopo la frantumazione nella vasca sotto la macina, la lavorazione continuava con l’eliminazione dei frammenti di semi dalla polpa prima della premitura, fase del trattamento che si portava  a termine con i torchi di legno. Ne esistevano due modelli, “alla calabrese” e “alla genovese”, ambedue verticali, e funzionavano a forza di braccia. Il primo tipo era composto da due grandi pali di legno duro, filettati, saldamente fissati in alto e in basso sui quali impanavano delle chiavarde. Esse  premevano su assi sempre di legno che pressavano la polpa estraendone il prezioso liquido. Il secondo tipo di torchio, quello “alla genovese”, era molto simile al precedente per funzionamento, con la differenza che doveva essere montato in una nicchia ricavata da una parete. Una cavicchia lignea, impanando su di un unico asse cilindrico filettato, premeva in basso un piano di legno che scorreva lungo due guide laterali, mantenute verticali da un’opera in muratura. L’olio che usciva dal torchio finiva in un sistema di canali e scorreva fino alle vasche di deposito interrate, dove restava a decantare per il tempo necessario, fino al momento del “taglio”. Come già accennato, il nachiro curava personalmente questa fase della lavorazione, durante la quale avveniva la separazione dell’olio dall’acqua e la purificazione dalle impurità. Tutti i residui solidi della lavorazione erano utilizzati, potevano servire per alimentare il fuoco, come fertilizzanti e per integrare il mangime degli animali.

TUTTI GLI ANTICHI TRAPPITI DEL SALENTO ERANO IPOGEI

I Frantoi Ipogei del Salento: foto di Marco Serri

I frantoi ipogei hanno incrementato l’attività economica del Salento, producendo olio d’oliva dal Medioevo fino agli anni Quaranta, quando la maggior disponibilità di energia elettrica determinò anche in questo campo radicali cambiamenti. Tutti i frantoi salentini del passato erano ipogei o semi-ipogei. Essi furono ricavati nel sottosuolo, sfruttando le cavità naturali della roccia carsica particolarmente ricca di grotte e gallerie. Per ragioni igieniche erano spesso fuori dai centri abitati, in ambienti a sé o facenti parte di masserie, di possedimenti rurali e in alcuni casi anche nelle terre di proprietà delle chiese. L’eliminazione delle scorie liquide della lavorazione avveniva con estrema facilità per dispersione nelle fenditure del tufo, senza arrecare problemi igienici né incombenze economiche.

Per molti motivi queste strutture erano interrate. 

I Frantoi Ipogei del Salento: foto di Marco Serri

Prima fra tutte la necessità di conservazione dell’olio a una temperatura compresa tra i quindici e i diciotto gradi centigradi per mantenere la qualità del prodotto, con il  limite minimo dei sei gradi perché freddandosi si addensa, ne diventa impossibile la lavorazione e difficile il prelievo. La temperatura dell’ambiente sotterraneo era piuttosto alta per i fuochi e le lampade sempre accesi e per le conseguenze del duro lavoro fisico di uomini e animali. La penombra sotterranea poi proteggeva l’olio d’oliva dalla luce, altro agente in grado di compromettere la qualità.

Fondamentali fattori economici poi determinarono la realizzazione dei frantoi nel sottosuolo perché adattare grotte e cavità esistenti, non richiedeva particolari ingegni d’opera, contrariamente agli edifici di superficie. Per scavare era sufficiente manodopera non specializzata poco costosa, e la manifattura richiedeva minime quantità di materiale da costruzione.

I frantoi semi-ipogei, cioè non completamente sotterranei avevano la struttura di copertura di solito a botte ed era di poco impegno economico perchè richiedeva poco tempo rispetto alla totalità del lavoro. Assai simile era la condizione dei frantoi ricavati negli spazi sotterranei degli stabili. Uno splendido esempio del semi-ipogeo è quello annesso al Palazzo dei Principi Protonobilissimo di Muro Leccese (Le) dove l’ambiente dell’edificio fu adattato al supporto per la grande macina in pietra con un architrave supplementare in muratura.

Molti trappiti durante l’ultima guerra hanno salvato la gente dalle bombe aeree. Una volta dismessi sono stati adibiti a depositi di attrezzature agricole, magazzini, pollai e molti sono ancora in completo stato di abbandono.

 

Testo e foto di Marco SERRI©

Redazione

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