LONDRA – La famosa stilista inglese è morta il 29 dicembre a Londra. Non è più tra noi una grande donna che con determinazione e coraggio con la sua action fashion ha contribuito enormemente a cambiare la mentalità della gente, rompendo le barriere tra modi di apparire e spingendo la moda verso un sincero e determinato impegno sociale e civile.
Nel 2008 o giù di lì, una grande mostra a Palazzo Reale (Milano) consentì a tutti gli appassionati cultori delle mode vestimentarie, una straordinaria carrellata storica delle creazioni di Vivienne Westwood, stilista inglese molto criticata all’inizio della carriera almeno quanto in seguito fu celebratissima dai media di tutto il mondo, tanto da renderla famosa quanto la mitica Mary Quant.
Grazie al quel grande evento in origine progettato dal Victoria & Albert Museum nel 2004 e spedito in giro per il mondo per far conoscere meglio una delle migliori interpreti dello stile british nella moda, grazie a quella grande mostra dicevo, anche le persone che della stilista conoscevano più che altro le provocazioni divulgate dai media, potevano farsi un’idea più ponderata sul come e perché Vivienne Westwood, stagione dopo stagione, sfilata dopo sfilata, veniva regolarmente descritta con l’entusiasmo e la reverenza che pochi creativi della moda potevano ambire a ricevere. Le sue sfilate erano sempre un avvenimento. I suoi colpi di creatività dei veri e propri eventi vestimentari.
Anche i più estremisti difensori dell’eleganza classica, armoniosa e vendibile, si inchinavano di fronte ad uno straordinario personaggio capace di osare contaminazioni impossibili, rischiando costantemente di oltrepassare quella linea di confine che localizzerebbe l’oggetto moda su un terreno quant’altri mai paludoso, a questo punto razionalizzabile solo attraverso usi esasperati di concetti come avanguardia, tendenza o di spettacolo.
Sono partito dalla mostra di Milano perché è stato grazie ad essa che ho capito che molti abiti della Westwood sono stati tra le altre cose, alcuni dei fenomeni di testualità della moda più intelligenti e belli apparsi negli ultimi quarant’anni. Con testualità intendo fare riferimento alla possibilità attraverso un abito di rinviare le eventuali emozioni del fruitore a significati che eccedono il registro funzionale ed estetico, invitandolo sia ragionare sulle condizione della sua costruzione e sia sulle significazioni concrete che attiva, in relazione a un contesto più esteso di quello della moda ordinaria, un contesto che proietta l’oggetto o la forma moda a contatto con la vita.
In un certo senso sto sostenendo che il modo di operare della Westwood è paragonabile all’arte di scrivere un romanzo che ci avvince perché parla di noi, dei nostri problemi; o al lavoro di un ricercatore che si mette in gioco accettando la sfida di un nuovo problema da risolvere che percepiamo essere d’importanza vitale.
Vivienne Westwood nacque l’8 aprile del 1941 a Glossop nel Derbyshire, primogenita di una famiglia modesta ma attraversata da insolite propensioni culturali.
Leggendo il saggio introduttivo nel catalogo della mostra citata che, come ho già detto, a partire dal 2004 ha portato in giro per il mondo una straordinaria rassegna degli abiti della grande stilista british, scritto da una informatissima Claire Wilcox, apprendiamo che fin da piccola Vivienne amava vestirsi in modo originale rispetto alle coetanee, facendosi da sé molti degli abiti che portava. Così, grazie alle sue trovate decorative e al suo primario, spontaneo anticonformismo, si distingueva nettamente dalla maggioranza delle adolescenti. Mi sembra di poter leggere in questa originaria scelta auto espressiva due tratti del carattere della futura stilista che si riveleranno decisivi: il bisogno di fare colpo con le apparenze a costo di apparire bizzarri e la capacità di mettere a profitto ogni suggestione, ogni materiale e segno culturale per attivare qualcosa che potremmo chiamare pulsione creativa oppure, ancor meglio, l’intelligenza applicata alle superfici specifiche della moda (il tessuto come seconda pelle e il corpo).
Il primo dei tratti che ho ricordato può essere stressato forzandoci nella direzione di una interpretazione estrema della semantica dell’abito, suscettibile di confondere e complicare il concetto di “identità ad una dimensione” tipico del senso comune. Con il senno di poi dobbiamo riconoscere che, senza una buona dose di esibizionismo è impossibile portare o semplicemente apprezzare un abito delle prime linee della stilista.
La seconda invariante del carattere della Westwood, l’ha resa una perfetta interprete di quel movimento dal basso che con un certo romanticismo veniva definito da giornaliste e studiose, moda di strada e più tardi etichettato nei termini di subcultura punk.
Anche se gli abiti fatti dalla stilista nei primi settanta sembrano provenire da un altro mondo rispetto le incredibili creazioni della sua maturità, è facile riconoscere in essi molte delle operazioni concettuali che la stilista sdoganerà negli anni ottanta, imponendo uno storico rinnovamento della couture.

Infatti le prime creazioni che la videro protagonista, le famose collezioni bondage e punk concepite sotto l’influenza di Malcom McLaren, avevano la geniale brutalità dell’oggetto configurato da un prevalente desiderio di distinguersi secondo i modi della ribellione e della provocazione; ovvero presentano una semantica essenziale ed emozionale dell’abito estremo che sopravanza di gran lunga l’interesse per gli aspetti tecnici e formali, come per esempio il grado di abilità manifestata dalla stilista nel dominio della sua materia o la ricerca di una forma il cui contenuto corrisponderebbe all’abbellimento del corpo. Ma in quel periodo era proprio l’incertezza tecnica e le deliberate imperfezioni a risultare così adatte per esprimere i contenuti di rottura dei codici vestimentari del mainstream, generando a livello di fruizione l’effetto traumatico tipico del punk.
Una t-shirt con una scritta offensiva o pornografica non ha bisogno di sartorialità per essere apprezzata; abiti fetish o stracciati non implicano tanto studi approfonditi sull’arte di costruire bei vestiti bensì un vertiginoso salto concettuale che porta a concepire le apparenze come lo strumento più importante per esprimere idee che trascendono i normali valori ad esse attribuiti.
Vivienne Westwood ebbe una formazione che non permise al suo talento di divenire un mestiere burocratizzato. Per fortuna, posso dire, non studiò da sarta. Adolescente si iscrisse ad un corso di argenteria, dal quale fuggì dopo un trimestre perché pensava che non avrebbe mai potuto mantenersi facendo quel lavoro. Pensava che le sue origini proletarie non le avrebbero consentito un atterraggio morbido nel mondo dell’arte. Comunque i rudimenti appresi e la sua naturale inclinazione a perdersi nel gioco creativo, le consentirono di mantenersi facendo bigiotteria. Nel frattempo lavorò in fabbrica per mettere da parte i soldi con i quali pagarsi un corso per divenire maestra elementare. Raggiunto questo obiettivo incontrò il sig.Westwood e coerentemente con le consuetudini di allora, velocemente se lo sposò.

A questo punto, con un mestiere di insegnante, sposata con un figlio, Vivienne poco più che ventenne aveva pagato il debito simbolico con ciò che la società pretendeva da una donna di umili origini, migliorando le condizioni della propria famiglia,
Questa identità piccolo borghese fu sconvolta dall’impatto con i grandi cambiamenti sociali della Londra anni sessanta ma soprattutto andò in pezzi per via dell’incontro con Malcom McLaren nel 1965. Più giovane della Westwood, apparteneva alla buona borghesia e si faceva una risata di tutto quello che le incuteva timidezza. McLaren studiava l’arte contemporanea, strombazzava le sue idee estetiche e politiche con la tipica intransigenza dei giovani anni sessanta ed era un agitatore nato. La relazione con questo diciottenne terribile, situazionista d’assalto, creativo sino alle soglie della demenza, inaugurò una fase della sua vita caratterizzata da esperienze esistenziali e creative sempre più aggressive, dissacranti, trasgressive. Fu in questo periodo contraddistinto da eccessi di ogni tipo, mascherati da impegno politico-culturale, che Vivienne fece decollare il suo talento. Rassicurata dagli incitamenti e forse dal confronto con McLaren, dal 1971 cominciò a disegnare vestiti per il negozio che avevano aperto a King’s Road, chiamato Let it rock, ispirandosi alle apparenze dei Teddy Boys. Nel ’72 fecero un restyling e chiamarono la boutique Too Fast To Live, Too Young To Die e passarono ad esplorare i modi di esibirsi dei nemici dei Teddy Boys ovvero i Rokers e i Bikers. Nel ’74 il loro negozio cambia ancora e diviene Sex: Vivienne cambia ancora genere e crea durissimi abiti fetish, bondage, perverts. Poi nel 1976 il duo, incalzato da un giornalismo che spesso li dipinge come una coppia di svitati, contribuendo in tal modo a trasformarli in eroi culturali, compie ancora una piccola rivoluzione nella loro boutique ribattezzandola Seditionaires, facendola diventare uno dei motori del simbolismo vestimentario punks.

Nel 1979 ancore un cambio d’insegna: Seditionaires, diventa Worlds End con collezioni molto fantasiose grazie ai look pirateschi.

Questo breve excursus sulle trasformazioni della boutique, aiuta a capire perché Vivienne e Malcolm a quel tempo apparivano ai londinesi per bene, come una coppia di spostati, incapaci di adattarsi alla più banali regole della società civile. E per contro, si capisce in modo altrettanto chiaro il loro ruolo di protagonisti della contro-cultura punk. La gestione della boutique di King’s Road, divenuta ben presto una specie di Mecca per artisti, stilisti, disadattati, puttane, esibizionisti, pervertiti, creativi borderline, era molto diversa da un normale negozio d’abiti. Vista dal di fuori, dallo sguardo curioso di un normale visitatore, sembrava dominata da una totale anarchia.

Per anni la coppia e il loro enturage, sempre perennemente agitati contro la società borghese, sempre alla ricerca della notorietà esplosiva e del colpo d’effetto capace di traumatizzare il “sistema” per incendiare le coscienze o per farle implodere, furono i beniamini del giornalismo di tendenza e al tempo stesso il terrore dei borghesi.
In realtà, divertendosi molto suppongo, applicavano alla musica (Sex pistol) e alla moda i modi del situazionismo, ispirandosi alle famose teorie di Guy Debord, autore della “La società dello spettacolo”, un libro serissimo, difficile da leggere almeno quanto era facile sbandierarlo come un nuovo Vangelo, scritto da un intellettuale intransigente, complicato e fuori dagli schemi, un libro dicevo, divenuto a pochi anni dalla sua pubblicazione una sorta di bibbia per disadattati evoluti. Utilizzando tutto ciò che prometteva lo scandalo assoluto la coppia divenne un punto di riferimento per tendenzialisti (persone che verso la metà degli anni settanta pensavano che l’unica moda che contasse fosse quella che rompeva i codici del sistema vestimentario), bohemienne e giovani artisti. C’è da dire che in quanto a creatività Malcolm e Vivienne erano favolosi. Furono loro a creare i simboli più evidenti del movimento di stile che il giornalismo definì punk.

Gli abiti che crearono in quel periodo contribuirono ad un cambiamento radicale nella moda, sperimentando le frontiere del mai visto prima che gli stilisti “normali” avrebbero saccheggiato una decade dopo.
Questa fase della vita della Westwood, caratterizzata più dal talento e da una intenzionale regressione tecnica piuttosto che da una vera applicazione a problemi di estetica dell’abito, terminò all’inizio degli anni ottanta quando oramai stanca e annoiata dal nichilismo punk cercò una via d’uscita. All’inizio la trovò con la già citata collezione Pirate, un tentativo di esplorare la struttura ottenuta con i tagli degli abiti maschili del settecento, ispirandosi alla figura del pirata, del pellerossa, del merveilleuses. Il passaggio dai funerei abiti punks alle sciolte, sbuffanti, coloratissime e divertenti apparenze dei nuovi pirati metropolitani non fu senza conseguenze. La Westwood cominciò a convincere ed attrarre persone che detestavano gli abiti troppo nichilisti ma che non volevano adattarsi al gusto corrente delle mode. Probabilmente i consensi conquistati rafforzarono il desiderio della stilista di studiare la cultura materiale dell’abito storico, che in seguito divenne il tratto di stile più evidente della sua piena maturità come creatrice di forme vestimentarie. Tuttavia questa collezione segnala anche una vera e propria svolta interiore, con effetti che investono l’intera vita. La relazione e la complicità estetica con McLaren terminò. Vivienne, senza mai negare le sue esperienze trasgressive, divenne una vera esperta sui modi del passato di tagliare gli abiti. Le sue visite ai musei tradizionali come la Wallace Collection o il Victoria & Albert museum, affinarono la sua visione della moda senza farle perdere l’approccio anticonformistico delle origini. Con un crescendo esaltante le sue collezioni si imposero come uno dei programmi di ricerca moda più innovativi e sorprendenti degli anni ottanta. Grazie allo studio rigoroso dell’arte e l’identificazione di problemi costruttivi specifici, la sua originaria intelligenza operativa sui problemi compositivi che pone la forma dell’abito, raggiunge virtuosità emulate da pochi altri stilisti della sua generazione. Negli anni novanta la notorietà della stilista è di valore assoluto. Quasi tutte le persone che amano la moda le riconoscono un’autorità per certi aspetti persino imbarazzante. C’è da aggiungere che l’aurea da guru della moda non scalfì affatto la personalità della Westwood.
La stilista continuò a mettersi in discussione senza indugiare troppo su ciò che poteva garantirle un facile successo. Per esempio all’inizio del XXI sec. mette all’improvviso da parte lo storicismo per ritornare a studiare certi primitivismi nel taglio che caratterizzavano le sue forme tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta. Poi si concentra sull’interazione tra stoffa e corpo, studiando la dinamica dell’abito, il modo in cui si può rendere vivo un taglio sartoriale apparentemente condannato ad una bellezza rigida. Da questi studi emergono forme sorprendenti che spiazzano le convenzioni strutturali della couture. Nel 2003 la sua collezione le Flou Taillé affronta il tessuto morbido e sciolto, di solito lavorato con operazioni specifiche, con modi che i colleghi riservano al taillé (il taglio sartoriale, dalle linee semplici e nette, aderenti al corpo e quindi apparentemente inadatto ai tessuti flou), trovando nuovi magici compromessi tra le costrizioni e le libertà percettivamente trasmesse dall’abito.
Innumerevoli sono le invenzioni vestimentarie attribuibili alla stilista. Tralasciando le t-shirt e le forme moda del periodo punk, possiamo citare il look rappresentato dalla gonna a tubo ricavata da un tubolare di maglia, dalla linea cadente, pancino in fuori, da portare con un top cortissimo. La mini-crini accoppiata con la giacca Princess (giacca corta, attillata, a doppio petto); i drappeggi delle gonne con sellino sormontate da giacca aderente e strutturata della collezione Pagan I (1988). Impossibile non citare la rivisitazione dell’abito maschile sulla donna composta da giacca Savile monopetto di harris tweed color senape con colletto di velluto nero, portata con collant in lycra con una foglia di fico all’inguine. Alla Westwood inoltre viene attribuita la rinascita del corsetto, la riproposizione di tagli seicenteschi che conferiscono alle stoffe tridimensionalità, interpretazioni ad hoc del sellino ottocentesco per vestiti a maglia e svariati tipi di gonne. Una delle mie preferite è la giacca Booze (2000): a partire dalla manica la stoffa intessuto di lana mélange subisce torsioni che si trasformano in un fraseggio di incredibili pieghettature. La collezione che vorrei nel mio immaginario museo del costume privato è Vive la Cocotte (1995), una stupefacente sintesi del passato che mi trasmette paradossalmente un senso di accentuata contemporaneità.
Molti commentatori, rivelando in realtà i propri limiti, sottolineano il fatto che gli abiti della Westwood non si vendevano facilmente. Non credo sia questa la realtà. Da quando D’Amerio, folgorato dalla bravura della stilista, ne ha curato la commercializzazione il fatturato ha raggiunto soglie di tutto rispetto, tale da garantire l’indipendenza assoluta della maison. E’ vero tuttavia che le logiche imprenditoriali non hanno mai appassionato Vivienne. Il suo talento è sempre stato riservato a problemi creativi. I suoi abiti sono spesso concettualmente complicati ma portabilissimi e vendibilissimi. Probabilmente per anni non hanno mai avuto il conforto di strategie commerciali efficaci.
Per certi rispetti le idee moda della stilista sono il rovescio della grande moda italiana del periodo. Io amo un mondo pluralista e mi piacciono le diversità. Non ho alcun problema nell’apprezzare l’armoniosa, fluente, comoda bellezza di una donna vestita da Giorgio Armani e al tempo stesso ammirare l’audacia di chi impreziosisce la vita di relazione con le sofisticate citazioni culturali implicite in molte delle forme create dalla Westwood. Mi concedo il piacere di un limitato sciovinismo aggiungendo che molti degli abiti della stilista sono stati fatti in collaborazione connostri importantissimi seppur sconosciuti (al grande pubblico) industriali del tessuto. Sono loro le vere fondamenta del Made in Italy.
Ma più degli abiti, certamente ragguardevoli, molti dei quali sono già da anni nei musei della moda di tutto il mondo, ho imparato ad ammirare l’onestà e l’autenticità dell’impegno civile e sociale di Vivienne Westwood. Da un certo punto in poi si può dire che non ci sia stata collezione che in qualche modo non fosse messa al servizio delle sue visioni ideologiche. Non conosco altri stilisti così coerenti e audaci verso problematiche che di solito chi lavora nella moda evita o trasforma in pallidi tentativi di partecipazione. Vivienne Westwood non aveva alcun timore nel prendere posizione. Lo faceva a suo modo, sfruttando il potere evocativo ed emozionale degli eventi che organizzava. Anche se non sempre mi trovavo d’accordo con le sue posizioni, il fatto che ci mettesse sempre la faccia, in qualche modo stimolava i miei interessi polarizzando l’attenzione su questioni, idee, scenari altrimenti sommersi dall’inflazione di stimoli, informazioni che quotidianamente sovraccaricano a nostra mente.
Nessuno meglio di Claire Wilcox ha saputo sintetizzare in poche parole il genio della Westwood ed è con una sua citazione che voglio terminare il mio umile contributo alla sua memoria, chiarendo tra l’altro l’aggettivo british usato all’inizio…
“I suoi disegni, spesso imitati e sempre in anticipo sui tempi, racchiudono una peculiarità britannica tutta speciale, un audace non conformismo che si combina con il senso della tradizione. L’inoppugnabile convinzione della Westwood, –Se ti vesti in modo da fare colpo vivrai molto meglio-, detta l’intera sua opera, dai primi modelli di Seditionnaires fino agli abiti di gran sera degli ultimi anni”.
In homepage foto MyWhere©
La boutique di Vivienne Westwood a Londra a porte chiuse in segno di lutto con omaggio di rose rosse.
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Si dice spesso che gli abiti riflettono il mutamento della società. Vivienne Westwood è stata la più importante protagonista di questi mutamenti per quasi mezzo secolo. L’ha fatto con coerenza e creatività. Chi può ereditarne il ruolo? Stella McCartney? Chiunque sia dovrà superare prove molto impegnative.
Capisco che in questo momento sia normale celebrare Vivienne Westwood anche esagerando un pochino. Ma non possiamo dimenticare che Kawakubo, J.P.Gaultier e anche il nostro Moschino proprio negli anni in cui VW si è trasformata in una vera stilista, hanno cambiato profondamente i codici della moda. Cosa aveva in più VW? mi è piaciuta la citazione della Wilcox: l’anticonformismo british è stato l’arma in più di VW.
Hai toccato un tema interessante e per certi rispetti, di difficile soluzione. Infatti presuppone una questione seria: esiste un canone d’eccellenza della moda? Molti critici e storici, hanno provato a configurarlo. Nessuno è risultato immune da contestazioni, da preferenze personali e così via… Perché sono propenso a collocare Vivienne Westwood più in alto rispetto agli altri stilisti che hai citato. Semplicemente perché è stata la prima nella fase punk a decostruire consapevolmente e in modo radicale la bellezza dell’abito occidentale, attivando significazioni mai esplorate dalla moda ordinaria.
Sono d’accordo. Ci ha lasciato una grande. Come mai non si parla quasi della rivoluzione che ha portato anche nella moda maschile?
Personalmente mi piacerebbe saperne di più sul curioso passaggio della Westwood dal punk all’alta moda. Conosco quella musica assurda fatta da imbecilli senza nozioni musicali. Il loro successo commerciale e culturale mi ha sempre lasciato basito. La Westwood si è tirata fuori da quella merda e ha fatto collezioni storiche. Tanto di cappello…
Senza il punk di Vivienne Westwood non ci sarebbero stati né Galliano e né McQueen. E poi ai gruppi punk non interessava fare musica commerciale.
Solitamente non credo troppo nell’impegno sociale dei grandi brand. Sbandierano proclami, progetti, iniziative che nessuno andrà mai a controllare. La Westwood invece era sincera. Ho seguiti sui giornali i suoi engagement con alcuni delle criticità che ogni persona informata dovrebbe temere. Il suo impegno era autentico.