MILANO – Nel Silos di Giorgio Armani è visitabile fino al 19 novembre una importante mostra dedicata al fotografo francese
I courator della mostra dedicata al grande Guy Bourdin hanno scelto come tema olistico per specificarne carriera e stile la parola Storytelling. Il concetto che si vuole trasmettere fin dal titolo dell’esposizione è semplice da capire: il fotografo avrebbe stimolato l’immaginario della moda ad esplorare l’efficacia delle narrazioni aldilà del genere ritratto o delle espressioni/pose del corpo (dagli anni sessanta in poi spesso strambe) che per decenni ne avevano dominato la codifica.
Per motivare la pertinenza di questo punto di vista sono state divulgate alla stampa notizie del tipo: Guy Bourdin amava tantissimo il cinema, in particolare i film di Hitchcock e quindi ecco spiegato l’effetto Noir di molte sue storiche immagini. A tal riguardo devo aggiungere che soprattutto quando era all’apice della sua carriera molte sue campagne fotografiche erano focalizzate su messe in scena cruente, nelle quali i protagonisti della violenza risultavano sconosciuti e l’immagine trasudava d’inquietudine, di mistero. Insomma l’assetto ambientazione (cupa, angosciosa) e l’assoluta mancanza di tratti consolatori di quelle foto evidentemente si correlavano ai caratteri distintivi di film noir congetturati fin dalla metà degli anni quaranta da alcuni critici francesi, in seguito organizzati in una una teoria da R. Borde e È. Chaumeton in un testo seminale apparso nel 1955, intitolato “Panorama du film noir amèricain, 1941-1953” (Flammarion).
Tuttavia penso di non sbagliarmi se aggiungo che molti fotografi prima di lui avevano cercato ispirazione nel lavoro di registi cinematografici, nelle loro inquadrature e nel montaggio che a un certo punto evidenziava le scene topiche di un film. Senza considerare i grandi reportage in località esotiche che dalla fine del Secondo conflitto mondiale divennero le storie più amate dal pubblico dei magazine di moda, tutti o quasi i grandi fotografi che conosco possono facilmente essere messi in connessione con una sorta di sguardo cinematografico che valorizzava immagini dalla valenza narrativa. Anche l’impaginazione e la grafica dei reportage di moda erano configurate per dare una significazione narrativa alle foto di un servizio. Cosa voglio dire? Mettiamola giù così: inquadrare il lavoro di Guy Bourdin dentro le cornici del storytelling seppur con un riferimento al noir di ispirazione cinematografica a me sembra riduttivo, ovvero non ci restituisce la specificità storica del grande fotografo. E se proprio devo dirla tutta, trovo una connessione tra le visioni di Bourdin e il cinema più con alcune sequenze magistralmente girate da Luis Bunùel, sintetizzate in segni iconici alimentati da un senso di mistero; e con alcuni film di Sam Peckinpah caratterizzati dal rallenti e da una violenza dirty che inaugurava il genere Pulp, rispetto agli ironici, eleganti tratti noir alla Hitchcock. Sono convinto che Tarantino sarebbe piaciuto tantissimo al fotografo se ahimè quest’ultimo non fosse morto nel 1991 (Pulp Fiction uscì nel 1994).
Allora, qual’è la specificità di Bourdin? La metterei giù così: il tratto che più lo distingue dai fotografi della sua generazione è il suo cercare ciò che potremmo definire Il colmo di una narrazione ovvero immagini che colpiscono per la loro audacia e sfacciataggine in modo provocatoriamente scioccante al punto da bloccarne ogni possibile sviluppo. Insomma, a me pare che il fotografo cercasse con commovente cinismo il punto di catastrofe narrativa suscettibile di imporre al nostro sguardo la percezione di un Tempo essenzialmente fotografico. Sono state soprattutto le campagne degli anni settanta per le scarpe del designer Charles Jordan ad esplorare questa dimensione dell’immagine nel contesto moda. Campagne che mi hanno fatto scrivere a suo tempo (vedi il mio intervento “Guy Bourdin, A Message for you”, pubblicato in questa rubrica) che il grande fotografo aveva per primo inserito di forza, in una ipotetica storia degli immaginari della moda, simulacri mortiferi e perversi distanti anni luce dal virtuale mondo possibile modaiolo sin lì protetto dalle robuste e forse un po’ ipocrite barriere etiche della bellezza glamour, o se volete della seduzione permanente. In anticipo di almeno un decennio il grande fotografo alludeva ad una dimensione post umana attraversata da un desiderio raggelante. In molti scatti percepivo un vero e proprio elogio del sex appeal dell’inorganico, per dirla con le indovinate parole del filosofo Mario Perniola.
A mia memoria, tra i grandi fotografi di moda, solo Avedon aveva fotografato la morte con altrettanta inquietante efficacia. Ma si trattava del padre. La veloce distruzione dell’esteriorità biologica dovuta al cancro. Ed erano foto che pubblicò più che altro sui suoi libri. Nessuna relazione, se non indiretta, con la moda.
Bisognerà attendere il grande Oliviero Toscani per ritrovare l’orrore nel campo fotografico fashion. Questa volta morte vera. David Kirby stroncato dall’Aids. Un delitto di mafia. Le vesti insanguinate di un soldato slavo…Tutto sotto l’ombrello del brand Benetton.
Uno degli stratagemmi usati da Guy Bourdin per evocare il post umano erano i manichini, fotografati insieme alle modelle come se ne condividessero le esperienze. Osservate la foto (2)
Non vi trovate il gusto ironicamente macabro prodotto dalla abilità del fotografo nel creare una singolare simmetria percettiva tra organico (modelle reali) e l’inorganico (il gruppo di manichini)?
Anche Helmut Newton, grande estimatore del lavoro del collega, nei ‘70 giocava duro con sembianti del corpo. Ma la sua intentio era chiaramente orientata a scioccare lo sguardo con una puntigliosa ricognizione delle perversioni degna di un manuale di psichiatria. Io non credo che Guy Bourdin fosse afflitto da agalmatofilia (attrazione sessuale verso bambole, manichini, figure antropomorfe). Non ce lo vedo eccitarsi e desiderare l’accoppiamento con un pur perfetto manichino. E nemmeno lo vedo attratto da un progetto iconografico dall’erotismo deviato. Penso piuttosto che l’appello visivo del sembiante umano o di parti di esso rappresentasse la volontà di mostrare l’altra faccia della moda. Come un secolo prima fece Giacomo Leopardi, con altri mezzi espressivi, nel suo famoso “Dialogo della moda e della morte’. Ma senza il fondo di ironica sfiducia del nostro scrittore e poeta. Insomma, uno scherzetto con note di compiacente cinismo in stile dadaista/surrealista. Non era forse un protegè di Man Ray?
Per tornare al tema centrale della mostra, qualcuno mi dica per favore dov’è lo storytelling nella foto (3).
Io vedo solo un mirabile gioco di superfici orchestrate da un rosso molto saturo (il colore della passione) e da un nero plasticizzato (il colore della depressione fasulla). Non c’è spessore, profondità, l’atto fotografico rimane aggrappato alla superficie degli oggetti. Niente storie o metafore..Pura enunciazione fotografica. Per certi versi, con queste immagini Guy Bourdin mi fa pensare ai romanzi di Robbe Grillet (esponente principale del Nouveau Roman che tra i ‘50 e i ‘60 si propose di liquidare la struttura narrativa lineare tipica del romanzo tradizionale, trasformando l’atto letterario in una indagine interna al linguaggio). Tuttavia trovo difficile immaginarle come “descrizioni” di qualcosa. Le definirei piuttosto “epifanie d’oggetto”. Un atto fotografico che palesa qualità artistiche che sovrastano l’attesa cognizione dell’oggetto merce. Un altro modo per parlarne sarebbe considerare il loro estremo realismo, tipicamente surreale. Nessun dubbio sul fatto che per la generazione di Guy Bourdin il surrealismo storico sia stato uno scontato punto di riferimento. Dal quale distillare immagini che presentano combinazioni inaspettate, sorprendenti, spesso scioccanti. Un riferimento alla dimensione onirica apparirebbe a questo punto scontato. Conosciamo bene l’interesse di Breton & Co per le teorie di Sigmund Freud (e anche cosa pensava l’inventore della psicoanalisi sulla pretesa degli artisti surrealisti di visualizzare i processi inconsci attraverso narrazioni definite oniriche per la loro stramberia). Io vedo la tipologia di immagini su cui mi sto soffermando, piuttosto come una allucinazione del reale. Osservate la foto (4).
Evidentemente sappiamo che in formato stampa, cioè impaginata su una rivista, in qualche modo il conto della produzione del dispositivo visivo in oggetto lo paga l’azienda cosmetica che in cambio chiede notorietà. Però la foto più che descrivere il supplemento di qualità offerto dal rossetto e dallo smalto al substrato biologico (labbra e unghie) cerca l’ingaggio percettivo per tramettere una immediata esperienza estetica che trascende sia le funzioni del prodotto sia gli slittamenti onirici. Più di un sogno (della merce) mi sembra di percepire una allucinazione dell’oggetto cioè la produzione di un piccolo trauma. Allora, si può certo sostenere che la narrazione è una risposta al trauma e che insieme producono qualcosa che ci attrae. Ma non bisogna confondere la materia di cui sono fatti: la prima è fatta di segni che si connettono, il secondo sprofonda nel biologico. Mi piace aggiungere che questo tipo di ricerche visive, senza storie e descrizioni esplicite di prodotti, basate sul dominio di una bizzarra e spesso traumatica percezione estetica coinvolsero altri grandi fotografi come Irving Penn e Hiro, dei quali Guy Bourdin fu un degnissimo competitor.
Ma a questo punto non vorrei essere frainteso. Raccontare storie animate da innervazioni semiotiche immerse nell’inconscio apparteneva al contesto culturale nel quale navigava Guy Bourdin. Soprattutto negli anni 60/70 le teorie delle varie correnti psicoanalitiche appassionavano gli intellettuali parigini più influenti. Per oltre due decadi i leggendari Seminari di Jaques Lacan furono occasione di accaniti dibattiti e di furiosi isterie di gruppo. Trovo dunque pertinente la messa in correlazione di molte opere di Guy Bourdin con il tentativo di raccontare l’oggetto proiettato su di un’altra scena. Ma usare il termine storytelling, e scusate se mi ripeto, mi pare poco incisivo, anche se indubbiamente i primi elogiatori del fotografo furono proprio i pubblicitari che di storytelling ci vivono.
Ho parlato sopra delle campagne shock per lo stilista Charles Jordan. Ma mi preme sottolineare che Guy Bourdin era capace anche di ineffabili momenti di grazia. Guardiamo insieme la foto n. (5):
L’ambientazione fotografica ci presenta in alto e per quasi tutto il campo fotografico un effetto “ombre cinesi” (tecnica artistica antichissima) che mostra la silhouette di due giovani ragazze in tenera conversazione. In basso la mancanza di una superficie semi-trasparente, satura di realismo l’immagine dei piedi impreziositi dalle gioiose calzature di Jordan suppongo, impegnati in una gioiosa danza come se volessero partecipare da protagonisti alla melodia emotiva inscenata dalle modelle. Storytelling? Preferisco inquadrare l’immagine con le parole di Gauguin: volete creare una immagine esemplare? Cominciate con tanto realismo e poi aggiungetegli un pizzico di mistero.
Le mostre di Guy Bourdin sono regolarmente accompagnate soprattutto nel web da una serie di informazioni sulla sua vita privata delle quali stento a comprenderne la logica. Informazioni del tipo: era basso, curava poco la propria immagine e persona, parlava con una voce gnolosa. Per farla breve, era un piagnucolone, noioso, incline alla depressione quanto scorbutico ed esigente nel lavoro, persino crudele con le modelle. Non fu forse abbandonato dalla madre quando aveva solo un anno? Vogliamo parlare del suicidio della moglie? Insomma, in modo subdolo si suggerisce al lettore che elementi biografici non ordinari siano probanti per spiegare la straordinarietà delle sue esperienze estetiche. Una colossale cazzata. Guy Bourdin era un esasperante perfezionista e come tale, quando riteneva che la realtà che gli mettevano davanti agli occhi non corrispondesse a ciò che solo lui vedeva, dava libero sfogo alla sua nevrosi. Allora, come tutti i perfezionisti rompeva le palle a redattrici, modelle, collaboratori, facendo nascere leggende sulle sue ossessioni. A questo gioco fatto di mezze verità trasformate dalla forma gossip in virus semantici letali per la reputazione, non si sottrassero nemmeno colleghi famosi come per esempio David Bailey che in un serissimo lungometraggio dedicato a Guy Bourdin diretto da Sean Brand (When the Sky Fell Down), dichiarava che il collega usava sonniferi non perché afflitto da insonnia bensì per sognare più a lungo. Boh! E poi ancora mah! Trovo il fondo di ironia appena dissimulata del commento di Bailey sul collega, decisamente deludente. È vero che l’esperienza interiore legata al sogno come processo di conoscenza è stata ridicolizzata dal razionalismo e del positivismo occidentale. Tuttavia molte culture in passato consideravano l’attività di sognare importante quanto ciò che si ricavava dalle percezioni e conoscenze fatte da svegli. Anche se per noi sognare ha sempre meno senso e per giunta difficilmente ricordiamo ciò che ci succede dentro la testa quando dormiamo, non sottovaluterei chi invece ha deciso di sviluppare attivamente le proprie attitudini oniriche. Come ho già detto i surrealisti hanno tentato di trasformare l’attività onirica in un catalizzatore della creatività. Probabilmente Sigmund Freud aveva ragione nel considerarli dei ciarlatani. Ma non dobbiamo dimenticare che lui stesso considerava il sogno come dispositivo (inconscio) di conoscenza. Sono disposto a credere che le parole di Bailey abbiano un fondo di verità. Ma personalmente trovo interessante il training notturno al quale Guy Bourdin si sottoponeva. Non credo possa spiegare il perché le sue opere continuino a parlarci. Ma di sicuro ci aiutano a comprendere quanto di se stesso mettesse in gioco nel suo lavoro.
Comunque lasciamo perdere, per favore, almeno in occasione di grandi mostre, discorsi approssimativi sulla soggettività e lo stile di vita degli artisti via via coinvolti (il Mondo 2 per Karl Popper) e focalizziamo piuttosto il senso delle opere che ci hanno lasciato anche loro malgrado. È noto infatti che, fosse dipeso da Guy, niente di quello che ha fatto sarebbe arrivato ai posteri. Per nostra fortuna gran parte dei suoi lavori non erano di sua esclusiva proprietà. E quindi oggi possiamo ammirare opere fatte da un uomo per altri uomini che esistono fuori da ogni intricato pasticcio esistenziale (il famoso Mondo 3 del filosofo citato sopra) per concepirle come modelli di creatività emersi dopo una violenta lotta con gli standard iconici del suo tempo.
Io non credo che fotografi come Mondino o LaChapelle, per citarne un paio, abbiano approfittato delle scoperte visive di Guy per affinare il proprio stile, andando sul set cavalcando un rinoceronte per emularne i coup de theatre ( sembra che un giorno Guy Bourdin sia veramente apparso davanti alla sede di Vogue a Parigi sopra a un cammello). Le opere di un artista nel preciso momento che entrano in un circuito pubblico esistono fuori dalla soggettività dell’autore. Possiamo amarle, odiarle, studiarle senza per forza implicare il paludoso mondo delle esperienze psicologiche dell’artista. Sappiamo bene che Mondo2 e Mondo3 interagiscono. Ma è solo in quest’ultimo che le cose fatte dall’uomo divengono una specie di linguaggio e come tale acquisiscono autonomia e la proprietà di dialogare nel tempo. Quando Guy Bourdin sentì avvicinarsi la fine scelse di voler scomparire insieme a tutto ciò che in qualche modo lo rappresentava. Purtroppo per lui era troppo bravo e le sue opere gli sono sopravvissute. Ma non sono sicuro che se, per non so quale miracolo, ricomparisse per vedere dall’alto o di traverso le mostre dedicate al suo lavoro, non sono sicuro dicevo che si incazzerebbe. Forse sarebbe sorpreso di ritrovarsi nel Silos di Armani dal momento che il nostro più celebre stilista non avrebbe mai approvato per il proprio brand una sua campagna; e di sicuro Guy avrebbe goduto molto nel tormentare la morbida e armoniosa bellezza elaborata da Giorgio Armani con Fallai, di quei giorni. Forse osservando dall’alto o di traverso, nel Silos, l’interesse e la disinvolta attenzione di un pubblico che nelle sue provocazioni oggi vede soprattutto una sensibilità artistica dalla valenza creativa encomiabile, forse dicevo, Guy troverebbe un po’ di pace, quella tutta interiore che nella sua vita troppo spesso scompariva (He si’, lo ammetto. I gossip quasi sempre un frammento di verità materiale ce l’hanno).
Armani/Silos
Via Bergognome 40 – Milano
Guy Bourdin: Storyteller
24 febbraio – 19 novembre 2023
Per info: www.armanisilos.com
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Ne ho lette tante su Bourdin. Per esempio che frequentava esperte di magia per ispirarsi. Ma per ispirarsi a fare cosa? Le sue foto sono perfette per la pubblicità o la moda. Si vede che ha una grande tecnica.
Le vicende private degli artisti non dovrebbero influenzare il giudizio sulle loro opere. Vale anche per Bourdin.
Dipende da chi usa il materiale biografico. Se la ricerca e l’analisi sono serie il discorso cambia. Certo che con internet la divulgazione di chiacchiere da bar che inquinano giudizi seri su tutto è un rischio che ben conosciamo.